Anno
135 N. 291
***
Si
preferisce il fai-da-te quando la Borsa scende mentre servirebbe la
professionalità e la saldezza di nervi dell'intermediatore
IL
CASO BIPOP E GLI «EQUIVOCI» TRA GESTORI E RISPARMIATORI
Alfredo Recanatesi
Un paio di anni fa, nel pieno della più fulgida
stagione borsistica della new-economy, l’astro di maggiore
magnitudine, pur tra i tanti che si erano alzati fino a raggiungere in
breve tempo lo zenit del mercato azionario, era la Bipop [Banca
Popolare di Brescia/gruppo BIPOP-CARIRE, che ora è entrata a far parte
del gruppo Capitalia/Banca di Roma, N.d.R.], la banca che con
particolare sagacia e tempestività sembrava aver colto le opportunità dell’era che si andava schiudendo,
aprendo la strada del banking on line e della gestione innovativa del
risparmio. Nessun limite sembrava poter esserci alla crescita del suo
valore, tanto che la capitalizzazione di borsa, con il consenso pressoché
unanime degli analisti, andava via via superando quello dei più
consolidati gruppi industriali e dei maggiori gruppi bancari. Ora, e
solo ora, e a motivo di lotte interne alla banca, viene fuori un’incredibile realtà: sembra che il gioco
fosse non solo quello di indirizzare verso i propri titoli il risparmio
gestito o quello sul quale era comunque possibile esercitare una qualche
influenza, ma fosse anche quello di finanziare clienti che intendessero
prendere posizione sull’azionario; specie - s’intende - se
manifestavano l’intenzione di acquistare i titoli della stessa banca.
C’era qualche centinaio di clienti privilegiati non solo e non tanto
perché venivano garantiti loro rendimenti che possiamo presumere
consistenti, ma soprattutto perché era la stessa banca che finanziava i
loro acquisti di titoli. Insomma - pare di capire - una catena di S.
Antonio bell’e buona che ha retto, è ovvio, finché il trend di borsa
volgeva verso l’alto e gli analisti facevano a gara nel fissare target-price
sempre più alti, ma che si è rovinosamente spezzata quando il ciclo è
diventato pesantemente ribassista, quando conseguentemente è scattata
la garanzia di rendimento verso i clienti «garantiti», e quando il
credito erogato per l’acquisto di titoli, e garantito dai titoli
stessi, ha cominciato a non rientrare e il valore di quella garanzia ha
cominciato a ridursi.
Il caso è specifico poiché vi ricorrono
irregolarità sulle cui responsabilità stanno indagando la Banca
d’Italia, la Consob [organo
di sorveglianza della Borsa Valori italiana, N.d.R.]
e la Procura della Repubblica. Eppure ha una componente che può essere
generalizzata, poiché è certamente figlia, seppure degenere, della
distorsione con la quale è nata e si è sviluppata in Italia la
gestione del risparmio. E’ un’attività giovane e, conseguentemente,
immatura sia nel modo in cui è svolta, sia in quello nel quale è
percepita. E infatti fino a una decina di anni fa da gestire non c’era
niente: i titoli di Stato offrivano rendimenti al disopra di ogni
possibile alternativa, e l’impiego in titoli esteri era semplicemente
vietato. Quando poi il mercato è stato liberalizzato e si è compiuto
il risanamento che ha consentito una drastica riduzione non solo dei
tassi di interesse, ma anche e soprattutto dei tassi di
capitalizzazione, il risparmiatore italiano ha creduto che, attraverso
la differenziazione degli impieghi e con l’intermediazione di gestori
professionisti, avrebbe potuto continuare a ottenere gli elevati
rendimenti ai quali era abituato. Lo credeva perché glielo avevano fatto
credere, come se su un mercato finanziario «normale» fosse possibile
ripetere quella combinazione di rendimento elevato e di assenza di
rischio che, in un mercato distorto dal dissesto delle finanze pubbliche,
si era potuto tanto a lungo verificare. Ma questo il risparmiatore
credeva di poter chiedere e questo gli veniva offerto in una gara di
promesse mirabolanti attraverso le quali si trattava di conquistare
l’eldorado di un mercato ampio, ricco, altamente remunerativo e
sostanzialmente vergine. La priorità era la conquista del cliente; cosa
farne sarebbe stato un problema successivo: al futuro c’era tempo
per pensarci. Si aggiunga che il mercato
- a dispetto di quanti continuano a sostenere che ha sempre una sua
logica interna - valutava banche, società di gestione, banche on-line
non in base alla redditività, sia pure prospettica, ma esclusivamente
in base alla quantità di clienti, sicché c’era la convenienza ad
accaparrarne comunque perché, come avveniva per gli internet-providers,
ciascuno di loro era «valore» da scontare nella capitalizzazione di
borsa (oltre un milione di lire ciascuno, anche se si limitava a
registrarsi senza mai effettuare una operazione o, comunque, procurare
una sola lira di fatturato).
Questo è uno dei motivi per cui, pur in un mercato
come quello finanziario nel quale la speculazione è parte integrante ed
essenziale, la famigerata «bolla» ha potuto gonfiarsi come si era
gonfiata: la Bipop soffiava con mezzi e procedure illeciti, ma non era
certo la sola.
Per molto tempo le cose sono andate bene. Lo sfondo
era dato dal ciclo rialzista della borsa americana, ma il mercato
italiano ci aggiungeva del suo perché si autoalimentava: se la borsa
saliva, il denaro dei titoli di Stato vi affluiva più copioso facendola
salire ulteriormente; salendo, i gestori di risparmio potevano esibire
il conseguimento dei risultati promessi e conquistavano così nuovi
clienti che ne aumentavano il valore; in tal modo le imprese, bancarie e
non, che avevano puntato le loro carte sulla gestione del risparmio
generavano esse stesse i valori di borsa sui quali poi venivano
commisurati la loro capitalizzazione ed i loro profitti. Da quanto si
capisce, Bipop era giunta ad alimentare questa spirale con il credito da
essa stessa erogato. Cosa che non si fa, certo; ma non è che tutti gli
altri, con i loro analisti, i loro gestori e i loro promotori, con
quella spirale non abbiano avuto a che fare, non l’abbiano alimentata
anche loro con metodi che le regole scritte possono anche ammettere, ma
che le regole non scritte possono ugualmente riprovare.
E infatti l’«industria» della gestione del
risparmio, che per ovvie ragioni
era l’ultima tra i paesi europei più avanzati, è diventata la prima,
almeno per volumi gestiti. E tuttavia non riesce a consolidarsi, a
trovare continuità nelle sue stesse ragioni esistenziali, rimane ciclica,
e con una ciclicità opposta a quella che la logica farebbe supporre.
Fiorisce, infatti, quando la borsa sale e quando, di conseguenza, anche
il «fai da te» può produrre risultati soddisfacenti. Quando invece la
borsa scende e ci sarebbe bisogno di saldezza di nervi e di
professionalità perché si rischia davvero di farsi male, il ricorso
all’intermediazione di fondi comuni e gestioni si riduce. Indipendentemente
dal caso Bipop, quindi, c’è di che concludere che i rapporti tra
gestori e risparmiatori sono dominati da incomprensioni ed equivoci i
quali in parte sono giustificabili con la carenza di maturità sia della
domanda che dell’offerta di questi servizi, ma in parte sono dovuti a
carenza di serietà; il che, ovviamente, non può essere in alcun modo
giustificato.