“Una
grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di
saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno
al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche
quando questa esprime e rende manifesta l’interiorità dell’uomo e la
sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga
la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge”.
Con queste parole, allo stesso tempo semplici e vigorose, tratte dalla sua
lettera enciclica Fides et ratio, Giovanni Paolo II ripropone
all’attenzione non solo degli intellettuali, ma dell’umanità intera
qual è il metodo dal quale nessuna ricerca che voglia dirsi
autenticamente e genuinamente filosofica può prescindere. Un metodo,
questo, troppo a lungo smarrito se non avversato, un metodo che per secoli
interi ha destato solo scandalo per quella verità che pare quasi
sottintendere: il fondamento c’è, il fondamento è l’Essere, è Dio,
l’origine e il fine di tutte le cose.
Procedere
dal fenomeno al fondamento significa riconoscere che il dato è sì tutto
quel che di esso noi percepiamo, ma la sua consistenza, il suo valore sta
principalmente in ciò di cui è segno. Indagare un dato non può voler
dire semplicemente misurare quei fattori che lo costituiscono, ma
anzitutto contemplare il mistero della sua datità, mendicandone il senso
e così predisponendosi alla rivelazione della verità. Questi, in sintesi
estrema, i termini di un realismo che faticosamente, nel corso dei secoli,
ha dovuto resistere agli attacchi delle ideologie di ogni natura, dallo
scetticismo allo stoicismo, dal panteismo al teosofismo, dal marxismo al
nichilismo. Questo, in altre parole, è quel realismo che ha trovato nel
cristianesimo, in quella storia prodottasi dall’avvenimento del Verbo
fattosi carne, nuove possibilità di interpretazione.
Tra
realismo e ideologia, tra coloro che lasciano alla realtà la prima parola
e coloro che il reale sono pronti a sacrificarlo pur di affermare la
logicità della loro idea: così ci piacerebbe dividere la millenaria
storia del pensiero occidentale, per vedere in quale delle due prospettive
l’uomo ha realizzato e realizza di più se stesso, seguendo quale delle
due strade gli è divenuta e gli diviene più accessibile la felicità. Ma
consci dei nostri limiti e consapevoli di quanto sia estremamente
pericoloso oltre che riduttivo ricorrere ad uno schematismo, ci limitiamo
semplicemente ad accennare un possibile, significativo confronto tra due
filosofi che bene rappresentano i due schieramenti prima abbozzati:
Kierkegaard e Feuerbach. Sulla scia di un illustre storico della filosofia
a noi molto caro, Luigi Pareyson (1918 – 1991), proponiamo quindi alla
riflessione di tutti l’accostamento di questi due autori maledetti del
XIX secolo, di questi due personaggi scomodi che i manuali ingiustamente
relegano tra le seconde file del pensiero contemporaneo.
E’ il 1841,
nelle aule della prestigiosa Università di Berlino Schelling, atteso ed
acclamato, tiene le sue più famose lezioni, nel corso delle quali
proclamerà il frutto maturo di quarant’anni vissuti nell’amore per la
sapienza: annuncerà cioè la propria Filosofia Positiva. Nella calca di
un uditorio ricchissimo immaginiamoci quattro occhi più vispi degli
altri, due appartengono ad uno stralunato ventottenne, neo-laureato in
Teologia e due ad un burbero 37enne dallo sguardo diffidente e minaccioso.
Si tratta di Soren Kierkegaard e Ludwig Feuerbach, che, chissà, forse
anche gomito a gomito si trovavano lì per ascoltare, vagliare, soppesare
ogni parola di quello che si annunciava come il grande Sistema che avrebbe
definitivamente soppiantato quello del Professor Hegel.
Sì
perché proprio quest’ultimo era il pensatore che maggiormente
meditavano quei due personaggi, proprio i volumoni delle sue opere, così
potenti e prepotenti, occupavano lo spazio maggiore sulle loro scrivanie.
Hegel, in quanto autore di un sistema filosofico che si auto-proclamava
come l’ultimo grado dello sviluppo della realtà e l’ultimo momento
dello sviluppo della storia, rappresentava
per Kierkegaard come per Feuerbach il più pericoloso attentatore alla
vita stessa della filosofia. E’ solo ed esclusivamente nel contesto di
un deciso ed appassionato anti-hegelismo che il tormentato teologo danese
e il discusso intellettuale bavarese possono immaginarsi collaboratori in
una causa comune; ed è qui infatti che noi vogliamo fotografare alcuni
importanti aspetti delle loro Weltanshauung.
“Per
Hegel il punto culminante e finale del processo universale è la sua
propria esistenza a Berlino”. Ebbene, questa frase di Nietzsche esprime
a nostro avviso in modo chiaro ed efficace quel fondamentale vizio e
quella sorta di strutturale deformazione che sono all’origine della
delirante onniscienza hegeliana. Onniscienza che Kierkegaard come
Feuerbach fecero di tutto per smascherare, o meglio, per demolire anche se
non certamente seguendo un medesimo metodo e soprattutto non perseguendo
uno stesso fine ultimo.
Entrambi
concentrarono i loro sforzi attaccando un particolare aspetto del pensiero
hegeliano che reputavano di cruciale importanza, ossia la conciliazione di
filosofia e religione. Come si sa, Hegel tripartì il processo di
auto-conoscenza dello Spirito Assoluto in forme successive che sono
l’arte, la religione e la filosofia. Questo movimento dialettico, a
nostro avviso, trova la sua piena legittimazione in un altro automatismo
di quel cingolato filosofico che è l’Enciclopedia delle
scienze e cioè l’identificazione tra logica e metafisica,
in quell’audace e temeraria scelta cioè, di incorporare gran
parte del pensiero teologico e teleologico dell’Occidente in un mero
contesto formale. Sarà questa impostazione che permetterà al filosofo di
porsi in un atteggiamento di superiorità assoluta rispetto alla storia,
rispetto alla tradizione, rispetto alla natura, rispetto al reale. E’
questa impostazione che Feuerbach ha voluto avversare, ma come? Affermando
che filosofia e religione, filosofia e cristianesimo sono inconciliabili,
certo, e quindi? E quindi bisogna decidersi coraggiosamente, una volta per
tutte, a fare una filosofia non cristiana, a fare una filosofia
rigorosamente