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Albert Einstein

La teoria della relativita

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Albert Einstein

 

 


Albert Einstein (1879-1955) nacque a Ulm in Svevia, cioè nella Germania meridionale, il 14 marzo 1879, da una famiglia della media borghesia ebraica i cui antenati, a memoria d'uomo, erano sempre vissuti in quella zona; ma Albert era ancora in fasce quando gli Einstein si trasferirono a Monaco, una delle più grandi città della Germania. A Monaco il padre, Hermann Einstein (1847-1902), gestiva insieme al fratello Jakob (che abitava con lui) una piccola azienda di ingegneria elettrica e idraulica (Hermann curava la parte amministrativa, il fratello la parte tecnica). La madre di Albert si chiamava Pauline Koch (1858-1920); c'era anche una sorella minore, Maja (1881-1951).

Fin dalla più tenera età Albert si rivelò un bambino curioso e desideroso di apprendere. Aveva cinque anni quando il padre gli regalò una bussola; il piccolo ne rimase incantato, e fu colpito in modo particolare dal fatto che l'ago, seguendo un campo invisibile, puntasse sempre verso il Polo Nord. In un saggio autobiografico Einstein parlò di questo episodio come di una delle cause che, forse, l'avevano spinto a studiare il campo gravitazionale. Dai sei ai tredici anni prese lezioni di violino, incoraggiato dalla madre che aveva un certo talento per la musica; imparò bene, e continuò a suonare il violino per quasi tutta la vita. Tra il 1886 e il 1888 Albert frequentò una scuola pubblica a Monaco, ma la famiglia, pur non essendo rigorosamente osservante, dovette provvedere privatamente alla sua formazione religiosa. Nel 1888 ìl ragazzo fu iscritto al Luitpold Gymnasium, una scuola media e superiore di Monaco, che dopo essere stato distrutto durante la Seconda guerra mondiale è stato ricostruito in un altro quartiere e adesso si chiama Albert Einstein Gymnasium.

Fù al Gymnasium che nacquero quell'antipatia e quella diffidenza nei confronti dell'autorità che l'avrebbero accompagnato per tutta la vita; in seguito, parlando dei suoi anni di scuola, Einstein avrebbe paragonato i propri maestri elementari a sergenti dell'esercito e i professori del Gymnasium a tenenti. Fù il disgusto per l'oppressiva autorità prussiana a indurre il giovane Albert a rinunciare, qualche anno più tardi, alla cittadinanza tedesca e a chiedere quella svizzera. Nei suoi ricordi, i metodi del Gymnasium erano basati sulla disciplina, la forza e la paura; certo fu lì che imparò a contestare l'autorità (e, per la verità, tutte le opinioni comunemente accettate, il che può avere influito, suppongono alcuni biografi, anche sulla sua evoluzione scientifica). Nel 1891 accadde un altro fatto decisivo, che suscitò nel ragazzo lo stesso entusiasmo provato anni prima per la bussola: gli fu assegnato come libro di testo un manuale di geometria euclidea. Albert se lo procurò prima ancora che la scuola cominciasse, lo lesse da cima a fondo e rimase stupito. Aveva già cominciato a mettere in discussione le premesse della geometria di Euclide, e nel giro di vent'anni avrebbe creato una teoria rivoluzionaria basata sull'idea che lo spazio in cui viviamo sia non euclideo.

Nel 1894 Hermann Einstein si trasferì con la famiglia in Italia, a Milano, nella speranza di avere più successo negli affari. I genitori portarono con sé Maja e lasciarono Albert presso un lontano parente per consentirgli di terminare il ginnasio; ma il ragazzo decise di abbandonare la scuola e di raggiungere la famiglia in Italia. Del Gymnasium non sopportava la dura disciplina, e le materie alle quali si dava più importanza, cioè greco e latino, lo annoiavano. Voleva studiare più matematica e più fisica, due discipline che lo interessavano fin dalla prima infanzia. Così, dopo soli sei mesi, riuscì a farsi rilasciare da un medico un attestato in cui si diceva che, a causa di un esaurimento nervoso, il ragazzo aveva bisogno di raggiungere la famiglia in Italia per un perìodo di riposo. A quanto pare la dirczione della scuola lo vide andar via con sollievo, poiché riteneva che il suo comportamento nuocesse alla disciplina dell'istituto.

Al giovane Albert l'Italia piacque moltissimo; libero, finalmente, dal disprezzato ordine teutonico, il ragazzo rimase affascinato dalla mentalità di un popolo che sapeva esaltare tutti gli aspetti piacevoli della vita e aveva creato magnifiche opere d'arte. Albert viaggiò, visitò Ì più importanti musei dell'Italia settentrionale, si divertì moltissimo; ma il fallimento dell'impresa paterna ben presto lo ricondusse alla realtà: per poter proseguire gli studi e provvedere a se stesso era necessario conseguire il diploma. Albert credeva che la sua eccellente preparazione matematica e fisica gli avrebbe permesso di iscriversi all'università anche senza il diploma del Gymnasium, che aveva abbandonato, ma si sbagliava.

Infatti, nel 1895 non superò la prova dì ammissione all'Istituto federale svizzero di tecnologia (noto anche con la sigla ETH, acronimo del nome tedesco Eidgenòssische Technische Hoch-schule), dove sperava di iscriversi superando un esame. Anche se era andato straordinariamente bene in matematica, in altre discipline, per esempio lingue, botanica e zoologia, la sua preparazione non raggiungeva il livello richiesto dall'istituto. Ciononostante il direttore, colpito dalla competenza matematica del ragazzo, gli propose di iscriversi alla scuola cantonale di Aa-rau, sempre in Svizzera, per ottenere quel diploma di cui aveva bisogno. Einstein si iscrisse, ma con molta diffidenza, poiché non aveva dimenticato il clima di insensato militarisnio del Gymnasium; tuttavia, con sua grande sorpresa scoprì che la scuola svizzera era completamente diversa: non imponeva una disciplina di tipo militare, come succedeva in Germania. Così potè rilassarsi, studiare con profitto e farsi degli amici.

Abitava in casa di uno dei suoi insegnanti ed era ottimo amico del figlio e della figlia, con i quali faceva delle gite in montagna. Nel 1896, conseguito il diploma di scuola superiore ad Aarau, Einstein fece domanda d'iscrizione alla ETH e questa volta fu accettato. Aveva deciso di studiare matematica e fisica e pensava di dedicarsi all'insegnamento; lo affascinava l'idea di spiegare il mondo della natura per mezzo di concise espressioni matematiche: per lui la fisica era una scienza il cui scopo era trovare un'elegante equazione matematica che rendesse conto della realtà.

Il 29 ottobre 1896 Einstein si trasferì a Zurigo e si iscrisse alla ETH, dove avrebbe conosciuto due persone (più esattamente, due compagni di corso) che sarebbero state molto importanti nella sua vita: Mileva Marie, destinata a diventare la sua prima moglie, e Marcel Grossmann, un matematico che lo avrebbe aiutato a elaborare, dopo la laurea, la teoria della relatività. Nel secondo anno alla ETH conobbe anche Michele Besso, che sarebbe diventato l'amico di tutta una vita e la cassa di risonanza delle sue idee durante la fase di gestazione della teoria della relatività ristretta.

Nel primo anno alla ETH la carriera scientifica di Einstein cambiò dirczione in modo decisivo. Fino ad allora ciò che gli interessava era la matematica, ed era orgoglioso della sua buona preparazione in questo campo; ma una volta iscritto al politecnico decise che era la fisica a interessarlo e che la matematica era solo uno strumento per quantificare le leggi fisiche, per scrivere in modo conciso le leggi dell'universo scoperte dalle scienze fisiche. I corsi della ETH, tuttavia, non lo soddisfacevano, poiché i professori insegnavano teorie già vecchie, e non discutevano le ultime novità; così Einstein cominciò a fare quello che avrebbe continuato a fare per tutta la vita: imparare da autodidatta, leggendo e studiando per conto proprio. Di conseguenza frequentava poco le lezioni, e riuscì a inimicarsi molti docenti. E in matematica era anche peggio: poiché aveva deciso che si trattava solo di uno strumento, a lezione era poco attento. La cosa era evidente soprattutto durante le lezioni di Hermann Minkowski (1864-1909), un brillante matematico di origine russa, il quale si era talmente seccato dell'atteggiamento strafottente del ragazzo che in seguito lo definì un "cagnaccio pigro".

Ma il destino volle che fosse proprio lui, quando Einstein, pochi anni dopo essersi laureato alla ETH, elaborò la teoria della relatività ristretta, a creare un nuovo settore della matematica per descrivere appunto la fisica relativistica. Einstein pagò la propria noncuranza dopo la laurea. Oggi qualsiasi matricola sa che frequentare assiduamente le lezioni e prendere buoni voti sono cose importanti, ma per fare carriera è necessaria una cosa ancora più importante: riuscire a farsi scrivere delle belle lettere di raccomandazione dai docenti. Ai tempi di Einstein questa necessità era ancora più acuta; per continuare gli studi in una sede prestigiosa, un laureato doveva riuscire a farsi raccomandare da un professore di cui fosse stato assistente; e con gran delusione di Einstein, nessuno accettò di prenderlo con sé. Dovette lasciare la ETH per cercarsi un lavoro di insegnante o di precettore privato, e la sua situazione era ulteriormente aggravata dalle difficoltà finanziarie del padre che impedivano al giovane di ricevere un qualsiasi aiuto dalla famiglia.

Nell'estate del 1900 Einstein si laureò alla ETH, ma poiché non aveva trovato un posto di assistente, dovette cercare subito un mezzo per mantenersi, e per un paio d'anni sbarcò il lunario dando lezioni private.

Ottenuta la cittadinanza svizzera, il 16 giugno 1902 fu assunto dall'Ufficio brevetti di Berna, grazie al padre del suo ottimo amico Marcel Grossmann. Da principio l'impiego era temporaneo, ma dal 1904 divenne a tempo indeterminato. Albert era un cosiddetto "esperto tecnico": il suo lavoro consisteva nel valutare la qualità delle richieste di brevetto. Nei due anni precedenti molte cose erano cambiate nella sua vita: nel 1902 era morto il padre a Milano, e nel 1903 aveva sposato Mileva, che lo aveva seguito a Berna, nonostante l'opposizione della madre di lui, che non provava simpatia per la ragazza. L'Ufficio brevetti di Berna aprì prospettive interessanti al giovane scienziato. Sembra che il lavoro gli piacesse (d'altronde Einstein si divertì per tutta la vita a trafficare con aggeggi che lui stesso inventava, e a cercare di valutare quanto fossero utili) e soprattutto gli lasciava anche molto tempo libero, che Albert dedicava interamente allo studio e alla ricerca; in età matura diceva sempre ai giovani ricercatori che per uno scienziato creativo la cosa migliore è avere un lavoro poco impegnativo, "non intellettuale", che lasci del tempo libero per la ricerca, e non uno di quei soliti posti all'università che impongono non solo di insegnare ma anche doveri istituzionali e coinvolgono in beghe "politiche".

Da impiegato dell'Ufficio brevetti Einstein dedicava molto tempo alla lettura e alla ricerca. Nonostante alcuni biografi sostengano il contrario, conosceva bene le opere dei suoi contemporanei nonché di fisici (e cultori dì altre scienze) anteriori, e lesse anche filosofi famosi come Immanuel Kant, Auguste Comte, David Hume e Friedrich Nietzsche. Tra i fisici quelli che più influirono su di lui furono Galileo Galilei (1564-1642), Ernst Mach (1838-1916) e James Clerk Maxwell (1831-1879). Galilei era stato il primo a considerare la relatività dei sistemi in movimento, e nella sua opera, che già cominciava a prendere forma, Einstein avrebbe parlato spesso di sistemi di riferimento galileiani. Il fisico austriaco Ernst Mach aveva analizzato molto attentamente la meccanica di Isaac Newton (1642-1727), che aveva organizzato l'osservazione dei movimenti basandosi su alcuni semplici princìpi a partire dai quali arrivava a formulare delle previsioni.

Ma, si chiedeva Mach, queste previsioni erano per caso corrette solo finché lo erano le esperienze descritte da Newton? Nella scienza, sottolineava sempre Mach, dobbiamo osservare un principio di economia del pensiero, costruire modelli parsimoniosi che utilizzino il minor numero di parametri possìbile: è la versione matematica del rasoio di Ockham, il famosissimo principio secondo cui la teoria che ha la massima probabilità di essere corretta è la più semplice; nelle scienze matematiche questo significa che bisogna scegliere il più semplice fra i modelli o la più semplice tra le equazioni in grado di descrivere un qualsiasi fenomeno naturale. Inoltre Mach criticava Newton, anticipando le principali idee di Einstein, per aver dato credito ai concetti di "spazio assoluto" e "tempo assoluto"; in questo senso la sua filosofìa della scienza era relativistica, anche se rifiutava (a differenza di Einstein) la teoria atomistica perché alla sua epoca, cioè nel tardo Ottocento, non c'erano osservazioni dirette che provassero l'esistenza degli atomi. Per Mach ogni conclusione scientifica non era che un distillato di osservazioni fisiche; e fu proprio rifacendosi alla sua insistenza sull'empiria che Einstein rese la fisica relativistica e insieme precisa, facendo della teoria newtoniana un caso limite cui la relatività va incontro per velocità prossime a quelle riscontrabili nella vita di tutti i giorni.

Ma lo scienziato che più influì su Einstein fu il fisico scozzese James Clerk Maxwell, creatore del concetto, essenziale per tutta l'opera einsteiniana, di campo. La teoria di Maxwell spiegava i fenomeni elettromagnetici con un sistema di equazioni che descriveva un campo di forze, qualcosa di simile alle linee che osserviamo quando mettiamo una calamità sotto un foglio di carta cosparso dì limatura di ferro, e la limatura si dispone appunto lungo linee che hanno una configurazione ben riconoscibile e vanno da un polo magnetico all'altro; questa configurazione visibile non è che un'immagine del campo magnetico prodotto dalla calamità. L'opera di Maxwell ha dato alla scienza la possibilità di sbarazzarsi di concetti artificiosi come quello di "etere" (il presunto mezzo invisibile che permette alla luce dì attraversare lo spazio), e può essere considerata un prodromo della relatività einsteiniana, i cui elementi fondamentali sono appunto i campi. Ma anche altri scienziati diedero il loro contributo al patrimonio di conoscenze utilizzato dal giovane Einstein per creare la teoria della relatività speciale mentre era impiegato all'Ufficio brevetti di Berna; fra questi c'erano Hein-rich Herz (1857-1894), il fisico olandese Hendrik Lorentz (1853-1928), il cui lavoro sulle trasformazioni* ebbe un'importanza cruciale per l'aspetto matematico della teoria della relatività speciale, il grande matematico francese Henri Poincaré (1854-1912) e diversi altri.

Einstein formulò la teoria della relatività speciale nel 1905, e in quello stesso incredibile anno completò e pubblicò anche altri tre lavori rivoluzionari: sul moto browniano, sui quanti di luce e (come tesi di dottorato) sulle dimensioni delle molecole.

L'articolo sulla relatività ha cambiato le nostre idee di moto, spazio e tempo: ora lo spazio non era più assoluto, ma relativo al proprio sistema di riferimento; e l'idea di "sistema di riferimento" ne riecheggiava un'altra simile, proposta da Galilei tre secoli prima. Galilei si era chiesto che cosa sarebbe accaduto se si fosse lasciata cadere una sfera, rispettivamente, dalla sommità dell'albero di una nave e da una torre altrettanto alta sulla terra-ferma; nel primo caso il sistema di riferimento, cioè la nave, era in moto, nel secondo non lo era. Sulla nave in movimento, che ne sarebbe stato della palla? Sarebbe caduta a perpendicolo, come sulla terraferma, o sarebbe rimasta indietro rispetto alla nave? Einstein prese l'idea del sistema di riferimento in movimento e la trasportò nell'inesplorato territorio degli oggetti che si muovono a velocità prossime a quella della luce.

Nel nuovo mondo relativistico delineato da Einstein c'è un solo assoluto, la velocità della luce, e tutto il resto gira intorno a questo limite ultimo delle velocità. Lo spazio e il tempo si uniscono a formare lo spazio-tempo; si può dimostrare che un gemello che viaggia su una nave spaziale molto veloce invecchia più lentamente del fratello (o della sorella) rimasto a terra. Quando la velocità si avvicina a quella della luce gli oggetti in movimento cambiano, e il tempo si dilata, rallenta. Se un oggetto viaggiasse più veloce della luce, ma la relatività non lo permette, ritornerebbe nel passato. Lo spazio e il tempo non sono più rigidi ma plastici, e dipendono da quanto riusciamo ad approssimarci alla velocità della luce.

L'assolutezza e l'universalità del tempo erano un articolo di fede per i fisici: nessuno lo aveva mai messo in discussione. Il tempo era identico dappertutto e fluiva in modo costante. Einstein dimostrò che questi assunti erano semplicemente falsi: la grandezza costante era la velocità della luce, e tutto il resto (lo spazio, il tempo) doveva adeguarsi a questa costante universale. La teoria della relatività speciale trasformò in un'owietà uno dei più sconcertanti risultati sperimentali negativi mai ottenuti, il fallimento della ricerca dell'etere da parte di Albert Michelson e Edward Morley.

James Clerk Maxwell, che tanto aveva fatto per comprendere la natura e la cui teoria aveva profondamente ispirato Einstein, credeva, come gli altri scienziati del mondo prerelativistico, nella teoria dell'etere, che risaliva addirittura alla Grecia antica, e in una voce redatta per l'edizione del 1878 dell'Enciclopedia Britannica scrisse che "l'intero spazio è riempito da cima a fondo, e non una ma tre o quattro volte, dall'etere". Ma che cos'è l'etere? Si credeva che la luce e le altre radiazioni e particelle avessero bisogno di un mezzo attraverso il quale viaggiare; non che tale mezzo fosse mai stato visto, o comunque percepito, ma in qualche modo doveva esistere. Questo postulato era divenuto talmente universale che anche scienziati molto stimati lo prendevano sul serio; uno di questi era Albert A. Michelson (1852-1931), un fisico americano di grande ingegno, che nel 1881, mentre lavorava in un laboratorio di Berlino, venne a conoscenza di una lettera di Maxwell in cui il fisico scozzese si chiedeva se fosse possibile usare misurazioni astronomiche per rilevare la velocità del sistema solare attraverso l'etere.

Michelson, che era un esperto di misurazione della velocità della luce, ne fu molto colpito e si gettò a capofitto nella preparazione di apparati sempre più precisi, destinati a scoprire variazioni della velocità della luce che segnalassero una deriva attraverso l'etere. L'esperimento fu condotto in massima parte nel 1886, insieme al chimico americano Edward W. Morley (1838-1923), dopo il ritorno di Michelson negli Stati Uniti. I due scienziati misurarono la velocità della luce sia nella direzione della rotazione terrestre che in quella opposta; si aspettavano una differenza, ma non riuscirono a trovarla: non c'era né una deriva attraverso l'etere, né, a quanto pareva, un etere. Nel 1907 Michelson fu il primo scienziato americano a ricevere il premio Nobel; nel frattempo la teoria einsteiniana della relatività speciale aveva già spiegato al mondo perché Michelson e Morley avevano ottenuto un risultato così inatteso.

Non si sa bene quando Einstein venne a sapere dell'esperimento in cui Michelson e Morley avevano scoperto, sorprendentemente, che la velocità della luce, misurata con o senza la rotazione terrestre, non cambiava affatto; comunque usò considerazioni puramente teoriche, i suoi cosiddetti "esperimenti mentali", per stabilire che tale velocità rimane costante quale che sia quella con cui la fonte luminosa si avvicina all'osservatore o se ne allontana. Il suo biografo Albrecht Fòlsing descrive il giorno (era metà maggio) in cui, mentre era all'Ufficio brevetti di Berna, ebbe finalmente chiaro il principio della relatività speciale. Era una bella giornata, ricordò in seguito lo scienziato durante una conferenza tenuta a Kyoto nel 1922; aveva discusso per molte ore il problema dello spazio e del tempo con il suo amico Michele Besso e poi, improvvisamente, gli balenò la risposta. Il giorno dopo, senza nemmeno dirgli "ciao", lo investì con la spiegazione del principio di relatività: "Ti ringrazio! Ho completamente risolto il problema. La mia soluzione è stata un'analisi del concetto di 'tempo': il tempo non può essere definito in modo assoluto e sta in una relazione inseparabile con la velocità dei segnali".

Einstein spiegò a Besso l'idea di "simultaneità": nella relatività il tempo non è dappertutto lo stesso (per illustrare questa idea fece l'esempio dell'orologio di un campanile di Berna e di quello di un campanile di un villaggio vicino). La costante non era né il tempo, né lo spazio, ma la velocità della luce; e la teoria della relatività speciale spiegava tutto. E se si fosse scoperta una deriva attraverso l'etere? Fu molti anni dopo, nel 1921, quando ormai quasi tutti accettavano la relatività, che Einstein, giunto a conoscenza di un simile esperimento, pronunciò quella frase oggi famosa, "Dio è sottile, ma non dispettoso". Oggi queste parole sono incise su una lapide posta sopra il camino della common room* del dipartimento di matematica della Princeton University, a testimonianza della perenne validità della teoria della relatività speciale.

Einstein si rendeva conto che la relatività (la teoria della relatività "speciale" da lui costruita) era vera in un mondo senza oggetti dotati di massa; per la massa e la gravitazione era necessaria un'altra teoria. La teoria della gravitazione in uso allora era stata creata trecento anni prima da Isaac Newton, ma per chi capiva la relatività speciale era chiaro che la teoria di Newton era corretta solo nel caso limite di un mondo in cui le velocità fossero molto inferiori a quella della luce. Esistevano dunque, concluse Einstein, due teorie, la relatività speciale e la gravitazione newtoniana, ed entrambe funzionavano bene in certi casi limite: la teoria di Newton era valida per un mondo di basse velocità, ma in un universo in cui la velocità della luce, che è una velocità limite, avesse avuto un ruolo effettivo sarebbe stato necessario correggerla; e, analogamente, la relatività speciale, corretta fin quando la gravita è insignificante, avrebbe avuto bisogno di modifiche per essere ancora valida in un universo dominato da oggetti di grande massa. Se la velocità della luce è assoluta e il tempo stesso è relativo, allora, quando la teoria della relatività speciale diventa pertinente, quando cioè le velocità si approssimano a quella della luce, le leggi di Newton non possono più funzionare; le regole che governano gli oggetti in movimento non possono più essere le vecchie leggi newtoniane, quando il tempo diventa relativo: le due teorie si dovevano in qualche modo fondere per produrre una teoria generale della relatività, ovvero una teoria della relatività e della gravitazione. Ma come arrivarci?

Nel 1907, due anni dopo avere derivato il principio della relatività speciale, Albert Einstein, che allora aveva ventotto anni e lavorava all'Ufficio brevetti di Berna come esperto tecnico di seconda classe (era stato promosso dalla terza classe l'anno prima), cominciò a dedicarsi al problema della gravitazione.

Un giorno di novembre sedeva alla sua scrivania e rifletteva sulle conseguenze della relatività speciale, di cui aveva completato l'edificio concettuale due anni prima. Così descrisse quel portentoso momento molti anni dopo, nella conferenza del 1922 a Kyoto: "Improvvisamente mi venne un pensiero: se una persona è in caduta libera, non sente il proprio peso. Ebbi come una scossa. Questo pensiero così semplice mi fece un'impressione profonda, mi spinse verso una teoria della gravitazione". Al suo carissimo amico Michele Besso, che lavorava anch'egli all'Ufficio brevetti, Einstein disse che questa rivelazione era stata "Il pensiero più felice della [sua] vita". Cominciò a cercare di spiegare la gravita nel quadro della relatività; per questa via sarebbe arrivato a creare la teoria della relatività generale, cioè una teoria della relatività che incorpora la gravitazione.

Ma per quattro anni, dal 1907 al giugno 1911, osservò un misterioso silenzio sul problema della gravitazione; poi, nel 1911, si trasferì dalla Svizzera a Praga. Non sappiamo se in quei quattro anni abbia lavorato sulla gravitazione; pubblicò alcuni articoli sulla radiazione di corpo nero e sull'opalescenza critica, ma è impossibile dire se avesse o meno in mente l'importantissima questione della gravità e della sua relazione con la relatività. In ogni caso, l'uomo che aveva scoperto la teoria della relatività speciale, con la quale aveva rivoluzionato la concezione del mondo dei fisici, sul piano professionale non aveva ancora una posizione sicura. Il suo stipendio era sempre molto modesto, tanto che cercò persino di integrarlo insegnando all'Università di Berna (lavoro che gli pesava e non gli piaceva).

Il 4 aprile 1910, da Zurigo dov'era professore assodato, Einstein scrisse alla madre una lettera abbastanza sibillina: "Probabilmente sarò chiamato a una cattedra di ordinario presso una grande sede, con uno stipendio molto superiore a quello di adesso. Ma non mi è ancora permesso di dire dove". Disse la stessa cosa anche a qualche collega, e alcuni mesi più tardi il mistero venne chiarito: quella "grande sede" era l'Università tedesca di Praga. Così Einstein, che da adolescente aveva rinunciato alla cittadinanza tedesca per diventare svizzero e aveva creato la teoria della relatività speciale sul suolo svizzero, stava per entrare a far parte di un'università tedesca e per iniziare un cammino che l'avrebbe riportato a Berlino, la capitale di un paese verso il quale era tanto ostile.

Il primo problema che affrontò fu quello del principio di equivalenza da lui formulato a Berna quattro anni prima. Immaginò a questo scopo due sistemi di riferimento: uno in quiete, immerso in un campo gravitazionale, e uno senza tale campo ma uniformemente accelerato. In un articolo pubblicato quello stesso anno sostenne che le leggi newtoniane sarebbero dovute essere le stesse nell'uno e nell'altro e che tale equivalenza doveva essere derivata da una nuova teoria della gravitazione. Dunque il suo compito era proprio quello di cercare questa nuova teoria capace di comprendere sia il concetto di "gravitazione" sia quello di "relatività".

Subito dopo, sempre a Praga, derivò la legge dello spostamento gravitazionale verso il rosso. Partendo dal principio di equivalenza, ne dedusse che la frequenza di un raggio luminoso prodotto da un corpo di grande massa diminuisce, spostandosi verso l'estremo rosso dello spettro. Nel 1911 sapeva anche che era necessario incorporare la relatività speciale (che prevede uno spostamento verso il rosso della luce dovuto alla velocità con cui la fonte si allontana dal punto di osservazione) nella teoria della gravitazione, ma non sapeva come farlo. Non aveva ancora gli strumenti necessari a spiegare come e perché anche la gravita sposti la radiazione verso il rosso, sebbene fosse già in grado di dimostrare che esiste uno spostamento verso il rosso dovuto alla gravita.

Quando Einstein scoprì il principio della relatività speciale la matematica indispensabile per trattarlo esisteva già: c'erano le trasformazioni di Lorentz e la teoria matematica dello spaziotempo, elaborata da Minkowski, che aggiungeva la freccia del tempo alle tre dimensioni spaziali. Era così possibile un trattamento uniforme delle quattro componenti dello spazio-tempo einsteiniano nel quale gli eventi e le connessioni fra passato, presente e futuro erano rappresentati da coni in uno spazio quadridimensionale.

Nella figura è disegnata un'analogia bidimensionale: il cono-luce rappresenta la costanza della velocità della luce, che parte dall'origine. La distanza spaziale dall'origine (sul cono) è uguale al tempo trascorso. I punti sull'iperboloide hanno tutti la stessa distanza spazio-temporale dall'origine (elevata al quadrato). La metrica di Minkowski permette di misurare distanze spazio-temporali.

L'applicazione matematica era di tipo nuovo ma tecnicamente non risultava molto complicata perché i suoi elementi di base, i cosiddetti "vettori", erano noti da molto tempo. Ma a Praga, riprendendo l'idea di incorporare il concetto di "gravita" nella teoria della relatività speciale, Einstein capì di avere bisogno di una matematica molto più potente di quella che aveva usato, appunto, per la relatività speciale e che doveva toccare questioni delle quali sapeva pochissimo. La gravità rendeva non euclideo lo spazio, e per dominare questa curvatura erano indispensabili strumenti geometrici nuovi; bisognava imparare una matematica molto complessa, e Einstein partì per la parte più difficile del suo viaggio di scoperta: doveva chiamare a sé tutte le sue capacità di intuizione fisica e sposarle con una macchina matematica molto potente.

Lo strumento indispensabile per compiere questo passo fondamentale si trovava proprio a Praga, nella persona di un matematico di talento ma da sempre sottovalutato: Georg Pick. Pick aveva vent'anni più di Einstein, e i due si erano conosciuti subito dopo l'ingresso di Albert nella sua nuova università. Pick era esperto di un metodo matematico di cui Einstein aveva bisogno per sviluppare la teoria generale della relatività, perché conosceva i lavori di due matematici italiani, Gregorio Ricci (1853-1925) e Tullio Levi Civita (1873-1941); inoltre è probabile che abbia cercato di far conoscere le loro teorie al collega più giovane fin dal 1911, ma che questi non abbia voluto ascoltare i suoi buoni consigli fin dopo la partenza da Praga. Se avesse dato subito un'occhiata agli articoli dei due italiani avrebbe potuto risparmiarsi qualche anno di duro lavoro.

Il terzo pezzo di teoria generale della relatività da luì costruito a Praga riguardava l'ipotesi che gli oggetti massicci non agissero solo sui corpi rigidi, ma anche sulla luce; incominciò, in altre parole, a elaborare un principio che avrebbe finito per rivelarsi equivalente a qualcosa che aveva già "detto Newton secoli prima. La sua conclusione che un oggetto massiccio deflette la luce equivaleva infatti al principio newtoniano che un oggetto in viaggio nello spazio cambia traiettoria quando si avvicina a un corpo molto massiccio, che è poi lo stesso principio usato dalla NASA per cambiare direzione a una nave spaziale facendola girare intorno a un pianeta. Supponendo che la luce non fosse un'onda ma una particella, la teoria diceva anche di quanto sarebbe stato deflesso un raggio luminoso passando accanto a un oggetto massiccio: per un corpo con la massa del Sole e un raggio che lo avesse appena sfiorato, Einstein computò una deflessione di 0,83 secondi d'arco (il secondo d'arco è una misura di distanza angolare); evidentemente commise un errore di calcolo, perché il valore che avrebbe dovuto ottenere, date le premesse da cui partiva, era di 0,875 secondi d'arco, il quale, a sua volta, era circa la metà di quello esatto che avrebbe ottenuto quattro anni dopo, nell'ambito di una teoria generale della relatività ormai completa.

Ma i progressi erano evidenti, e Einstein sentiva sempre di più il bisogno di dare una prova fisica ai suoi risultati teorici. L'idea della deflessione della luce gli era già chiara mentre stava ancora in Svizzera, ma allora era convinto che l'effetto fosse troppo piccolo per poter essere osservato, e aveva già parlato ad altri scienziati della convinzione che la gravita agisse sulla luce ma in una misura probabilmente impossibile da controllare sperimentalmente. A Praga, tuttavia, ci ripensò; e una volta che ebbe in mano un valore preciso (purtroppo sbagliato; ma era pur sempre una deflessione ben determinata di un raggio luminoso) si chiese se gli astronomi potessero in qualche modo misurare l'effetto. Ciò che gli interessava era una verifica delle previsioni della sua teoria della gravitazione, non ancora completata: se si fosse riusciti a osservare la deflessione della luce, per la sua teoria ci sarebbe stata una felicissima conferma.

Già nel 1801 un astronomo tedesco sconosciuto ad Einstein, Johann Georg von Soldner, aveva avuto la stessa idea: applicare la teoria newtoniana della gravitazione ai raggi di luce, come se questi avessero avuto una massa, e usando la teoria (sempre newtoniana) della diffusione, basata sul presupposto che la luce sia formata da particelle, aveva trovato, per lo stesso problema affrontato un secolo dopo da Einstein, che un raggio che passi vicino alla superficie solare dovrebbe essere deflesso di 0,84 secondi d'arco. Era un valore incredibilmente vicino a quello di Einstein, nel quale si nascondeva un errore; probabilmente la discrepanza rispetto al valore newtoniano corretto (0,875 secondi d'arco) era dovuta a una stima imprecisa della massa solare. Ma la comunità dei fisici si accorse di von Soldner solo nel 1921.

Nell'artìcolo sulla deflessione della luce Einstein osservava che proprio gli astronomi potevano cercare le prove di questo fenomeno. Nell'estate del 1911 uno studente dell'Università di Praga, Leo W. Pollak, si recò a Berlino e ne visitò l'Osservatorio. Qui conobbe Erwin Finlay Freundlich (1885-1964), il più giovane degli assistenti. Freundlich era nato a Biebrich, in Germania, da padre tedesco e madre scozzese, e dopo avere conseguito il dottorato all'Università di Gòttingen era stato assunto dall'Osservatorio di Berlino. Pollak gli raccontò che Einstein era molto deluso perché gli astronomi non avevano accolto il suo suggerimento di controllare se fosse possibile rilevare sperimentalmente la deflessione della luce, e la sua descrizione delle idee einsteiniane conquistò a tal punto Freundlich, che il giovane astronomo accorse in aiuto di Albert; infatti subito dopo la visita di Poliak scrisse ad Einstein a Praga e si offrì di effettuare delle misurazioni sulla luce stellare che passava vicino a Giove per vedere se la gravitazione del pianeta la defletteva. Ma il tentativo non riuscì, e il 1° settembre Einstein gli scrisse una lettera per ringraziarlo dei suoi sforzi così insistenti e deprecare che non esistesse un pianeta più grande di Giove. Nonostante l'insuccesso di questi primi esperimenti, i due continuarono a collaborare per anni.

Einstein passò un'intera settimana, dal 15 al 22 aprile 1912, all'Osservatorio di Berlino, insieme a Freundlich. Nel 1997 Jiirgen Renn, dell'Istituto Max Planck per la Storia della scienza di Berlino, ha pubblicato per la prima volta sulla rivista Science i risultati dello studio da lui condotto insieme ad alcuni colleghi dì un taccuino con gli appunti presi da Einstein durante questa visita. Lo scienziato annota una serie di impegni quotidiani, ma scrive anche l'essenziale di una stupefacente scoperta che ha appena fatto: la lente gravitazionale. Si tratta di un effetto che si verifica quando la luce di una stella o di una galassia lontana raggiunge l'osservatore passando per una stella o una galassia intermedia. Einstein aveva capito che in una tale situazione la luce viene deflessa in modo simmetrico, con i raggi che girano intorno al corpo intermedio da tutti i lati, e questo effetto la mette a fuoco proprio come se passasse attraverso una lente di cristallo. Ciò significa che la "lente gravitazionale" fornita dalla stella che si frappone tra l'osservatore e l'oggetto lontano può ingrandire quest'ultimo, permettendo all'osservatore di vederlo meglio. Oggi gli astronomi usano le lenti gravitazionali per osservare galassie molto fioche e lontane la cui luce passa accanto ad altre galassie, più vicine, che la mettono a fuoco; e a quel punto si usano i computer per "depurare" la luce distorta dall'effetto di lente gravitazionale. Sappiamo però che nel 1912 Einstein non diede molta importanza alla sua scoperta: pensava infatti che non sarebbe mai stato possibile osservare l'effetto.

La teoria generale della relatività, ovvero la nuova teoria della gravitazione, era un problema troppo difficile per poterlo risolvere in quell'unico anno praghese; per completarla gli ci sarebbero voluti altri cinque anni, e molta più matematica di quanta ne conosceva allora. Riuscì però ad arrivare, partendo da ciò di cui allora disponeva, a due scoperte importanti. La prima fu che quando un raggio luminoso attraversa un campo gravitazionale subisce uno spostamento verso il rosso; infatti quando il raggio è sottoposto, poniamo, all'azione gravitazionale di una stella perde energia, e poiché la velocità della luce è costante (questo è il principio base della teoria della relatività speciale) la gravita della stella agisce sulla frequenza della luce e sulla lunghezza d'onda a essa correlata: la prima diminuisce (l'onda luminosa ha meno picchi nell'unità di tempo); la seconda, corrispondentemente, aumenta; e poiché le lunghezze d'onda maggiori sono associate alla luce rossa, non a quella violetta, questo aumento è detto "spostamento verso il rosso".

A Praga Einstein scoprì appunto (per via puramente teorica) il fenomeno dello spostamento gravitazionale verso il rosso. La seconda scoperta generata dalla sua teoria ancora embrionale fu che la luce, quando gira intorno a un oggetto massiccio, si deve incurvare; infatti un oggetto massiccio come una stella incurva, cioè rende non euclideo, lo spazio circostante, per cui un raggio luminoso che gli passi vicino dovrà pure piegare, cioè seguire la curvatura dello spazio (tuttavia il valore della deviazione calcolato da Einstein era ancora quello della teoria di Newton, cioè la metà di quello vero). Con queste due scoperte, più alcuni lavori in altri settori della fisica, Einstein era ormai pronto a tornare in Svizzera.

Continuando a studiare il problema della gravitazione e a cercare di inserirlo nella cornice della relatività speciale, Einstein giunse a una conclusione sconvolgente: lo spazio non è euclideo. Verso la fine del soggiorno praghese, pochissimo tempo prima di accettare l'offerta di una cattedra alla ETH e decidere di tornare in Svizzera, scrisse infatti un articolo, pubblicato l'anno dopo sulla rivista Annalen der Physzk, nel quale enunciava una tesi rivoluzionaria, risultato delle sue ricerche sullo spazio e la gravita: le leggi della geometria euclidea non valgono più in un sistema in moto rotatorio uniforme. In un sistema del genere la circonferenza (per la teoria della relatività speciale) si contrae, lo spazio si deforma, le linee rette non esistono più come tali e il rapporto fra la circonferenza del sistema e il suo diametro non è più Pi. Poiché (per il principio di equivalenza ottenuto da Einstein a Berna) una rotazione uniforme produce effetti che equivalgono a un campo gravitazionale, ne derivava una conclusione strabiliante: vicino a un oggetto massiccio lo spazio non è euclideo.

Einstein aveva forza di volontà e fretta di concludere, ma aveva anche bisogno di una solida base matematica per le sue rivoluzionarie teorie; si costruì buona parte di questa base con l'aiuto degli appunti di uno che era stato uno studente molto migliore di lui, Marcel Grossmann (1878-1936). Nato a Budapest da una famiglia svizzera da molte generazioni, a quindici anni Grossmann rientrò in Svizzera, vi concluse le scuole superiori e dal 1896 al 1900 studiò alla ETH di Zurigo. All'Università di Zurigo studiò matematica, specializzandosi in geometria e conseguendo il dottorato. Nella maturità scrisse vari articoli e libri di testo sulla geometria non euclidea.

Al contrario di Einstein, che fu suo compagno di corso alla ETH intorno al passaggio di secolo, Grossmann era uno studente molto coscienzioso, andava sempre alle lezioni e prendeva appunti meticolosi. Frequentò i corsi di Minkowski e di altri matematici e fisici della ETH, e in seguito i suoi taccuini di appunti, oggi conservati ed esposti al pubblico negli archivi della ETH, ebbero per Einstein un'importanza cruciale, perché gli servirono a elaborare quella matematica di cui aveva assoluto bisogno per produrre la teoria della relatività generale. Ma Albert aveva con il suo amico Grossmann anche un altro debito: quando, giovanissimo, si era trovato senza lavoro, era stato il padre di Grossmann a trovargli un posto all'Ufficio brevetti di Berna. Nel 1905, l'anno in cui pubblicò il suo primo articolo sulla relatività speciale e l'equazione E = mc2, Einstein presentò la sua tesi di dottorato all'Università di Zurigo, e la dissertazione, intitolata Su di una nuova determinazione delle dimensioni molecolari, era dedicata a Marcel Grossmann.

Verso la fine del 1911 Grossmann contattò Einstein a Praga e gli propose di tornare in Svizzera per insegnare alla ETH. Albert ormai riceveva offerte da numerose università europee, ma l'idea di accettare quella della ETH e di rimettere piede sul suolo elvetico lo entusiasmò. Per potersi insediare a Praga aveva dovuto prendere la cittadinanza austroungarica, ma non aveva abbandonato quella svizzera; così, all'inizio del 1912, tornò nel paese che tanto amava.

Einstein era giunto alla conclusione che lo spazio non era euclideo, ma aveva bisogno di un sostegno matematico, e per ottenerlo si rivolse al suo vecchio amico. Secondo alcuni biografi e autori di studi sulla relatività, Einstein non era un buon matematico: niente potrebbe essere più falso! Lo scienziato che ha dato al mondo le teorie della relatività speciale e generale era un matematico superbo. Il problema era che da ragazzo, mentre era studente alla ETH, non si era molto interessato ai corsi di matematica. Ne sapeva già abbastanza, in materia, da inventare la relatività speciale, e tutte le altre nozioni che gli servivano era in grado di ricostruirle da solo. Da questo punto di vista, i suoi rapporti con un matematico di valore come Hermann Minkowski sono significativi: Einstein non prendeva sul serio le sue lezioni, ma qualche anno dopo, quando la relatività speciale venne accettata dalla comunità scientifica, fu proprio Minkowski a sistemare l'apparato formale della teoria, il cui spazio quadridimensionale viene spesso chiamato "spazio di Minkowski". Grossmann era invece uno studente di matematica molto serio, e i suoi taccuini occupano un posto veramente speciale nella genesi della teoria della relatività generale.

Una volta tornato alla ETH Einstein si rese conto di avere un urgente bisogno di aiuto: se lo spazio non era euclideo doveva capirne bene la geometria prima di sviluppare ulteriormente le sue idee sulla gravitazione e la relatività; della geometria reale dello spazio, infatti, sapeva poco o niente. Grossmann tirò fuori i suoi appunti di inizio secolo, ormai ingialliti, e cercò qualche suggerimento. Da dove poteva partire Einstein per costruire il suo modello dell'universo e della forza di gravita? Gli appunti (e i suoi successivi lavori di geometria) rivelarono a Grossmann che i metodi di cui Albert aveva specificamente bisogno erano stati creati nel tardo Ottocento da due matematici italiani, Gregorio Ricci e il suo dotatissimo allievo Tullio Levi Civita. Anche Georg Pick aveva detto ad Einstein che l'opera di questi due autori poteva aiutarlo a elaborare la matematica di cui aveva bisogno per creare la sua teoria, ma, come abbiamo visto, Albert non gli aveva dato retta. Adesso però, con Grossmann a fargli da guida nel mondo della geometria, era ansioso di ascoltare.

Di per sé, le geometrie non euclidee non potevano dare risposta alle domande di Einstein; sono geometrie che descrivono lo spazio usando nozioni quali "linea", "angolo", "parallela", "cerchio" ecc., mentre lui aveva bisogno di molto di più, e soprattutto di invarianza. Le buone leggi fisiche sono invarianti, cioè non cambiano mutando sistema di riferimento o unità di misura: per fare 200 chilometri in macchina a 100 chilometri all'ora ci vogliono due ore, e se indichiamo la distanza in miglia e la velocità in miglia all'ora la risposta non cambia. Einstein cercava uno strumento matematico che gli permettesse di trascendere la curvatura dello spazio, il suo aspetto non euclideo, così che le variabili della teoria restassero valide per quahiasi tipo di curvatura, e Grossmann gli aveva messo generosamente a disposizione appunti e bibliografia, ma ciò non bastava a risolvere l'enigma della gravitazione.

Nel 1912, dopo avere lavorato sul problema per mesi, Einstein si decise a supplicare l'amico: «Grossmann, devi aiutarmi o divento matto!». Marcel diede ascolto alla supplica e cominciò a collaborare di buona lena; il risultato fu una serie di articoli sul problema della gravitazione, scritti insieme, che rappresentavano un ulteriore passo verso una teoria generale della gravita, ma non arrivavano ancora a una comprensione completa dei complicati fenomeni che pretendevano di descrivere.

Fu allora che Einstein rivolse la sua attenzione al concetto di "tensore", che ci aiuta a mettere in luce la sempre maggiore complessità della matematica necessaria per risolvere i problemi della relatività (prima di quella speciale e poi di quella generale, ancora più complicata). I sistemi molto semplici possono essere descritti da equazioni i cui elementi sono variabili che stanno per singoli numeri. Una retta, per esempio, è caratterizzata da un'equazione della forma y = ax + b, dove x e y sono numeri mentre a e b sono coefficienti, cioè di nuovo numeri. In una retta con inclinazione a = 2 e altezza b = 3, per x = 5 y sarà, risolvendo, 2(5) + 3 = 13, Quando i problemi diventano più complicati possiamo avere bisogno di più equazioni, o di un'equazione le cui variabili sono insiemi di numeri; così x può diventare un vettore, cioè un insieme di numeri presi in un ordine determinato, e lo stesso vale per y come per qualsiasi altra variabile. In fisica la velocità, la forza e l'accelerazione sono sempre vettori, dato che hanno tutte sia una grandezza sia una direzione, e dunque vengono sempre definite come insiemi di numeri.

Ma ciò di cui aveva bisogno Einstein era una generalizzazione che dai vettori lo portasse a un livello di complessità ancora più elevato: aveva bisogno di tensori, cioè di variabili che sono estensioni del concetto di "vettore". Nello spazio tridimensionale un vettore ha tre componenti; in quello stesso spazio, un tensore (del secondo ordine) ne ha 32 = 9; inoltre conserva il principio di invarianza di cui Einstein aveva bisogno e rende conto della variabile in una situazione complessa. D'altronde, la relatività generale poneva problemi davvero complicati: si dovevano considerare dieci grandezze, denotate da simboli della forma guv, che definivano la curvatura di uno spazio a quattro dimensioni {le tre spaziali ordinarie più il tempo). Quella "strana bestia" che rendeva conto della curvatura guv era un tensore, il cosiddetto "tensore metrico", che fornisce una misura della distanza in uno spazio curvo; solo che la matematica indispensabile per ottenere risultati che avessero un senso non era ancora disponibile. Ci voleva qualcosa d'altro, qualcosa di più generale dei concetti costruiti da Ricci e Levi Civita, che permettesse di manipolare il tensore metrico in modo che il principio d'invarianza restasse valido per qualsiasi trasformazione delle equazioni; ci voleva un modo di trascendere la curvatura dello spazio, quale che fosse la sua forma. Il lavoro con Grossmann aveva fornito ad Einstein un'invarianza solo'rispetto alle trasformazioni lineari, e questo era un risultato troppo limitato per gli obiettivi che si poneva, ma SÌ rese conto di queste carenze solo nell'estate del 1913.

Ma nella primavera del 1913 Einstein ricevette una visita che avrebbe mutato profondamente la sua vita, e lo avrebbe portato, ancora una volta, a lasciare la Svizzera e a trasferirsi in un altro paese: a Zurigo vennero a trovarlo Max Planck (1858-1947) e Hermann Walther Nernst (1864-1941). Planck, il più grande fisico dell'epoca, che aveva avuto un ruolo determinante nella nascita della teoria dei quanti, era l'unico scienziato per il quale Einstein nutrisse una vera ammirazione (fu lui stesso a dichiararlo, molti anni dopo); sappiamo, d'altronde, che l'ammirazione e la stima erano reciproche. Planck e Nernst, che era un chimico, si erano impegnati moltissimo da fare in modo che Einstein fosse chiamato a lavorare all'Università di Berlino.

Si è molto discusso sul trasferimento di Einstein a Berlino. Che cosa spinse lo scienziato ad accettare l'offerta di Planck e Nernst e a lasciare Zurigo per fare ritorno in Germania? Malgrado l'antisemitismo crescente, Berlino era un centro scientifico molto più importante della città elvetica; inoltre, nell'università tedesca Albert non avrebbe avuto l'obbligo di insegnare (Einstein si lamentava spesso del fatto che l'insegnamento sottraeva troppo tempo e troppe energie alla ricerca); infine, voleva svolgere la propria attività vicino a un grande osservatorio astronomico: in quegli anni, infatti, desiderava più che mai una prova astronomica di quel principio della deflessione della luce che la sua teoria della relatività generale, benché ancora immatura, implicava; e a Berlino c'era almeno un astronomo con il quale era già regolarmente in corrispondenza, Erwin Finlay Freundlich.

Einstein non si accorse subito delle insufficienze delle equazioni che aveva elaborato insieme a Grossmann. All'inizio del 1913 scrisse all'amico Paul Ehrenfest (1880-1933) una lettera nella quale riassumeva così i risultati ottenuti: La questione della gravitazione si è chiarita con mia piena soddisfazione. Si può dimostrare, specificamente, che non possono esistere equazioni generalmente covarianti che determinino completamente il campo a partire dal tensore di materia.

Nel giro di due anni, tuttavia, prima riconobbe il proprio errore, e poi ottenne delle equazioni generalmente covarianti, cioè le sue equazioni del campo gravitazionale. Ciò avvenne a Berlino, al culmine della Prima guerra mondiale; ma a Zurigo aveva lasciato un curioso taccuino in cui derivava varie equazioni e cercava anche di arrivare alla tanto desiderata formula del campo gravitazionale. Il quaderno sarebbe stato ritrovato ottant'anni dopo, portando a scoperte del tutto inattese sul modo di lavorare dello scienziato.

(Tratto da "L'equazione di Dio" di Amir D. Aczel - 2000 Il Saggiatore)

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Nel 1932, a causa delle persecuzioni antisemitiche naziste, fu costretto ad abbandonare la Germania per essere accolto a braccia aperte in USA.


Einstein, naturalizzato cittadino americano, si stabilì a Princeton, dove insegnò presso l’Institute for Advanced Studies fino al 1945, anno del suo ritiro dall’attività accademica.
Indubbiamente, specie per un uomo mite e semplice, la vita di Einstein, almeno fino al 1932, fu alquanto tumultuosa; alcune frasi tratte dalle sue memorie e dalle sue lettere sono, a questo proposito, significative: “Sono un uomo senza radici”, “Un viaggiatore solitario”, “Non è molto importante dove ci si stabilisce”, “L’ideale per un uomo come me è quello di sentirsi a casa sua ovunque con i suoi cari… anche se non sono mai appartenuto al mio paese, ai miei amici o alla mia famiglia, con tutto il cuore”.
Nella storia del potere creativo del pensiero umano Einstein rappresenta un simbolo, un personaggio che ha colpito la fantasia della gente, uno scienziato che ha dato un alto e qualificato contributo allo sviluppo della fisica moderna.
La sua posizione di fronte alla scienza è sintetizzata da queste parole, tratte da un suo scritto: “Con l’aiuto delle teorie fisiche cerchiamo di aprirci un varco attraverso il groviglio dei fatti osservati, di ordinare e intendere il mondo delle nostre impressioni sensibili. Aneliamo che i fatti osservati discendano logicamente dalla nostra concezione della realtà. Senza la convinzione che con le nostre costruzioni teoriche è possibile raggiungere la realtà, senza convinzione nell’intima armonia del nostro mondo, non potrebbe esserci scienza”.
Quest’uomo che disprezzava la violenza e la guerra fu, suo malgrado, doppiamente coinvolto nella realizzazione della più terrificante arma utilizzata nell’ultimo conflitto mondiale. Einstein, infatti, oggi viene considerato dall’opinione pubblica (senza alcuna realtà storica) il padre putativo della bomba atomica: in primo luogo perché uno dei risultati della teoria della relatività, riguardante la cosiddetta equivalenza massa-energia (E = mc^2), doveva rappresentare il punto di partenza del successivo sviluppo dell’energia nucleare; in secondo luogo perché si deve al suo intervento (voluto da altri) e al peso della sua autorità scientifica se il governo degli Stati Uniti d’America mise a disposizione i colossali capitali che portarono alla costruzione (progetto Manhattan) della bomba che fu lanciata su Hiroshima.

Nella storica lettera del 2 agosto del 1933 inviata da Einstein al Presidente Roosevelt si legge tra l’altro: “Alcuni recenti lavori di E. Fermi e di L. Szilard, che mi furono presentati manoscritti, mi convincono che l’elemento uranio possa essere usato come nuova e importante fonte di energia, una sola bomba…”.
Tornando alle ricerche teoriche di Einstein, dobbiamo ricordare la classica memoria apparsa nel 1916, Die Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie (I fondamenti della teoria della relatività generale), frutto di oltre dieci anni di studio. Questo lavoro, considerato dallo stesso autore il suo maggior contributo scientifico, riuscì fra l’altro a spiegare alcuni effetti prodotti dai campi gravitazionali, come le deviazioni dell’orbita del pianeta Mercurio, la curvatura dei raggi luminosi e il cosiddetto spostamento verso il rosso delle righe spettrali della luce proveniente dal Sole.
A parte qualche primo lavoro giovanile, tutta l’opera di Einstein praticamente è rivolta alla geometrizzazione della fisica. Fino agli ultimi anni di vita egli tentò più volte di elaborare una teoria unitaria dei campi, una teoria capace, cioè, di unificare su una comune base geometrica i fondamentali campi allora meglio conosciuti: il campo gravitazionale e quello elettromagnetico.
Nonostante lo sforzo di elaborazione teorica, i risultati non furono quelli sperati. “La natura non si lasciò convincere a fare ciò che forse non è nella sua stessa natura”.
Grande fu anche l’impegno di Einstein nel cercare di presentare in forma accessibile al più largo pubblico i concetti più significativi delle sue qualificate ricerche. Spesso soleva affermare che nessuno pensa con le formule e che le idee fondamentali della fisica si possono anche esprimere in forma chiara, semplice e intuitivamente logica, in modo che queste idee possano incidere sul costume, sul modo di pensare e sul senso comune della gente. Nella prefazione di una sua monografia a carattere divulgativo (Relatività: la teoria speciale e generale) afferma: “Il libro è scritto per coloro… che non hanno conoscenza del formalismo matematico… Per raggiungere la massima chiarezza mi è parso inevitabile qualche volta ripetermi; senza avere la minima cura per l’eleganza dell’esposizione ho scrupolosamente seguito il precetto del geniale fisico L. Boltzmann, secondo cui i problemi dell’eleganza vanno lasciati al sarto e al calzolaio”.
Dopo la Seconda guerra mondiale, Einstein cercò in tutti i modi di favorire la pace nel mondo, promuovendo una vasta campagna popolare contro la guerra e le persecuzioni razziste. Proprio una settimana prima della sua scomparsa, unitamente ad altri sette premi Nobel, compilò insieme a Bertrand Russell una dichiarazione pacifista contro le armi nucleari. Questo messaggio postumo all’umanità, che rappresenta una specie di testamento spirituale dello scienziato, termina con queste parole: “Noi rivolgiamo un appello come esseri umani a esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto. Se sarete capaci di farlo è aperta la via di un nuovo paradiso, altrimenti è davanti a voi il rischio della morte universale”.
Per concludere vogliamo sottolineare come l’idea della morte non lo turbava molto; spesso diceva che se ognuno riflettesse sulla ineluttabile realtà della fine a cui è destinata l’umanità, forse gli uomini cambierebbero in meglio il loro modo di vita.
Alcuni mesi prima di morire, già fortemente ammalato, disse: “voglio andarmene con eleganza quando decido io (aveva più volte rifiutato una operazione consigliata dai medici); in fondo ho fatto la mia parte; ormai è ora di andarmene”.
Poco tempo dopo queste lugubri considerazioni Einstein moriva il 17 aprile del 1955.
Per sua volontà il corpo venne cremato (a parte il cervello) e le ceneri disperse in una ignota località.

Citazioni

  • "Il valore di un uomo, per la comunita' in cui vive, dipende anzitutto dalla misura in cui i suoi sentimenti, i suoi pensieri e le sue azioni contribuiscono allo sviluppo dell'esistenza degli altri individui"
  • "Gli uomini sarebbero da compiangere se dovessero essere frenati dal timore di un castigo o dalla speranza di una ricompensa dopo la morte. Si capisce quindi perche' la Chiesa abbia in ogni tempo combattuto la scienza e perseguito i suoi adepti"
  • "Il vero valore di un uomo si determina esaminando in quale misura e in che senso e' riuscito a liberarsi dall'io"
  • "Siamo qui per gli altri uomini"
  • "Gli ideali che hanno illuminato la mia strada e mi hanno dato coraggio gagliardo sono stati il bene, la bellezza, la verita'"
  • "Non posso immaginarmi un Dio che ricompensa o che punisce l'oggetto della sua creazione, un Dio che soprattutto esercita la sua volonta' nello stesso modo con cui l'esercitiamo noi stessi."
References

  • L'American Institute of Physics ha dedicato al celebre fisico un ipertesto estremamente completo. Immagini, testi e animazioni - è possibile ascoltare la voce dello scienziato mentre presenta la famosa legge di equivalenza fra la materia e l'energia - sono organizzati in modo molto semplice. L'ipertesto è incentrato sui momenti più importanti della vita scientifica, tuttavia anche la vita privata non viene tralasciata. In inglese.
  • Un ricca raccolta di indirizzi in Internet in tutte le lingue dedicate al fisico e organizzate per argomento: biografie, attività scientifica, frasi celebri, immagini, nonché libri e gadget disponibili anche on line. I siti sono solamente segnalati e non recensiti. In inglese.
  • Una tra le più ricche biografie. Un indice consente la navigazione in tutte le parti dell'ipertesto. Tra le cose più interessanti si trovano una serie di diverse biografie tratte anche da enciclopedie famose (Encarta, Britannica ecc.). Un altro strumento molto efficace è l'organizzazione degli argomenti per indici cronologici. Non mancano le foto e le frasi celebri e una completa documentazione scientifica. In inglese.
  • Una biografia che enfatizza il carattere matematico del grande fisico. Nel testo vi sono rimandi a scienziati contemporanei e riferimenti incrociati ad altri materiali presenti in rete. Molto ricca e aggiornata è la bibliografia off line, dove sono elencati libri e articoli di rilievo sullo scienziato. In inglese.
  • A cura del museo virtuale della Nobel Foundation, oltre a una breve ma completa biografia, include il discorso fatto da Einstein in occasione del conseguimento del premio Nobel nel 1921 per l'effetto fotoelettrico. Tra i materiali presenti il francobollo stampato dalle poste svedesi. In inglese.
  • L'Enciclopedia Britannica offre questo servizio di consultazione gratuito di materiale biografico oltre a suggerire materiali, testi e siti interessanti. In inglese.