Per Hegel il punto culminante
e finale del processo universale è la sua propria esistenza a
Berlino”. Ebbene, questa frase di Nietzsche esprime a nostro
avviso in modo chiaro ed efficace quel fondamentale vizio e quella
sorta di strutturale deformazione che sono all’origine della
delirante onniscienza hegeliana. Onniscienza che Kierkegaard come
Feuerbach fecero di tutto per smascherare, o meglio, per demolire
anche se non certamente seguendo un medesimo metodo e soprattutto
non perseguendo uno stesso fine ultimo.
Entrambi concentrarono i loro
sforzi attaccando un particolare aspetto del pensiero hegeliano che
reputavano di cruciale importanza, ossia la conciliazione di
filosofia e religione. Come si sa, Hegel tripartì il processo di
auto-conoscenza dello Spirito Assoluto in forme successive che sono
l’arte, la religione e la filosofia. Questo movimento dialettico,
a nostro avviso, trova la sua piena legittimazione in un altro
automatismo di quel cingolato filosofico che è l’Enciclopedia
delle scienze e cioè l’identificazione tra logica e
metafisica, in
quell’audace e temeraria scelta cioè, di incorporare gran parte
del pensiero teologico e teleologico dell’Occidente in un mero
contesto formale. Sarà questa impostazione che permetterà al
filosofo di porsi in un atteggiamento di superiorità assoluta
rispetto alla storia, rispetto alla tradizione, rispetto alla
natura, rispetto al reale. E’ questa impostazione che Feuerbach ha
voluto avversare, ma come lo ha fatto? Affermando che filosofia e
religione, filosofia e cristianesimo sono inconciliabili. E quindi?
E quindi bisogna decidersi coraggiosamente, una volta per tutte, a
fare una filosofia non cristiana, a fare una filosofia rigorosamente
antropocentrica, a costruire cioè un pensiero che sia concretamente
ed esclusivamente “per l’uomo”.
Questa opzione teoretica, che
si proponeva come un decisivo strappo dall’avviluppante quanto
mistificante idealismo hegeliano e come una perentoria
rivendicazione dell’uomo “in carne ed ossa”, in realtà ha
avuto nella storia della filosofia un unico esiziale sviluppo:
distrarre gli uomini di cultura dalla contemplazione dell’essere,
unica vera sorgente di conoscenza, per impegnarli in una nuova,
folle costruzione di un’ennesima Torre di Babele chiamata
Filantropia.
L’ateismo è una posizione
umanamente insostenibile, pena l’inevitabile asservimento
dell’individuo ad idoli che inconsapevolmente divengono il telos
della sua vita. Feuerbach ha cercato di negare la teologia facendo
dell’uomo un Dio nell’antropologia, ha cercato di negare il
cristianesimo facendo della filosofia una religione. Risultato? Una
riduzione ideale dell’uomo ad alcuni, pur importanti,
fattori che lo costituiscono, cioè il corpo e la psiche; una
riduzione ideale alla quale però automaticamente – ed è la
storia a dimostrarcelo – consegue una limitazione reale,
imposta da chi detiene il potere, di quelle esigenze originarie e
fondamentali dell’io. Almeno un esempio? Eccovi un significativo
quanto sconcertante concetto espresso dalle vive parole del filosofo
e tratto da una sua opera del 1862: “La teoria degli alimenti è
di grande importanza etica e politica. I cibi si trasformano in
sangue, il sangue in cuore e cervello; in materia di pensieri e di
sentimenti. L’alimento umano è il fondamento della cultura e
del sentimento. Se volete far migliore il popolo, in luogo di
declamazioni contro il peccato, dategli un’alimentazione migliore.
L’uomo è ciò che mangia” (Corsivo nostro).
Il metodo e la prospettiva in
forza dei quali Kierkegaard punta
a sbriciolare il sistema hegeliano sono diametralmente
opposti a quelli appena accennati e riferiti al pensiero di
Feuerbach. Secondo il genio danese, per cercare di dimostrare
l’assurdità di una fede succube della filosofia, non è
necessario negare la ragionevolezza della fede, ma semmai ribadire
l’irriducibilità di quest’ultima al sapere. La filosofia è
sapere, il cristianesimo è fede. Mentre la verità della
speculazione tende ad una oggettività assoluta, la verità della
fede mira ad una soggettività estrema. Sì perché l’unico ambito
in cui il cristianesimo può essere verificato o falsificato è
l’esistenza individuale, e l’unico strumento atto a fare ciò è
la libertà del singolo.
Da questi semplici
presupposti, da questa elementare distinzione Kierkegaard ha saputo
trarre quelle intuizioni che renderanno il suo pensiero la più
autorevole alternativa all’idealismo hegeliano. Kierkegaard non ha
voluto costruire un sistema - tant’è che ha definito le sue idee briciole
filosofiche - ma ha saputo, con la sua intelligenza, con la sua
ironia e soprattutto con la sua profonda spiritualità, ridare voce
in campo filosofico e teologico all’innamorato di Cristo. E’ il
suo entusiasmante concetto di una realtà che è fatta di Cristo,
che è Cristo, a dare vigore e slancio a tutta la sua opera. Perché
vivere il presente, farsi carico di tutti i fattori che
costituiscono l’hic et nunc dell’esistenza
significa, significherà sempre e soltanto una cosa sola: prendere
posizione di fronte a Cristo. Accettare o rifiutare lo scandalo di
un Uomo che si è detto Figlio di Dio, accettare o rifiutare il
paradosso di un Dio che si è fatto Uomo.
Kierkegaard ha sempre voluto
difendere e testimoniare il valore originario della fede rispetto
alla ragione e non l’esclusività dell’una a discapito
all’altra ed in questo ci pare perfettamente in armonia con
l’esortazione di Giovanni Paolo II che proponiamo di
seguito come conclusione di questo nostro sforzo.
“ […] non posso non
incoraggiare i filosofi, cristiani o meno, ad avere fiducia nelle
capacità della ragione umana e a non prefiggersi mete troppo
modeste nel loro filosofare. La lezione della storia di questo
millennio […] testimonia che questa è la strada da seguire:
bisogna non perdere la passione per la verità ultima e l’ansia
per la ricerca, unite all’audacia di scoprire nuovi percorsi. E’
la fede che provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a
rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero.
La fede si fa così avvocato convincente della ragione”(Corsivo
nostro)1.