In Liguria il pranzo di Natale si basa su una cucina semplice e genuina, legata ai prodotti tipici del territorio e ai piatti della tradizione.
Una volta Natale, che per lungo tempo coincise con l'inizio dell'anno, rappresentava una specie di rivalsa mangereccia nei confronti delle privazioni di 12 mesi. A costo di qualsiasi sacrificio.
Al gran pranzo ci si preparava meglio col rigoroso digiuno del giorno della vigilia: un solo piatto a base di cavoli neri. E anche la mattina del famoso giorno ci si asteneva dal cibo, concedendosi appena una tazza di brodo.
Sull'orlo del collasso ci si sedeva a tavola per la lunga maratona mangereccia. Era il capofamiglia a sistemarsi per ultimo, dopo aver sbarrato la porta di casa con tutte le serrature,
a significare che da quel momento l'intimità non doveva essere turbata da nessuno. Dopo il segno della croce, si incominciava.
Tra i primi piatti c'erano i maccheroni in brodo e i ravioli alla genovese.
I Maccheroni (maccaroin) di Natale, detti "Natalin", davano inizio al pranzo di natalizio. Assomigliano a penne lisce, solo che sono lunghe circa cm.20
e la loro forma caratteristica è leggermente ovale, perché vengono seccati lentamente adagiandoli su telai. La loro forma poco pratica è una garanzia, giustificata dalla lavorazione:
anticamente quando i pastai utilizzavano trafile artigianali, solo la presenza nell'impasto dell'ottimale quantità di fecola e farina permetteva la loro forma allungata e la loro trasparenza.
Vengono cotti in brodo di cappone e sposati a piccole sfere di salsiccia (un riferimento alle monete, quindi augurio di prosperità).
Il brodo deve essere perfetto, "ne fatto ne savoîo" (né insipido né saporito), fatto con 3 tipi di carne (pollo, manzo, maiale).
Sull'origine dei maccheroni bisogna sfatare la credenza della nascita partenopea: Benedetto Croce assicura che la pasta a Napoli era considerata quasi come un
cibo esotico ancora alla fine del '500, e «mangiamaccaruni» era un insulto ai siciliani. Sfatata anche la leggenda di una derivazione dalla Cina o dalla Grecia classica.
Un documento inconfutabile nella storia della pasta risalente al 1279, è tutto genovese. In quell'anno il 4 febbraio il concittadino Ronzio Bastone, di professione soldato,
ebbe l'idea di fare testamento, affidandosi al notaio Ugolino Scarpa. Tra le poche cose inventariate c'era «barixella una plena de macaronis»,
un cestello colmo di maccheroni. La pasta del soldato Bastone era chiaramente secca, ciò presuppone già, rispetto alla fresca, una certa "tecnica".
La qualità dei «fidellari» genovesi doveva essere notevole se, ad esempio, ancora nel 1740 i «maestri lasagnari» di Venezia invitavano il nostro conterraneo
Paolo Adami a recarsi là, per apprendere da lui le caratteristiche delle «paste fini all'uso di Genova».
I Ravioli alla genovese, farciti con ripieno di vitello, animelle, uova, erbe, pangrattato e parmigiano, erano conditi col "tocco", il sugo di carne alla genovese.
Tra i secondi sono un classico il "Bibin a ròsto" cioè il Tacchino arrosto con patate, semplice da preparare anche se richiede un po' più di tempo per la cottura.
Il Cappone (pollo maschio castrato all'età di 60-70 giorni circa e macellato a 6-7 mesi, peso sui 2 kg) lesso con mostarda. Il cappone è il risultato di una millenaria tradizione
di allevamento avicolo di animali ruspanti o di allevamento. Seguivano poi altre portate:
i "berödi" (sanguinacci) col contorno di radici possibilmente di Chiavari (lunghe e amare, gli anziani le consideravano un antidoto al grasso contenuto nelle altre vivande); i «fritti nell'ostia», delizie di evidente derivazione orientale; la scorzonera fritta.
Finalmente si arriva a sua Maestà il Pandolce: il simbolo natalizio per eccellenza. Portato fra noi da marinai o mercanti, fu detto dapprima «Marzapane Reale», o anche
«Pane di Natale». Figurava pure tra le portate natalizie del Doge, come dei Governatori delle varie colonie.
La tradizione prevedeva tutta una serie di preparativi e, una volta in tavola, un vero e proprio rito.
Dopo il pandolce, venivano serviti gli anicini, piccoli biscotti con anice da inzuppare nel vino idoneo (A Natale se mangia o pandôçe, co-i beschêutti toccæ into vin...);
una tradizione che risale almeno al 1494, data del Libro delle Cerimonie che parla fra l'altro di «vinum muscatellum cum biscotis».
Ecco poi la frutta fresca e secca (fichi secchi, mandorle, noccioline, noci), le noci erano indispensabili: un altro riferimento alle monete, dunque un altro augurio di prosperità. Per questo dovevano essere presenti
su tutte le tavole, perciò «dinâ da nôxe», denaro della noce, era la mancia che i padroni davano ai loro commessi, aiutanti od operai, ma anche il regalo che i bottegai facevano ai loro clienti più fedeli.
Riguardo alla frutta fresca, molte persone esigevano per ogni specie determinate origini: arance di Sanremo, marroni della val di Vara, mele «Carle» di Finale, pere di Camogli, uva delle Cinque Terre, ecc.
A seguire, canditi (nati proprio a Genova) e confetti. Ancora cioccolatini e torrone, e alla fine, a chiudere boccheggiando la maratona alimentare, lo stracchino: forse a mitigare i troppo dolci sapori.
Soltanto a notte inoltrata il pranzo aveva termine. I bimbi già dormivano col viso sulla tavola, chiudendo fra le braccia il piatto con le leccornie da consumare poco a poco.
Un cenno sul famoso tondo de Natale che conteneva un po' di quanto era stato servito, ma di regola si limitava ai dolci e alla frutta. Il motivo del tondo era questo: il giorno dopo, gli invitati non avrebbero trovato nelle loro case nessun avanzo, e troppi ne sarebbero rimasti nella casa del "papà-grande".
La madonâva (nonna) preparava per ognuno il suo piattino: così i figli e i nipoti portavano con loro un po' del Natale della vecchia casa.