Caffè filosofico
Per
una memetica della cultura clerico-mafiosa.
Rilettura di Camilleri attraverso Dawkins e Dennett
di
Marco Trainito
In questa relazione,
ricavata dall’ultimo capitolo del mio libro Andrea
Camilleri. Ritratto dello scrittore, Editing Edizioni, Treviso, novembre
2008, ripercorrerò il modo in cui Camilleri affronta il tema del rapporto tra
mafia e religione in testi come La
bolla di componenda (Sellerio 1993) e Voi
non sapete(Mondadori 2007). Attraverso un riferimento a un articolo di
Sciascia, che a sua volta cita Borges, cercherò poi di allargare il discorso
fino a toccare due luoghi celebri del Don
Chisciotte e dei Promessi
sposi, difendendo la tesi – non certo nuova, ma oggi quasi dimenticata
nell’assordante clericalismo mediatico in cui siamo immersi grazie anche a una
classe politica quasi unanimamente allineata con il Vaticano – di un nesso
storico, culturale e cognitivo tra la mentalità mafiosa e quella di un certo
cattolicesimo. In particolare, mi interessa capire il modo in cui un certo
cattolicesimo ha plasmato le menti rendendole abilissime nell’innescare dei
pericolosi meccanismi di autoassoluzione. Camilleri, specialmente nei due testi
summenzionati, è molto stimolante sotto questo aspetto. Ma il problema mi
intriga anche dal punto di vista dei miei interessi di filosofia della mente, e
soprattutto di quel settore che indaga le unità di replicazione e di
trasmissione della cultura, cioè i cosiddetti “memi” di Dawkins, così
introdotti nel famoso cap. 11 de Il
gene egoista: «Io credo che un nuovo tipo di replicatore sia emerso di
recente proprio su questo pianeta. Ce l’abbiamo davanti, ancora nella sua
infanzia, ancora goffamente alla deriva nel suo brodo primordiale ma già
soggetto a mutamenti evolutivi a un ritmo tale da lasciare il vecchio gene
indietro senza fiato. Il nuovo brodo è quello della cultura umana. Ora dobbiamo
dare un nome al nuovo replicatore, un nome che dia l’idea di un’unità di
trasmissione culturale o un’unità di imitazione. “Mimeme” deriva da una
radice greca che sarebbe adatta, ma io preferisco un bisillabo dal suono affine
a “gene”: spero perciò che i miei amici classicisti mi perdoneranno se
abbrevio mimeme in meme.
Se li può consolare, lo si potrebbe considerare correlato a “memoria” o
alla parola francese même»
(1976, 1989, tr. it. Mondadori 1992, rist. 2006, p. 201).
La memetica è oggi un vero e proprio programma di ricerca, ancorché ancora in
fasce, nell’ambito del più generale approccio evoluzionistico ai fenomeni
culturali, e il riferimento apparentemente occasionale a Dennett e a Dawkins nel
mio libro su Camilleri vuole suggerire al lettore filosoficamente avvertito la
possibilità di un’applicazione della memetica alle condizioni
storico-cognitive che hanno reso e rendono tuttora possibile una contiguità tra
cultura mafiosa e cultura clericale.
Per dare subito un’idea di come si configuri un approccio memetico alla
filosofia della mente, citerò un passo tratto da Coscienza di
Dennett (1991, tr. it. Rizzoli 1993, rist. Laterza 2009, p. 233), che tra
l’altro coincide con quello messo in epigrafe da Dawkins nel suo importante
saggio del 1993 “Virus della mente”, originariamente scritto per il volume
curato da B. DahlbomDennett
and His Critics: Demystifying Mind e poi incluso ne Il
cappellano del Diavolo(2003, tr. it. Raffaello Cortina 2004, p. 172): «Il
paradiso che tutti i memi cercano di raggiungere è la mente umana, ma la mente
umana è essa stessa un artefatto creato quando i memi ristrutturano un cervello
umano per renderlo un habitat a loro più confacente. Le vie di ingresso e di
uscita sono modificate per adattarsi alle situazioni locali e sono rafforzate da
vari congegni artificiali che potenziano la fedeltà e la prolissità di
replicazione: una mente di madrelingua cinese differisce fortemente da una di
madrelingua francese, come una mente alfabetizzata differisce da una analfabeta.
I memi contraccambiano gli organismi in cui risiedono con un’incalcolabile
quantità di vantaggi – e qualche cavallo di Troia gettato lì per precauzione»
(nel § 12.1 de L’idea
pericolosa di Darwin, 1995, intitolato “Lo zio della scimmia incontra il
meme”, la persona stessa è addirittura definita da Dennett come «l’entità
di tipo radicalmente nuovo creata quando un genere particolare di animale è
corredato nella maniera opportuna – o infestato – da memi», tr. it.
Boringhieri 1997 & 2004, p. 431). In accordo con questa nozione dennettiana
di mente come struttura costituita da memi e in accordo con la nozione di
“virus della mente” sviluppata da Dawkins nel saggio omonimo citato, sosterrò
qui che i memi della mentalità mafiosa hanno trovato nelle menti strutturate
dai memi della cultura cattolica una sorta di habitat ideale per replicarsi e
diffondersi, costituendo insieme quel “memeplesso” virale (dal punto di
vista dei memeplessi normali di una civiltà del diritto largamente condivisa
nell’Occidente contemporaneo) che dal XIX secolo ad oggi costituisce quella
che qui e nel libro chiamo “cultura clerico-mafiosa”.
È bene precisare subito che qui userò il termine “religione” per indicare
in particolare la pratica sociale, ritualista e supersiziosa, e l’impalcatura
culturale oscurantista sostenuta e indotta da un certo clero, soprattutto
siciliano. Una sua definizione sintetica in relazione a un altro tipo di clero
la si trova in un pezzo de La
corda pazza di Sciascia intitolato “Una rosa per Matteo Lo
Vecchio”. Sciascia osserva che nella fase della controversia liparitana
svoltasi durante la breve gestione del Regno di Sicilia da parte dei Savoia
(1713-1718), si sviluppò in Sicilia un effimero «clero che credeva in Dio e
propugnava il diritto dello Stato contro la temporalità della Chiesa», grazie
anche a influenze gianseniste e a contatti più stretti con una cultura francese
già attraversata da sprazzi di illuminismo. Questo clero, che ancora oggi
esiste e che qui verrà ignorato, si pose in aperto contrasto con «il vecchio
clero isolano sostanzialmente ateo, avido di benefici, intento a scrutare e ad
avallare prodigi e superstizioni».
Quest'ultimo, potentissimo, intrinsecamente mafioso e onnipresente nel tessuto
sociale della Sicilia anche dopo l’Unità, era già definito «ignorante,
corrotto e insaziabile» dal professor Giuseppe Stocchi nella seconda delle
quattordici lettere del 1874 di cui si dà conto ne La
bolla di componenda; ed è quello che in genere rappresenta Camilleri
attraverso molte delle sue figure di religiosi.
Camilleri muove dalla voce “Componenda” del Dizionario
storico della mafia di Gino Pellotta (1977), la quale recita: «Forma
di compromesso, transazione, accordo fra amici. Veniva stipulata tra il capitano
della polizia a cavallo e i malviventi o i loro complici in una data età
storica della Sicilia. Grazie alla componenda, il danneggiato poteva rientrare
in possesso di una parte di ciò che gli era stato sottratto; in cambio ritirava
ogni denuncia. Tutto veniva dimenticato, magari in cambio di cortesie formali,
di dichiarazioni di rispetto. In tal modo l’ufficiale di polizia sistemava le
cose, creando una prassi, una forma di giustizia al di fuori delle leggi
ufficiali. Si formava, anche per questa via, una legge, una legalità diversa, e
anche questi elementi, seppure marginali, tornano nel discorso generale di ciò
che può essere la mentalità mafiosa. E d’altronde chi può sostenere che sia
del tutto scomparsa? Piuttosto è da pensare che al posto dell’ufficiale di
polizia possa intervenire la mafia, in un ruolo di mediazione, di giustizia
mafiosa. In tal caso, il padrino, oppure il boss, decide: si restituisca in
parte o si restituisca tutto» (p. 33).
Quando in Sicilia si sparse la voce dell’imminente arrivo della Commissione
parlamentare d’inchiesta, molti cittadini ed enti di varia natura produssero
lettere (in genere anonime), articoli e documenti ufficiali nell’intento di
collaborare o semplicemente di denunciare problemi relativi al lavoro della
stessa. Tra questi, Camilleri si sofferma sui quattordici articoli pubblicati su
«La Gazzetta d’Italia» tra l’agosto e il settembre 1874 da tale Giuseppe
Stocchi, preside del Regio Ginnasio “Ciullo” di Alcamo. L’occasione di
questi articoli venne offerta da un dibattito ospitato dal giornale sui
provvedimenti amministrativi da prendere per risolvere i problemi di ordine
pubblico e di costume morale della Sicilia. Stocchi rilevava che per rimuovere
lo stato di pervertimento morale in cui versava la società civile siciliana
occorreva andare alle radici, cioè alle “cagioni” profonde del malessere, e
non limitarsi a misure amministrative superficiali come la scelta dei
funzionari, la provenienza dei magistrati, una nuova regolamentazione della
milizia a cavallo, ecc. Stocchi, quindi, spostava l’attenzione dal piano
amministrativo a quello socio-politico e culturale e soprattutto nel secondo
articolo, intitolato “La questione sociale – Elemento religioso”, svolgeva
delle considerazioni acutissime che hanno attratto l’attenzione di Camilleri,
anche perché tra le “cagioni” del pervertimento morale dei siciliani il
professore includeva la bolla di componenda, sulla quale si mostra
informatissimo: «La natura del siciliano è intrinsecamente non religiosa, ma
superstiziosa. Tale disposizione naturale è poi fomentata dall’interesse;
prima perché in quella specie di fatalismo, che è inseparabile da qualunque
religione positiva, egli trova una scusa e quasi una sua giustificazione alla
sua ritrosia al lavoro e al darsi attorno; poi perché le turpi condiscendenze e
larghezze di un sacerdozio ignorante, corrotto e insaziabile, gli addormentano
la voce e i rimorsi della coscienza, prodigandogli assoluzioni e benedizioni per
qualunque colpa o delitto, e lo incoraggiano ai vizi e ai misfatti a cui è
tanto proclive. Qui è la prima radice di ogni male. I facinorosi più
famigerati cominciano sempre col furto e con la componenda. Ora il furto e la
componenda sono non solo tollerati e perdonati, ma autorizzati e incoraggiati
dal cattolicismo come lo intende e lo pratica il sacerdozio e il laicato
siciliano. E difatti sapete voi di dove viene il nome stesso di componenda?
Viene dalla bolla di componenda (tale è il suo titolo ufficiale e popolare
insieme) che ogni anno si pubblica e si diffonde larghissimamente per espresso
mandato dei vescovi, in tutte le borgate e le città della Sicilia» (pp.
84-85). Stocchi passa poi a specificare il prezzo di ciascuna bolla (1,13 lire)
e il corrispondente valore (32,80 lire) della refurtiva che essa permette di
trattenere con tranquilla coscienza, nonché il tetto massimo di roba o denaro
rubati (1.640,50 lire) che può essere composto a suon di bolle. Ma se le cose
stanno così, osserva Stocchi, la Chiesa, con la sua enorme influenza
soprattutto sulle donne e sui bambini e con questa sua partecipazione agli utili
della criminalità, costituisce un cancro etico e culturale che imprigiona i
siciliani «come tra le spire del boa» in un incantesimo cognitivo e pratico
moralmente perverso: «Ora che cos’è il prezzo della bolla di componenda? Al
tempo stesso che una tassa in favore del clero sul delitto, è una
partecipazione al furto e un furto esso stesso. E il volgo, sottilissimo
ragionatore e logico impareggiabile, nei suoi interessi e nei suoi vizi, ne
conclude (e sfido se può essere diversamente) che se partecipa ai furti e ruba
il prete, a più forte ragione può rubare lui, e che perciò il rubare non è
peccato. E quando il siciliano ignorante si è persuaso che una cosa non è
peccato, di tutto il resto non teme e non si cura, soccorrendogli mille mezzi e
infinite vie a non cadere o a sfuggire alle sanzioni della giustizia umana. Gli
basta essere certo (stolta ma esiziale certezza) che non andrà all’inferno; e
da questa unica paura lo guarentisce l’esempio e l’assoluzione del prete. E
la bolla di componenda che cosa è essa? È, né più né meno, un ricatto» (p.
87).
La conclusione di Camilleri ribadisce la nettissima differenza che sussiste tra
le relativamente innocue bolle dei luoghi santi e la bolla di componenda, uno
strumento attraverso cui la Chiesa si confonde con un’associazione per
delinquere di stampo mafioso, peraltro detentrice della stessa sovrastruttura
ideologica che fornisce alla mafia le condizioni di possibilità per la sua
esistenza e per il suo radicamento nella struttura mentale dei siciliani devoti:
«Non c’è modo alcuno di nobilitare (mi si passi il verbo) la bolla
paragonandola a una qualsiasi bolla d’indulgenza, anche la più degenerata. La
bolla di componenda è un puro e semplice, ma torno a ripetere devastante,
pactum sceleris: solo che uno dei contraenti è la più alta autorità
spirituale, la Chiesa, qui certamente non mater ma cattiva magistra» (p. 97).
Ho davanti a me 72 tra lettere e biglietti che sempre una stessa persona invia o
in risposta a lettere di altri (che però qui non prendo in considerazione) o
per dare suggerimenti, consigli, pareri sulla conduzione di grandi e molteplici
affari.
Coprono un arco di tempo che va dal 2001 al 2004.
La particolarità che appare subito evidente, a leggere in fila lettere e
biglietti, consiste nel fatto che lo scrivente è una persona profondamente
religiosa e animata da alti e severi principi morali.
Ogni lettera, ogni biglietto per quanto breve possa essere, termina sempre con
la stessa formula:
“Vi benedica il Signore e vi protegga”.
Identico è sempre l’incipit:
“Con l’augurio che la presente vi trovi tutti in ottima salute. Come, grazie
a Dio, al momento posso dire di me”.
Insomma, tutte le missive si aprono e si chiudono col nome di Dio.
All’interno di esse torna per 43 volte l’espressione: “Con il volere di
Dio”.
Anche “la Divina Provvidenza” viene a essere citata in più occasioni:
“Ci dobbiamo accontentare della Divina Provvidenza del mezzo che ci
permette”.
Le festività religiose sono ricordate puntualmente e con insistenza: “Ditemi
se andiamo incontro a un Santo Natale”.
Oppure:
“A tutti vi auguro di passare Una Buona Felicissima Serena Santa Pasqua”,
oppure:
“In ricorrenza della Santa Pasqua per quello che il nostro Buon Dio ci
permette di passare, di cuore vi auguro che potete passare UNA BUONA FELICISSIMA
SERENA SANTA PASQUA uniti ai propri cari”.
Così comincia la Lectio Doctoralis su "La religiosità di Provenzano"
tenuta da Camilleri il 3 maggio 2007 a L’Aquila in occasione del conferimento
della Laurea Specialistica Honoris Causa in Psicologia Applicata, Clinica e
della Salute (indirizzo Psicologia Applicata all’Analisi Criminale). Il
rapporto di questo testo con Voi
non sapete. Gli amici, i nemici, la mafia, il mondo nei pizzini di Bernardo
Provenzano, l’alfabeto mafioso in sessanta voci uscito presso Mondadori
nell’ottobre dello stesso anno, consiste nel fatto che la Lectio si potrebbe
definire una sintesi a tema (quello della religiosità dei mafiosi, appunto) di Voi
non sapete, di cui utilizza, oltre a “Religiosità”, anche altre voci,
tra cui soprattutto “Ammazzare”, “Giustizia”, “Preti” e “Croce”.
La “bolla di componenda” e i pizzini di Provenzano, nell’analisi di
Camilleri, sono documenti inversi, nel senso che stanno tra di loro come il
diritto e il rovescio di un tappeto, lo sviluppo e il negativo di una medesima
foto, e perciò stesso intimamente legati tra loro da una sorprendente
simmetria. La bolla era un documento prodotto dalle alte gerarchie del clero
che, con quel prendere parte in maniera parassitaria e ricattatoria al fatturato
della criminalità, incorporava uno spirito tipicamente mafioso; i pizzini,
invece, erano documenti prodotti da un capomafia che, con quelle invocazioni
petulanti al pantheon cattolico, incorporano uno spirito tipico della devozione
popolare. Com’è possibile che si sia creata una convergenza così plateale
tra le forze del male e i custodi del messaggio evangelico, tra il diavolo e
l’acqua santa? È il diavolo che è davvero e per natura un portatore di luce
o è l’acqua santa che è avvelenata già nel pozzo?
La pista per trovare una risposta a questi interrogativi si trova in un paio di
pagine minori e geniali, una dell’ultimo Sciascia e una del primo Borges.
All’epoca del maxi-processo alla mafia, Sciascia intervenne con una nota
mirabile su “L’Espresso” del 16 marzo 1986, poi inclusa in A
futura memoria (1989). È un breve articolo in cui si dice qualcosa di
profondo sui siciliani intrisi di cattolicesimo partendo da suggestioni
puramente letterarie. Eccolo quasi per intero:
Manzoni lesse in spagnolo il Don
Chisciotte; e quando si imbatteva in parole o espressioni ancor vive nel
dialetto milanese, diligentemente le annotava. Ne fece poi un elenco, che diede
a degli amici: e da loro ci è stato conservato. Nell’elenco è la parola
“mafia”, non registrata dai dizionari della lingua spagnola e finora per me
introvabile nel Don
Chisciotte. L’ho cercata, nell’edizione Aguilar delle opere di
Cervantes, in tutti i luoghi in cui pensavo potesse trovarsi; ho chiesto
soccorso agli amici che molto meglio di me conoscono lo spagnolo e Cervantes.
Inutilmente. Non mi resta che rileggere, dopo circa trent’anni, il libro dal
principio alla fine; e prevedo con fatica, se il diletto di rileggerlo sarà
insidiato e guastato dalla caccia a quella sola parola.
Mi interessa ritrovarla, quella parola, non solo per liberarmi da
un’ossessione, piccola quanto si vuole ma ossessione, ma anche per trovarvi
rispondenza a un passo di Borges che mi è, per cosi dire, saltato agli occhi
trovandolo isolato nel Borges
A/Z recentemente pubblicato da Ricci: una specie di dizionario
borgesiano curato da Gianni Guadalupi. Alla voce “argentino”, che Guadalupi
trae dall’ Evaristo
Carriego, Borges dice di aver sempre pensato che l’Argentina fosse
irrimediabilmente diversa dalla Spagna; ma ad un certo punto due righe del Don
Chisciotte sono bastate a convincerlo di essere in errore. Le due righe
sono queste: “… che nell’aldilà ciascuno se la veda col proprio
peccato”, ma in questo mondo “non è bene che uomini d’onore si facciano
giudici di altri uomini dai quali non hanno avuto alcun danno”.
Credevo anch’io, come Borges, che nella mafia, nel “sentire mafioso”,
nell’indifferenza della maggior parte dei siciliani di fronte alla mafia, non
ci fosse nulla di spagnolo: ma questo passo di Borges, con dentro le due righe
di Cervantes, mi ha convinto che sbagliavo. E poi la parola, la finora introvata
parola registrata dal Manzoni. Voglio dire: quel che oggi, mentre si celebra il
grande processo contro la mafia, i non siciliani colgono di sgradevole e di
condannabile nei siciliani, ha questa antica radice: il non voler giudicare
uomini da cui credono di non aver ricevuto alcun danno.
Non tutti i siciliani, si capisce: poiché la cultura - quella vera - in tanti
è riuscita a rimuovere questo sentimento e atteggiamento.
Per inciso, potendo oggi disporre di strumenti di ricerca più rapidi e
affidabili degli occhi, anch’io ho fatto un tentativo servendomi di un motore
di ricerca e di una versione digitale del Don Chisciotte in lingua originale.
Niente da fare, la parola “mafia” e le sue possibili varianti grafiche non
vi compaiono e, a quanto mi risulta, dove l’abbia presa Manzoni rimane un
mistero. Un lavoro più fruttuoso consiste invece nell’andare a verificare
direttamente i riferimenti di Sciascia all’Evaristo
Carriego e al Don
Chisciotte, perché si trovano delle cose davvero illuminanti per il
problema che stiamo affrontando qui.
Il passo di Borges si trova nella sezione intitolata “Un mistero parziale”
del capitolo XI dell’Evaristo
Carriego, un’opera che peraltro comincia con un excursus storico sul
quartiere Palermo di Buenos Aires, che deve il suo nome al palermitano Domìnguez
(Domenico), un approvvigionatore di carne della prima metà del XVII secolo
sposatosi con la figlia di un conquistatore e stabilitosi in Argentina. Il quasi
mitologico racconto borgesiano della fondazione di Palermo instaura un nesso
etnico e culturale tra argentini e siciliani che per il lettore italiano si fa
evidentissimo proprio nella pagina che costituisce il contesto del passo citato
da Sciascia:
l’argentino, a differenza dell’americano del Nord e di quasi tutti gli
europei, non si identifica con lo Stato. Ciò può attribuirsi al fatto generale
che lo Stato è un’astrazione inconcepibile per lui; * [* Lo Stato è
impersonale; l’argentino sa concepire solo relazioni personali. Per questa
ragione, per lui, rubare denaro pubblico non è un crimine. Constato una realtà,
non la giustifico né la difendo. (Nota a pie’ di pagina)] è un fatto che
l’argentino è un individuo e non un cittadino. Aforismi come quello di Hegel:
«Lo Stato è la realtà dell’idea morale» gli sembrano scherzi sinistri. I
film elaborati a Hollywood propongono ripetutamente alla nostra ammirazione il
caso di un uomo (di solito un giornalista) che cerca l’amicizia di un
criminale per consegnarlo poi alla polizia; l’argentino, per il quale
l’amicizia è una passione e la polizia una mafia,
sente che un simile «eroe» è una incomprensibile canaglia. Sente con Don
Chisciotte che «laggiù se la veda ciascuno col suo peccato» e che «non
è bene che uomini d’onore siano i giustizieri di altri uomini dai quali non
ricevettero danno» (Don
Chisciotte, I, XXII). Più di una volta, davanti alla vana simmetria dello
stile spagnolo, ho pensato che fossimo irrimediabilmente diversi dalla Spagna;
queste due righe del Chisciotte sono bastate per convincermi d’essere in
errore; sono come il simbolo tranquillo e segreto di una affinità (in Borges, Tutte
le opere, Meridiani Mondadori, 1984, vol. I, pp. 270-271).
Il lettore italiano, soprattutto se siciliano, non può non trasalire, perché
attraverso un gioco di somiglianze di famiglia sente che Borges sta parlando
anche di lui. Un siciliano ha dato il nome a un quartiere di Buenos Aires e gli
argentini rivelano una certa anima siciliana nel loro rapporto con lo Stato; ma
gli argentini, attraverso Don
Chisciotte, si rivelano intimamente spagnoli, e gli spagnoli, per chiudere
il cerchio, hanno lasciato molto di sé nella mentalità siciliana, com’è
noto. Scopriamo così che gli argentini e i siciliani, e non solo gli spagnoli,
sono figli culturali di Don
Chisciotte, nella misura in cui condividono un sentire intorno allo Stato ed
alle sue leggi che costituisce quello che Camilleri chiama «campo di coltura»
per la mafia e che, sulla scia di Dennett e Dawkins, possiamo chiamare habitat
vantaggioso per i memi mafiosi. Ma com’è possibile? Per capirlo a fondo,
dobbiamo dare uno sguardo più attento all’episodio (peraltro celebre) che
costituisce l’occasione del passo del Chisciotte citato
da Borges e Sciascia.
Il capitolo ventiduesimo della prima parte è quello in cui si racconta «Come
Don Chisciotte rese la libertà a parecchi sciagurati, che eran condotti, loro
malgrado, dove non avrebbero voluto andare» (qui si utilizzerà la classica
traduzione italiana di Ferdinando Carlesi del 1933, riprodotta nel Meridiano del
1974). Don Chisciotte e Sancio si imbattono in un corteo costituito da una
dozzina di galeotti incatenati come grani di un rosario e condotti alle galere
da quattro guardie, due a piedi e due a cavallo. Nonostante lo scudiero gli
spieghi che si tratta di forzati del re condotti alla pena secondo la legge, cioè
secondo giustizia, che si identifica con il re, Don Chisciotte ritiene suo
dovere intervenire in loro difesa, con le buone o con le cattive, essendo suo
preciso compito di cavaliere, voluto dal cielo, quello di aiutare gli oppressi e
chiunque sia costretto con la forza a fare qualcosa contro la propria volontà.
Avvicinandosi al gruppo, vuole intanto interrogare uno per uno i galeotti per
conoscere la causa della loro sventura (e in questo interrogatorio la critica ha
giustamente colto chiari echi danteschi). Le guardie gli accordano il permesso e
Don Chisciotte dialoga con una metà circa dei galeotti, i quali si mettono a
turlupinarlo usando un gergo da furfanti carico di volgarità e doppi sensi, che
al povero cavaliere, in grado di capire solo il significato letterale delle
parole, devono essere chiariti di volta in volta dagli stessi forzati, dalle
guardie e da Sancio. Il primo gli dice di essere stato condannato per essersi
innamorato, e allo stupefatto Don Chisciotte, il quale osserva che se si dovesse
essere condannati per questo lui sarebbe in galera già da un pezzo, il ladro
precisa che in realtà si era innamorato di una cesta piena di biancheria. Il
secondo, invece, è finito dentro perché è un grande cantante, e di nuovo
occorre spiegare a Don Chisciotte (questa volta se ne incarica una delle
guardie) che in realtà si tratta di un ladro di bestiame che ha confessato
sotto tortura, rovinandosi così con la sua stessa voce. Al terzo sono mancati
dieci ducati, e Don Chisciotte, impietosito, gliene darebbe venti per salvarlo,
ma poi scopre che al corruttore sono mancati i soldi per ungere il cancelliere e
il procuratore. Il quarto è un triste vegliardo con la barba bianca (con
evidente allusione al Catone dantesco) che ha subito la gogna per essere uno
stregone e per aver fatto il ruffiano, e Don Chisciotte lo riprende solo per la
stregoneria, mentre Sancio, mosso a compassione per la sua storia, gli dà una
moneta in elemosina. Il quinto è uno studente condannato per aver messo su
famiglia con quattro donne diverse e, con un linguaggio forbito, chiede del
denaro a Don Chisciotte in cambio di preghiere. Il sesto è incatenato più
degli altri perché si tratta del famoso criminale Ginesio da Passamonte, già
autore in carcere di un’autobiografia (ovviamente incompiuta).
Ma quando una delle guardie sta per bastonare Ginesio per la sua irriverenza e
per le sue minacce, Don Chisciotte, per nulla impressionato dal fatto di aver
conosciuto nell’ordine un ladro di biancheria, un ladro di bestiame, un
corruttore di giudici, un lenone stregone, un poligamo e un criminale, pronuncia
il famoso discorso che contiene i passi citati da Borges e Sciascia:
Da tutto quello che mi avete detto, fratelli carissimi, ho messo in chiaro che
sebbene per vostra colpa vi abbiano gastigato, tuttavia le pene che andate a
scontare non sono di vostra soddisfazione, e vi andate molto di mala voglia e
contro la vostra volontà. Inoltre potrebbe darsi che il poco coraggio che uno
ebbe durante la tortura, la mancanza di denaro di quello, il poco appoggio che
trovò quell’altro, e in fine il giudizio errato del giudice, siano stati
causa della vostra perdizione e del non aver ottenuto quella giustizia a cui
pure avevate diritto. Tutto questo ora mi si presenta nella mente per dirmi,
persuadermi ed anche sforzarmi a mostrare di fronte a voialtri la ragione per
cui il cielo mi ha messo al mondo, e mi ha fatto professare l’ordine della
cavalleria, che infatti professo, e il voto che in essa ho fatto di portar
soccorso ai necessitosi e agli oppressi. Ma perché la prudenza insegna che non
si deve adoperare la violenza laddove si possa pacificamente ottenere quello che
si desidera, voglio pregare questi signori, guardiani e commissario, di avere la
bontà di sciogliervi e di lasciarvi andare. Non mancheranno certamente altri
che servano il re in migliori occasioni, sembrandomi assai mal fatto porre in
schiavitù coloro che Dio e la natura crearono liberi. Tanto più, signore
guardie, che questi poveretti non hanno fatto nulla contro di voi. Che ognuno
dunque si tenga il suo peccato: v’è un Dio nel cielo che non dimentica né di
punire il malvagio, né di ricompensare il buono; né conviene che onorati
uomini si facciano carnefici d’altri uomini, dai quali non ricevettero verun
danno. Questo io vi domando con questa mansuetudine e con questa calma, per aver
motivo, qualora lo desideriate, di rimanervi obbligato del favore; ma quando non
vogliate di buon grado accondiscendervi, questa lancia e questa spada, congiunte
col valore del mio braccio, l’otterranno a viva forza da voi (pp. 210-211).
Il commissario naturalmente risponde per le rime e così Don Chisciotte lo
attacca e lo ferisce con la lancia. Nella confusione che segue, i galeotti si
liberano e Ginesio da Passamonte, aiutato a togliersi i ferri dallo stesso
Sancio, si impadronisce del fucile del commissario e mette in fuga tutte le
guardie, inseguite dalla sassaiola degli altri malviventi.
Come si vede, ridotto all’essenziale, l’episodio mette in luce la logica di
Don Chisciotte, che non è dissimile da quella che Camilleri vede incarnata
nella religiosità di Provenzano. Chi ammette l’esistenza di un ordine divino
superiore e trascendente (sinceramente o per puro calcolo) è inevitabilmente
portato a relativizzare, se non addirittura ad annullare, la cogenza delle leggi
di uno Stato di diritto e a considerare la giustizia umana come qualcosa da cui
poter prescindere nel giudicare un criminale. È esattamente questo il motivo
per cui una parte non irrilevante del clero frequenta i mafiosi (anche
latitanti) con tranquilla coscienza, soprattutto se questi si mostrano devoti e
generosi con la Chiesa, ed è esattamente questo il motivo per cui i mafiosi,
come ha notato Camilleri, si sentono al sicuro con quelli che chiamano “preti
intelligenti”. Che poi sia stato il povero Don Chisciotte ad incarnare in modo
paradigmatico questa logica dell’omertà e della connivenza è una semplice
ironia della storia. A ben vedere, infatti, il suo modo di ragionare percorre
trasversalmente tutta la storia del cosiddetto Occidente cattolico e la Riforma
protestante, con la sua condanna della vendita delle indulgenze, non è che una
delle numerose forme di ribellione al sistema legale alternativo della
mediazione accomodante, cioè, in ultima analisi, della componenda.
Tornando all’accenno di Sciascia a Manzoni contenuto nell’articolo di A
futura memoriariportato sopra, si può allora concludere rileggendo alla
luce di tutto ciò uno dei luoghi più famosi della letteratura italiana, che di
solito viene presentato (specialmente ai giovani studenti) come un esempio di
alta edificazione spirituale e che invece, a ben guardare, è sommamente
diseducativo dal punto di vista morale e civile, ovvero dal punto di vista
dell’etica di uno Stato di diritto. Cos’è, infatti, tutta la vicenda
dell’Innominato, peraltro ambientata, com’è ben noto, nella Lombardia di
inizio XVII secolo occupata dagli spagnoli (cioè pochi anni dopo l’uscita
delle due parti del Chisciotte), se non un festival della componenda? Nel suo
ingresso in scena egli è presentato come un vero capomafia che “compone”
esattamente nel senso della definizione di componenda che si ritrova nella
citata voce relativa del Dizionario
storico della mafia di Pallotta: «Fare ciò ch’era vietato dalle
leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari
altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti,
aver la mano da coloro ch’eran soliti averla dagli altri; tali erano state in
ogni tempo le passioni principali di costui. (...) Quando una parte, con un
omaggio vassallesco, era andata a rimettere in lui un affare qualunque,
l’altra parte si trovava a quella dura scelta, o di stare alla sua sentenza, o
di dichiararsi suo nemico; il che equivaleva a esser, come si diceva altre
volte, tisico in terzo grado. Molti, avendo il torto, ricorrevano a lui per aver
ragione in effetto; molti anche, avendo ragione, per preoccupare un così gran
patrocinio, e chiuderne l’adito all’avversario: gli uni e gli altri
divenivano più specialmente suoi dipendenti. Accadde qualche volta che un
debole oppresso, vessato da un prepotente, si rivolse a lui; e lui, prendendo le
parti del debole, forzò il prepotente a finirla, a riparare il mal fatto, a
chiedere scusa; o, se stava duro, gli mosse tal guerra, da costringerlo a
sfrattar dai luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più
pronto e più terribile fio» (I
promessi sposi, XIX, 39 e 46-47). Nel corso della famosa notte dei tormenti,
l’Innominato è preso dalla paura dell’inferno esattamente come il
“siciliano ignorante” di cui parlava il professor Stocchi nell’articolo
citato da Camilleri ne La bolla di componenda, e proprio per questo dubbio
amletico lascia cadere la pistola con cui sta per spararsi. Subito dopo, il
ricordo delle parole di Lucia («Dio perdona tante cose, per un’opera di
misericordia») lo consola e all’alba la gioia contagiosa dello
“scampanare” e il corteo di gente in festa che andava incontro al cardinale
Borromeo lo spingono a recarsi dall’alto e prestigiosissimo prelato (cfr. XXI,
53-61).
Che il pentimento e la conversione religiosa possano riscattare una vita di
crimini non è esattamente un articolo di fede che la Chiesa insegna da sempre e
che i mafiosi accolgono a braccia aperte? Ritorniamo a Voi
non sapete e alla Lectio. Qui Camilleri scrive: «Ho già detto che,
secondo gli investigatori, la svolta di Provenzano risale alla metà del 1993.
Prima che avvenga la svolta, il 9 maggio dello stesso anno, Giovanni Paolo II
nella Valle dei Templi di Agrigento pronunzia la sua forte condanna della mafia:
“Dio ha detto una volta: Non uccidere! Non può l’uomo, qualsiasi uomo,
qualsiasi umana agglomerazione, qualsiasi mafia, non può cambiare e calpestare
questo diritto santissimo di Dio”. Queste parole sembrarono passare
inosservate; in realtà, come annotano Salvo Palazzolo e Michele Prestipino nel
loro Il
Codice Provenzano (Bari 2007), scavarono un solco profondo negli
ambienti mafiosi. (...) Ma le parole di Giovanni Paolo II per Provenzano ebbero
un significato diverso da tutti gli altri; furono, ma questo è un mio parere
assolutamente personale, una conferma, suonarono come un avallo se non
addirittura come un’investitura. Non era la conferma della politica
dell’addio alle armi che lui aveva praticato e predicato da un certo momento
della latitanza in poi? Non bisognava tornare all’antica autodefinizione
mafiosa che gli uomini d’onore erano portatori di pace e di giustizia?». E
nel passo parallelo della voce “Religiosità” di Voi non sapete, Camilleri
aggiunge: «Da allora, le manifestazioni della religiosità di Provenzano
diventano di giorno in giorno più evidenti. È assodato che, dietro sua
richiesta, due sacerdoti si recarono a trovarlo negli ultimi anni di latitanza.
A un certo punto egli arriva a manifestare apertamente la convinzione che tutti
i suoi atti godano del sostegno divino. Dio è con lui. Gott mitt uns» (p.
154). La stretta confidenza di Dio con i peggiori criminali è chiarissimamente
teorizzata anche dal cardinale Borromeo nel primo colloquio con l’Innominato,
che è anch’esso un perfetto esempio di componenda, questa volta quasi nel
senso della “bolla”: «- cosa può far Dio di voi? cosa vuol farne? Un segno
della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che nessun
altro gli potrebbe dare. Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che
mille e mille voci detestino le vostre opere... - (l’innominato si scosse, e
rimase stupefatto un momento nel sentir quel linguaggio così insolito, più
stupefatto ancora di non provarne sdegno, anzi quasi un sollievo); - che gloria,
- proseguiva Federigo, - ne viene a Dio? Son voci di terrore, son voci
d’interesse; voci forse anche di giustizia, ma d’una giustizia così facile,
così naturale! alcune forse, pur troppo, d’invidia di codesta vostra
sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi, deplorabile sicurezza d’animo.
Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusar voi
stesso, allora! allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa far
di voi? (...) E perdonarvi? e farvi salvo? e compire in voi l’opera della
redenzione? Non son cose magnifiche e degne di Lui? Oh pensate! se io
omiciattolo, io miserabile, e pur così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi
struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli m’è
testimonio) questi pochi giorni che mi rimangono; oh pensate! quanta, quale
debba essere la carità di Colui che m’infonde questa così imperfetta, ma così
viva; come vi ami, come vi voglia Quello che mi comanda e m’ispira un amore
per voi che mi divora!» (XXIII, 15-17).
Anche noi, come l’Innominato, rimaniamo stupefatti nel rileggere con occhiali
nuovi e smagati queste parole del Cardinale, e siamo addirittura sconcertati dal
suo amore divorante per il criminale. Com’è noto, l’incontro finisce a baci
e abbracci (ibid., 22): i due si mettono d’accordo, compongono
l’“imbroglio”, per riprendere il termine del Canonico de La
chiave d’oro di Verga, e «tutto viene dimenticato, magari con
scambio di cortesie formali, di dichiarazioni di rispetto», per riprendere le
parole del Dizionario
storico della mafia, che qui non a caso cadono a pennello. La ciliegina
sulla torta, infine, cioè la più classica e spettacolare forma di componenda,
sarà la quantificazione in denaro da parte dell’Innominato del perdono
ottenuto da Lucia: «cento scudi d’oro (...) per servir di dote alla giovine»
(XXVI, 33), che nel Fermo
e Lucia (III, IV, 61) erano addirittura «dugento».
di Marco Trainito