Economia: Il caso Bipop

                

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LA STAMPA

Anno 135    N. 291
 
Lunedì 22 ottobre 2001
 
***
Si preferisce il fai-da-te quando la Borsa scende mentre servirebbe la professionalità e la saldezza di nervi dell'intermediatore
 
IL CASO BIPOP E GLI «EQUIVOCI» TRA GESTORI E RISPARMIATORI

Alfredo Recanatesi

Un paio di anni fa, nel pieno della più fulgida stagione borsistica della new-economy, l’astro di maggiore magnitudine, pur tra i tanti che si erano alzati fino a raggiungere in breve tempo lo zenit del mercato azionario, era la Bipop [Banca Popolare di Brescia/gruppo BIPOP-CARIRE, che ora è entrata a far parte del gruppo Capitalia/Banca di Roma, N.d.R.], la banca che con particolare sagacia e tempestività sembrava aver colto le opportunità dell’era che si andava schiudendo, aprendo la strada del banking on line e della gestione innovativa del risparmio. Nessun limite sembrava poter esserci alla crescita del suo valore, tanto che la capitalizzazione di borsa, con il consenso pressoché unanime degli analisti, andava via via superando quello dei più consolidati gruppi industriali e dei maggiori gruppi bancari. Ora, e solo ora, e a motivo di lotte interne alla banca, viene fuori un’incredibile realtà: sembra che il gioco fosse non solo quello di indirizzare verso i propri titoli il risparmio gestito o quello sul quale era comunque possibile esercitare una qualche influenza, ma fosse anche quello di finanziare clienti che intendessero prendere posizione sull’azionario; specie - s’intende - se manifestavano l’intenzione di acquistare i titoli della stessa banca. C’era qualche centinaio di clienti privilegiati non solo e non tanto perché venivano garantiti loro rendimenti che possiamo presumere consistenti, ma soprattutto perché era la stessa banca che finanziava i loro acquisti di titoli. Insomma - pare di capire - una catena di S. Antonio bell’e buona che ha retto, è ovvio, finché il trend di borsa volgeva verso l’alto e gli analisti facevano a gara nel fissare target-price sempre più alti, ma che si è rovinosamente spezzata quando il ciclo è diventato pesantemente ribassista, quando conseguentemente è scattata la garanzia di rendimento verso i clienti «garantiti», e quando il credito erogato per l’acquisto di titoli, e garantito dai titoli stessi, ha cominciato a non rientrare e il valore di quella garanzia ha cominciato a ridursi.

Il caso è specifico poiché vi ricorrono irregolarità sulle cui responsabilità stanno indagando la Banca d’Italia, la Consob [organo di sorveglianza della Borsa Valori italiana, N.d.R.] e la Procura della Repubblica. Eppure ha una componente che può essere generalizzata, poiché è certamente figlia, seppure degenere, della distorsione con la quale è nata e si è sviluppata in Italia la gestione del risparmio. E’ un’attività giovane e, conseguentemente, immatura sia nel modo in cui è svolta, sia in quello nel quale è percepita. E infatti fino a una decina di anni fa da gestire non c’era niente: i titoli di Stato offrivano rendimenti al disopra di ogni possibile alternativa, e l’impiego in titoli esteri era semplicemente vietato. Quando poi il mercato è stato liberalizzato e si è compiuto il risanamento che ha consentito una drastica riduzione non solo dei tassi di interesse, ma anche e soprattutto dei tassi di capitalizzazione, il risparmiatore italiano ha creduto che, attraverso la differenziazione degli impieghi e con l’intermediazione di gestori professionisti, avrebbe potuto continuare a ottenere gli elevati rendimenti ai quali era abituato. Lo credeva perché glielo avevano fatto credere, come se su un mercato finanziario «normale» fosse possibile ripetere quella combinazione di rendimento elevato e di assenza di rischio che, in un mercato distorto dal dissesto delle finanze pubbliche, si era potuto tanto a lungo verificare. Ma questo il risparmiatore credeva di poter chiedere e questo gli veniva offerto in una gara di promesse mirabolanti attraverso le quali si trattava di conquistare l’eldorado di un mercato ampio, ricco, altamente remunerativo e sostanzialmente vergine. La priorità era la conquista del cliente; cosa farne sarebbe stato un problema successivo: al futuro c’era tempo per pensarci. Si aggiunga che il mercato - a dispetto di quanti continuano a sostenere che ha sempre una sua logica interna - valutava banche, società di gestione, banche on-line non in base alla redditività, sia pure prospettica, ma esclusivamente in base alla quantità di clienti, sicché c’era la convenienza ad accaparrarne comunque perché, come avveniva per gli internet-providers, ciascuno di loro era «valore» da scontare nella capitalizzazione di borsa (oltre un milione di lire ciascuno, anche se si limitava a registrarsi senza mai effettuare una operazione o, comunque, procurare una sola lira di fatturato).

Questo è uno dei motivi per cui, pur in un mercato come quello finanziario nel quale la speculazione è parte integrante ed essenziale, la famigerata «bolla» ha potuto gonfiarsi come si era gonfiata: la Bipop soffiava con mezzi e procedure illeciti, ma non era certo la sola.

Per molto tempo le cose sono andate bene. Lo sfondo era dato dal ciclo rialzista della borsa americana, ma il mercato italiano ci aggiungeva del suo perché si autoalimentava: se la borsa saliva, il denaro dei titoli di Stato vi affluiva più copioso facendola salire ulteriormente; salendo, i gestori di risparmio potevano esibire il conseguimento dei risultati promessi e conquistavano così nuovi clienti che ne aumentavano il valore; in tal modo le imprese, bancarie e non, che avevano puntato le loro carte sulla gestione del risparmio generavano esse stesse i valori di borsa sui quali poi venivano commisurati la loro capitalizzazione ed i loro profitti. Da quanto si capisce, Bipop era giunta ad alimentare questa spirale con il credito da essa stessa erogato. Cosa che non si fa, certo; ma non è che tutti gli altri, con i loro analisti, i loro gestori e i loro promotori, con quella spirale non abbiano avuto a che fare, non l’abbiano alimentata anche loro con metodi che le regole scritte possono anche ammettere, ma che le regole non scritte possono ugualmente riprovare.

E infatti l’«industria» della gestione del risparmio, che per ovvie ragioni era l’ultima tra i paesi europei più avanzati, è diventata la prima, almeno per volumi gestiti. E tuttavia non riesce a consolidarsi, a trovare continuità nelle sue stesse ragioni esistenziali, rimane ciclica, e con una ciclicità opposta a quella che la logica farebbe supporre. Fiorisce, infatti, quando la borsa sale e quando, di conseguenza, anche il «fai da te» può produrre risultati soddisfacenti. Quando invece la borsa scende e ci sarebbe bisogno di saldezza di nervi e di professionalità perché si rischia davvero di farsi male, il ricorso all’intermediazione di fondi comuni e gestioni si riduce. Indipendentemente dal caso Bipop, quindi, c’è di che concludere che i rapporti tra gestori e risparmiatori sono dominati da incomprensioni ed equivoci i quali in parte sono giustificabili con la carenza di maturità sia della domanda che dell’offerta di questi servizi, ma in parte sono dovuti a carenza di serietà; il che, ovviamente, non può essere in alcun modo giustificato.

 

 

 

 

 

 

 

Questa pagina è stata aggiornata domenica 23 marzo 2003.

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