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Nel IV secolo
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Principio del IV secolo: come i romani
vedevano i popoli celtici
I vari popoli celtici erano considerati in maniera diversa dai romani. Da un
lato Roma considerava gli Insubri come autoctoni e i Cenòmani come alleati
e quindi fu sempre disposta a venire a patti con essi. Forse i Cenòmani,
il cui territorio si estendeva dal fiume Mincio all'Adige, erano avversi alla
causa comune celtica per contrasti interni coi vicini Insubri. Anche i Celti
Lingoni, stanziati lungo la costa adriatica, non attaccarono mai i romani.
I celti cispadani invece attaccarono più volte l'Urbe e non strinsero
mai buone relazioni con la città latina. Forse per questo motivo i romani
ritennero i Sénoni e i Boi, cioè i principali popoli cispadani,
degli invasori stranieri. Un termine illustra bene la distanza culturale tra
romani e celti: tumultus. Per i romani un conflitto aperto e dichiarato
veniva definito bellum, mentre le scorrerie dei celti erano considerate
appunto tumultus. Il modo di concepire la guerra da parte dei celti era
considerato quindi estraneo alle usanze romane.
Il IV secolo: invasioni celtiche in territorio
latino
Il primo scontro dei Celti coi romani avvenne nel 391 a Chiusi. I Sénoni,
con un esercito di 30.000 soldati, volevano occupare il territorio della città
etrusca e l'avevano posto sotto assedio. I chiusini chiesero una mediazione
a Roma, città con la quale avevano buoni rapporti di vicinato ed interessi
commerciali. Il Senato romano tentò la via diplomatica: inviò
a Chiusi alcuni legati con l'invito ai Sénoni a desistere dall'assedio
e a prendere contatti con Roma per risolvere pacificamente la controversia.
I Sénoni tennero un'assemblea popolare e risposero che avrebbero accettato
la pace in cambio della cessione da parte di Chiusi di un ampio territorio da
poter coltivare. Sembrava che l'accordo fosse a un passo, quando la situazione
precipitò. Uno dei legati romani, Quinto Fabio, mentre gli altri stavano
ritornando all'Urbe dalla missione, organizzò la popolazione di Chiusi
alla difesa, ruppe le trattative ed uccise un capo dei Sénoni. Ciò
è quanto riporta Tito Livio. I Galli chiesero al Senato di consegnargli
Quinto Fabio; avendone ottenuto un rifiuto, tolsero l'assedio a Chiusi e si
diressero immediatamente verso il Lazio.
La rappresaglia dei Galli contro la città latina ebbe il suo primo episodio
determinante nella battaglia sul fiume Allia.
La sconfitta romana fu completa e determinò il successivo assalto celtico
alla città. Posta sotto assedio, Roma cadde, fu occupata e saccheggiata.
Per rientrare in possesso della loro città il console unico Furio Camillo
dovette pagare un riscatto di mille libbre d’oro. Secondo un'altra fonte i Celti,
guidati dal capo dei Sénoni, pretesero l'oro del sacco dell'etrusca Veio,
appena conquistata dai Romani. Il nome "Brenno", che la tradizione
attribuisce al capo dei Galli, in realtà è un titolo onorifico
e significa "capo", "condottiero".
Le milizie celtiche continuarono per buona parte del IV secolo a praticare scorrerie
nel Lazio, che non avevano altro obiettivo se non il saccheggio e tutt'al più
una momentanea occupazione del territorio. Per le loro incursioni verso Roma
i Celti facevano base lungo la linea dei colli Albani (a sud-est dell'Urbe e
a 25 km dal mare), il che dà una conferma delle loro buone capacità
strategiche. Quella posizione infatti consentiva ai Galli di tenere sotto controllo
l'Urbe e la campagna laziale da un luogo favorevole e sicuro, da cui potevano
anche spingersi fino alla costa. Le stesse basi fungevano da punto di partenza
per scorrerie fin nell'Italia meridionale: bande galliche sono segnalate in
Apulia, Japigia, in Calabria, nel Bruzio e in Lucania.
Una seconda invasione celtica in territorio laziale ebbe luogo nel 360
(Tito Livio). Una terza incursione fu annunciata nel 348, ma non ebbe luogo.
Poi, alcuni anni dopo (siamo nel 334/33), Polibio racconta che i Sénoni
concordarono una delle loro rare paci coi romani (che durò circa 30 anni),
proseguendo comunque la loro politica di contrasto con la città latina.
Questa pace, scritta e pienamente rispettata (le scorrerie celtiche nella penisola
cessarono del tutto), rimase un caso isolato nelle relazioni tra Roma e i celti.
Probabilmente la città latina, duramente impegnata dalle guerre sannitiche,
aveva interesse a non essere attaccata su un altro fronte. Si ritiene quindi
che abbia volontariamente pagato la pace coi galli per evitare tumultus.
In sostanza, i Romani trascorsero lungo tempo con la fobia del "terror
gallicus", vivendo per più di un secolo e mezzo sotto la costante minaccia
delle scorrerie dei Celti.