Le Foreste Casentinesi sono un residuo
dell’antica Selva Wurmiana che, circa 25.000 anni fa, copriva gran parte
dell’Europa. Ciò non significa che siano foreste vergini e mai toccate
dall’uomo, il quale, anzi, ha abitato
per millenni questo territorio, sfruttandone le risorse e modificandone in
parte il paesaggio, pur senza creare danni irreversibili agli ecosistemi,
dato che la zona presenta una elevatissima biodiversità. Addirittura non molto lontano da
questa zona, per la precisione sulle colline tra Castrocaro e Forlì, è stato
rinvenuto un antichissimo insediamento di Homo erectus, una delle specie di
ominidi che ci ha preceduto lungo il cammino evolutivo, che sembra risalire
ad un periodo tra gli 800.000 ed i 700.000 anni fa e che pertanto rivaleggia,
come età, con la popolazione dell’Uomo di Ceprano, considerata la più antica
esistente in Italia. Anche senza andare così lontano
nel tempo, si può comunque affermare che l’area in cui oggi si trova il Parco
Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna ed i
territori limitrofi hanno una lunga storia. L’elemento fondamentale di questa
zona è stato da un lato il bosco e dall’altro il corso d’acqua: i centri
abitati sorgono sempre, infatti, in prossimità dei fiumi. Inoltre un ruolo
importante nella storia di questi luoghi è stato giocato anche dai terremoti frequenti: l’area è sismica,
come gran parte del territorio italiano, a causa dello spostamento della
Zolla Tirrenica verso quella Adriatica, che ha determinato e continua a
produrre ancor oggi “l’orogenesi appenninica”,
cioè il sollevamento della catena appenninica e, in definitiva la formazione
della penisola italiana nella quale viviamo. I primi villaggi sorgono in queste
zone circa 1.600 – 1.300 anni fa e sono solitamente di origine etrusca:
probabilmente si tratta di popolazioni partite dall’attuale provincia di
Arezzo. Testimonianza di questi
insediamenti sono le statuette votive ritrovate a partire dal 1838 nel Lago
Degli Idoli (oggi prosciugato) presso Ciliegeta, sulle pendici del Monte
Falterona. Sono statuette di varie età (le più antiche risalgono ad un
periodo tra il 680 ed il 480 a.C., altre, invece, sono più recenti), in
bronzo, e di aspetto molto differente tra di loro: alcune sono più rozze,
grossolane e statiche, altre molto più raffinate. La teoria più accreditata
vuole che questo fosse un luogo di culto. Forse il Monte Falterona, così
alto, imponente e selvaggio era visto come una divinità, oppure vi si
svolgevano riti legati alle sorgenti, considerate magiche. Forse qui
giungevano in pellegrinaggio i malati, dato che nel lago era presente il
“creosoto” rilasciato dai tronchi di faggio, che ha proprietà antiemorragiche
e balsamiche, e pertanto utile per malattie come la tisi. Secondo un’altra ipotesi, invece,
questo era un luogo di passaggio durante la transumanza, dove forse
avvenivano riti magici volti alla protezione degli animali dagli spiriti
maligni. Oggi alcune di queste statuette ed
oggetti votivi sono conservati nel museo del Castello di Romena, ma la maggior
parte, messe in vendita subito dopo il ritrovamento, si trova in svariati
musei, soprattutto all’estero (Louvre, British Musem, The Walthers Art
Gallery di Baltimora, ecc.). (Le
fotografie qui riportate sono state scaricate del sito: http://www.bdp.it/park/
in cui si trova un affascinate percorso alla
ricerca del “tesoro” di Ciliegeta). La penetrazione romana inizia con
la fondazione di Rimini (268 a.C.) e si consolida con la conquista di Sarsina
(266 a.C.). I romani erano interessati soprattutto a due risorse: il legname
(in particolare per la costruzione del Porto di Classe) e l’acqua (da Doccia,
presso Meldola, partiva l’acquedotto di Traiano). La zona dell’attuale Parco
Nazionale era molto selvaggia. Caio Flaminio Nipote, però, riuscì a far
costruire una strada (168 a.C.) tra Arezzo e Bologna. Per il resto, comunque
il territorio delle Foreste Casentinesi non era né sfruttato, né abitato, se
non sporadicamente, per la sua asperità. Quindi, durante questo periodo, non
subì modifiche nel suo aspetto da parte dell’uomo. La caduta dell’Impero Romano
lasciò queste zone del tutto prive di una qualsiasi amministrazione; ma con
il fenomeno del monachesimo, che portò eremiti ed uomini religiosi nelle aree
più impervie, e con la conseguente nascita delle prime abbazie, nascono delle
strutture che sostituiscono l’amministrazione romana. Così, mentre a Ravenna
si insediano i bizantini ed in Toscana scendono i Longobardi, personaggi come
Sant’Ellero (che costruisce l’omonima abbazia presso Galeata) scelgono di
vivere tra le asperità della foresta, nell’isolamento e nell’ascesi e fondano
ordini religiosi, cui, nel corso degli anni, vengono dati in gestione
territori più o meno ampi della foresta. Così la storia di alcuni ordini
religiosi va di pari passo con quella della foresta. In particolare, tra
questi, vi sono i monaci camaldolesi. Nel 1020 il benedettino Romualdo
stabilisce insieme al vescovo di Arezzo Teodaldo di fondare un eremo presso
la posta di Fontebona (l’attuale Camaldoli). Nasce così il primo nucleo di
monaci camaldolesi, che per secoli gestiranno l’omonima foresta, nel cuore
delle attuali Foreste Casentinesi. La stessa Regola di vita eremitica
recitava testualmente: “Se saranno gl’Eremiti studiosi veramente della
solitudine, bisognerà che habbiano grandissima cura, et diligenza, che i
boschi, i quali sono intorno all’Eremo, non siano scemati, né diminuiti in
niun modo, ma più tosto allargati, et cresciuti…”. Tanto che sarà poi
chiamata anche Codice Forestale. Per i camaldolesi la foresta non era
soltanto un bene da gestire e sfruttare per il loro mantenimento, ma era
molto di più: essi stessi si identificavano con la foresta, il cui sviluppo
era come la loro crescita spirituale e gli alberi erano (come già indicato dal profeta Isaia)
simbolo delle virtù a cui i monaci dovevano aspirare e conformare la propria
esistenza. Gradualmente l’ordine camaldolese
diviene sempre più forte: vengono fondati diversi insediamenti non soltanto
sul versante toscano delle Foreste, ma anche in quello romagnolo (Eremo
Nuovo, Abbazia di S. Benedetto in Alpe ed altri; i camaldolesi si stabilirono
addirittura a Forlì) e, poiché i monaci avevano il diritto di scegliere i
propri “generali” (così venivano detti i superiori di grado più elevato)
senza l’intervento del papa, praticamente arrivano ad essere una specie di
Chiesa nella Chiesa. Dal punto di vista della gestione forestale questo
determina una conduzione unitaria del territorio sia sul versante romagnolo
che su quello toscano. Ma, soprattutto, la presenza di tanti edifici e centri
religiosi, rende il territorio accessibile a quello che potremmo definire il
turismo di massa dell’epoca: il pellegrinaggio. I
pellegrini diretti a Roma ora possono trovare rifugio ed asilo nelle foresterie di monasteri ed abbazie e
negli ostelli gestiti dai monaci: non è certo un caso che intorno al 1200 una
delle principali strade che conduceva a Roma (anche se il termine “strada” è
un mero eufemismo, dato che si trattava di poco più che sentieri) passasse
proprio attraverso le Foreste Casentinesi. Ancora oggi ne sono testimonianza
le maestà, le cellette, i piccoli oratori oppure le croci medioevali (poste
solitamente all’ingresso dei paesi per accogliere i pellegrini, le quali
recavano sul davanti l’Agnello e sul retro la mano benedicente di Dio), che
sorgono in tutto il territorio e che, nel Medio Evo, costituivano le
“indicazioni” ed i “segnali stradali” per i viandanti. (Nell’immagine
qui sopra, a destra, si vede un antico ponte, presso Badia Prataglia, che si
trova su quelli che un tempo erano i sentieri percorsi dai pellegrini). Ed il crescente potere dei
camaldolesi li fa contrapporre (e con loro tutta la Chiesa) al potere
feudale, in particolar modo ai Conti Guidi, i cui possedimenti andavano dalla
Romagna al cuore della Toscana, fin quasi alle porte di Firenze. Ma anche la stessa Firenze, altra
“potenza” dell’epoca, aveva iniziato la penetrazione nel Casentino a partire dal
1289 con la Battaglia di Campaldino. Però la presenza di un potere feudale
così forte come quello dei Guidi è un minaccia per la Repubblica Fiorentina.
Minaccia che non tarda a concretizzarsi quando nel 1380 questi si uniscono a
Gian Galeazzo Visconti che tenta di invadere Firenze: è l’inizio di una
guerra che vedrà la sconfitta del Visconti e dei conti Guidi suoi alleati e
la conquista, all’inizio del ‘400, di tutto il territorio delle Foreste
Casentinesi, compreso il versante Romagnolo ed i paesi situati su questo lato
delle montagne (S. Benedetto in Alpe, Rocca S. Casciano, Premilcuore, S.
Sofia, Galeata ecc.) che diverrà parte della Toscana e rimarrà tale fino al
1923, quando Mussolini “sposterà i confini”, cioè passerà la giurisdizione
dei territori romagnoli a Forlì, dato che una città come Firenze era troppo
lontana dal punto di vista geografico da queste zone e dalle popolazioni che le abitavano. Ma la conquista fiorentina dei
distretti romagnoli all’alba del XV secolo viene salutata dalle popolazioni
locali come una liberazione, dato che il nuovo dominio permette la nascita di
Statuti in cui sono stabiliti i diritti ed i doveri dei cittadini, i quali
ora possono prendere parte alla vita politica dei loro paesi e della
repubblica fiorentina, a differenza di quanto era avvenuto fino ad allora,
sotto il dominio dei Conti Guidi, che erano signori feudali e quindi
indiscussi, con potere di vita e di morte sui servi della gleba e sugli
abitanti di paesi e villaggi. Per
quanto riguarda la Foresta, la conquista di Firenze segna un passaggio di
gestione: il legname era una importantissima materia prima cui la repubblica
era decisamente interessata, tant’è che acquista diversi territori forestali
e li cede all’Opera di Santa Maria del Fiore (detta anche Opera del Duomo,
che era un’associazione laica), sottraendoli alla gestione dei monaci
camaldolesi, cui resteranno solo piccole porzioni di territorio, ad esempio
la foresta che si estende attorno al Sacro Eremo. Questo passaggio di consegne viene
effettuato in primo luogo per nobili fini: sono necessarie grandi quantità di
legname per costruire le impalcature e le centine per il completamento della
cattedrale di Santa Maria del Fiore con la cupola progettata da Filippo
Brunelleschi. A tal fine gli abeti bianchi
alti e diritti che crescono nelle Foreste Casentinesi (come quelli che ancor
oggi si ammirano nella Foresta di Campigna), sono più che idonei: i grandi
alberi vengono perciò abbattuti e trascinati da buoi a valle, fino a
Pratovecchio, dove sorge un porto fluviale e qui condotti lungo l’Arno per
floatazione fino a Firenze (come si osserva ancora oggi in Canada). Dobbiamo
dire grazie al legname delle Foreste Casentinesi (e, con esso, all’opera di
selvicoltura compiuta dai monaci camaldolesi ed all’attività degli operai
forestali dell’epoca) se oggi possiamo ammirare un’opera riconosciuta come
patrimonio dell’umanità qual è la Cupola del Brunelleschi. Terminata l’edificazione della
cupola, però, la Foresta rimane sotto la gestione dell’opera del Duomo, che
se ne serve per il proprio mantenimento: la conduzione viene perciò rivolta
ad uno sfruttamento della Foresta a
soli fini economici, per cui viene fatta una vera e propria guerra al faggio
in favore dell’abete bianco, più pregiato. Questo genera, però, contrasti con
le popolazioni locali, che vivevano del faggio e se ne servivano per le loro
opere artigianali o con le popolazioni rurali romagnole, con una cultura ed
un’economia agricola, che avevano interesse a “roncare” alcune aree boschive
per coltivarle. Solo nel 1818 la Foresta verrà di
nuovo data ai monaci camaldolesi in enfiteusi, per cui la gestione muterà e
la vegetazione inizierà a crescere rigogliosa come un tempo. Nel 1837 il Granduca di Toscana
Leopoldo II di Lorena rileva il territorio e nel 1839 chiama a gestirlo un
giovane ingegnere forestale di origine boema, Carl Simon (che italianizzerà
il proprio nome in Carlo Siemoni). I suoi progetti di risanamento del
territorio, però, tolgono all’amministrazione fiorentina i proventi immediati
che lo sfruttamento delle zona, gestita come era stato fatto fino a quel
momento, garantiva, per cui l’attività del giovane selvicoltore viene
fortemente osteggiata. Finché nel 1859 Leopoldo II acquista e si intesta le
Foreste consegnandole al controllo di Siemoni, cui viene data carta bianca.
Questi applica le tecniche di selvicoltura ottocentesche, molto avanzate.
Vengono costruite numerose segherie ad acqua, soprattutto sul versante
romagnolo delle Foreste (nei pressi della Lama). Tra l’altro utilizza i
cascami del legno per alimentare forni e, sempre nella Foresta della Lama (il
cui suolo è ricco di silicio), costruisce una vetreria. La Lama, perciò,
diventa un luogo di incontro tra operai del legno toscani e romagnoli. Addirittura
nel 1920 vi sarà fabbricata una ferrovia a scartamento ridotto per il
trasporto del legname. Altri momenti critici per questi
territori si ebbero dopo l’unità d’Italia, quando il nascente stato, non
avendo i mezzi economici ed amministrativi per gestire molti dei propri
territori li dà sotto controllo a privati. Così il Cavalier Tonietti ottiene
la conduzione della Foresta che circonda Badia Prataglia: il suo scopo era
uno sfruttamento intensivo del faggio per la costruzione delle ferrovie, senza
preoccuparsi di ripiantare alberi e quindi di rinnovare la fonte di reddito
dato che la sua intenzione era quella di utilizzare il più possibile le
risorse del territorio per un tempo limitato e poi restituirlo allo Stato.
Almeno secondo Alcuni. Secondo Altri, invece questa immagine di Tonietti
visto come un mero speculatore è decisamente esagerata. In ogni caso, sarà
forse per il titolo di cui questo personaggio si fregiava, ritengo che possa
essere una metafora di alcune situazioni attuali. In ogni caso le popolazioni
locali si opposero fortemente a
questo sfruttamento incondizionato e, una volta tanto, l’ebbero vinta sulle
speculazioni del Cavalier Tonietti. Altri momenti critici per le
Foreste Casentinesi furono durante le due Guerre Mondiali: durante il Primo
Conflitto Mondiale, il legname era necessario al fronte, ma non si sfruttava
quello delle Alpi per motivi strategici, dato che sulle Alpi era situata la
linea del fronte, bensì quello di altre zone. Durante la Seconda Guerra
Mondiale, poi, la Linea Gotica passava proprio per la zona in cui si trovano
le foreste, tant’è che questo territorio e quelli limitrofi furono teatro di
tanti scontri fra tedeschi e partigiani. Ma non furono tanto gli invasori
tedeschi a causare danni alle foreste quanto agli Alleati che abbatterono
numerose piante, ricorrendo anche alle ruspe, senza poi neanche preoccuparsi
di sfruttarne il legname. La ripresa delle Foreste è
iniziata nell’ultimo dopoguerra, quando, complice il fatto che le montagne
erano zone economicamente depresse da cui le popolazioni emigravano verso le
città in cerca di lavoro, venne incentivato il rimboschimento come
opportunità di occupazione delle popolazioni che vivevano in queste zone. Le
Foreste Casentinesi nell’Arte. E l’arte nelle Foreste Casentinesi. Bibliografia
MAMBRINI
MONS. DOMENICO – Galeata nella storia e nell’arte. Stabilimento
Tipografico dei Comuni – S. Sofia di Romagna. Seconda edizione, 1973.
BORCHI
SIMONE – Foreste Casentinesi. Edizioni D.R.E.A.M. Italia. 1989 |