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dal fenomeno al fondamento 

Tra realismo e ideologia

di Roberto Pompilii

[1] Giovanni Paolo II, Fides et ratio, EDB, Bologna 1998, p.70.

Dal testo in latino

punto 83

Magna manet nos provocatio hoc exeunte millennio, ut nempe transitum facere sciamus tam necessarium quam urgentem a phaenomeno ad fundamentum. Non ideo licet in sola experientia consistere; etiam quotiens haec exprimit et ostendit interiorem hominis naturam eiusque spiritalitatem, necesse est speculativa ponderatio spiritalem substantiam attingat nec non fundamentum cui innititur.


Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l’interiorità dell’uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge[1]. Con queste parole, allo stesso tempo semplici e vigorose, tratte dalla sua lettera enciclica Fides et ratio, Giovanni Paolo II ripropone all’attenzione non solo degli intellettuali, ma dell’umanità intera qual è il metodo dal quale nessuna ricerca che voglia dirsi autenticamente e genuinamente filosofica può prescindere. Un metodo, questo, troppo a lungo smarrito se non avversato, un metodo che per secoli interi ha destato solo scandalo per quella verità che pare quasi sottintendere: il fondamento c’è, il fondamento è l’Essere, è Dio, l’origine e il fine di tutte le cose.

Procedere dal fenomeno al fondamento significa riconoscere che il dato è sì tutto quel che di esso noi percepiamo, ma la sua consistenza, il suo valore sta principalmente in ciò di cui è segno. Indagare un dato non può voler dire semplicemente misurare quei fattori che lo costituiscono, ma anzitutto contemplare il mistero della sua datità, mendicandone il senso e così predisponendosi alla rivelazione della verità. Questi, in sintesi estrema, i termini di un realismo che faticosamente, nel corso dei secoli, ha dovuto resistere agli attacchi delle ideologie di ogni natura, dallo scetticismo allo stoicismo, dal panteismo al teosofismo, dal marxismo al nichilismo. Questo, in altre parole, è quel realismo che ha trovato nel cristianesimo, in quella storia prodottasi dall’avvenimento del Verbo fattosi carne, nuove possibilità di interpretazione.

Tra realismo e ideologia, tra coloro che lasciano alla realtà la prima parola e coloro che il reale sono pronti a sacrificarlo pur di affermare la logicità della loro idea: così ci piacerebbe dividere la millenaria storia del pensiero occidentale, per vedere in quale delle due prospettive l’uomo ha realizzato e realizza di più se stesso, seguendo quale delle due strade gli è divenuta e gli diviene più accessibile la felicità. Ma consci dei nostri limiti e consapevoli di quanto sia estremamente pericoloso oltre che riduttivo ricorrere ad uno schematismo, ci limitiamo semplicemente ad accennare un possibile, significativo confronto tra due filosofi che bene rappresentano i due schieramenti prima abbozzati: Kierkegaard e Feuerbach. Sulla scia di un illustre storico della filosofia a noi molto caro, Luigi Pareyson (1918 – 1991), proponiamo quindi alla riflessione di tutti l’accostamento di questi due autori maledetti del XIX secolo, di questi due personaggi scomodi che i manuali ingiustamente relegano tra le seconde file del pensiero contemporaneo.

E’ il 1841, nelle aule della prestigiosa Università di Berlino Schelling, atteso ed acclamato, tiene le sue più famose lezioni, nel corso delle quali proclamerà il frutto maturo di quarant’anni vissuti nell’amore per la sapienza: annuncerà cioè la propria Filosofia Positiva. Nella calca di un uditorio ricchissimo immaginiamoci quattro occhi più vispi degli altri, due appartengono ad uno stralunato ventottenne, neo-laureato in Teologia e due ad un burbero 37enne dallo sguardo diffidente e minaccioso. Si tratta di Soren Kierkegaard e Ludwig Feuerbach, che, chissà, forse anche gomito a gomito si trovavano lì per ascoltare, vagliare, soppesare ogni parola di quello che si annunciava come il grande Sistema che avrebbe definitivamente soppiantato quello del Professor Hegel.

Sì perché proprio quest’ultimo era il pensatore che maggiormente meditavano quei due personaggi, proprio i volumoni delle sue opere, così potenti e prepotenti, occupavano lo spazio maggiore sulle loro scrivanie. Hegel, in quanto autore di un sistema filosofico che si auto-proclamava come l’ultimo grado dello sviluppo della realtà e l’ultimo momento dello sviluppo della storia,  rappresentava per Kierkegaard come per Feuerbach il più pericoloso attentatore alla vita stessa della filosofia. E’ solo ed esclusivamente nel contesto di un deciso ed appassionato anti-hegelismo che il tormentato teologo danese e il discusso intellettuale bavarese possono immaginarsi collaboratori in una causa comune; ed è qui infatti che noi vogliamo fotografare alcuni importanti aspetti delle loro Weltanshauung.

“Per Hegel il punto culminante e finale del processo universale è la sua propria esistenza a Berlino”. Ebbene, questa frase di Nietzsche esprime a nostro avviso in modo chiaro ed efficace quel fondamentale vizio e quella sorta di strutturale deformazione che sono all’origine della delirante onniscienza hegeliana. Onniscienza che Kierkegaard come Feuerbach fecero di tutto per smascherare, o meglio, per demolire anche se non certamente seguendo un medesimo metodo e soprattutto non perseguendo uno stesso fine ultimo.

Entrambi concentrarono i loro sforzi attaccando un particolare aspetto del pensiero hegeliano che reputavano di cruciale importanza, ossia la conciliazione di filosofia e religione. Come si sa, Hegel tripartì il processo di auto-conoscenza dello Spirito Assoluto in forme successive che sono l’arte, la religione e la filosofia. Questo movimento dialettico, a nostro avviso, trova la sua piena legittimazione in un altro automatismo di quel cingolato filosofico che è l’Enciclopedia delle scienze e cioè l’identificazione tra logica e metafisica,  in quell’audace e temeraria scelta cioè, di incorporare gran parte del pensiero teologico e teleologico dell’Occidente in un mero contesto formale. Sarà questa impostazione che permetterà al filosofo di porsi in un atteggiamento di superiorità assoluta rispetto alla storia, rispetto alla tradizione, rispetto alla natura, rispetto al reale. E’ questa impostazione che Feuerbach ha voluto avversare, ma come? Affermando che filosofia e religione, filosofia e cristianesimo sono inconciliabili, certo, e quindi? E quindi bisogna decidersi coraggiosamente, una volta per tutte, a fare una filosofia non cristiana, a fare una filosofia rigorosamente    

 
 

 

 

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