IL
PALEOLITICO NEL PEDEAPPENNINO FORLIVESE
(Le immagini pubblicate in
questa pagina sono state scaricate dal sito: http://xoomer.virgilio.it/davmonac/homo/index.html)
Andare ad indagare su quanto è avvenuto sulla terra prima della comparsa dell’uomo o quando i nostri antenati muovevano i loro primi passi tra le savane e le boscaglie dell’Africa non è impresa da poco. Sebbene l’evoluzione sia un processo estremamente lungo (centinaia di migliaia o addirittura milioni di anni!), spesso le uniche testimonianze dei periodi passati non sono altro che alcuni centimetri di sedimenti divenuti roccia. Tra i quali, alle volte, è possibile trovare reperti fossili che costituiscono le uniche tracce giunte fino a noi attraverso il tempo.
È un po’ come stare seduti ad una finestra ed osservare un enorme palazzo completamente immerso nell’oscurità. Talvolta alcune finestre si illuminano e ci consentono di vedere che cosa c’è in alcune stanze del palazzo. Ma poi, per sapere davvero com’è l’interno del palazzo non ci resta altro da fare che formulare ipotesi in base ai dati che abbiamo a disposizione. Se siamo fortunati, forse, prima o poi, la luce di una nuova finestra ci darà una conferma. Però non è improbabile che, invece, una nuova luce che si accende da qualche altra parte del palazzo demolisca tutte le nostre congetture e ci costringa a farne di nuove. È proprio un bel giallo da risolvere!
Se poi restringiamo il campo delle
nostre ricerche solo ad una piccola parte del palazzo (o, per uscire dalla
metafora, ad una ristretta area geografica, come per esempio la Valle del
Bidente e quelle ad essa limitrofe) l’impresa diviene estremamente ardua: la
probabilità che qualche finestra si illumini proprio lì è estremamente bassa ed
anche le informazioni che questa ci può dare non sempre sono sufficienti (anche
se, alle volte, è possibile integrarle con altre provenienti da diverse aree
geografiche, purché si abbia un quadro generale riguardo all’argomento della
ricerca!).
1. Una giornata con
l’Homo erectus
Questa
volta siamo fortunati: una finestra si illumina e ci mostra una comunità di Homo
erectus che viveva a Monte Poggiolo, presso Forlì, circa 800.000 anni fa.
È una scoperta
importante: infatti finora questo è uno dei
siti più antichi occupati dall’uomo nella nostra penisola. Potremmo
parlare degli antichi abitanti di questo luogo come alcuni dei “primi
italiani”. Essi avevano avuto origine in Africa circa un milione e seicentomila
anni fa e da qui alcune popolazioni si erano dirette verso nord, probabilmente
seguendo la valle del Nilo, avevano attraversato la Penisola del Sinai e,
raggiunto il Medio Oriente, si erano distribuite in Asia ed in Europa.
Dall’Homo erectus, poi, sarebbe derivato l’Homo sapiens
(il nostro diretto antenato), sia l’Homo neandertaliensis (l’uomo di
Neandertal). Secondo altri, poi, l’uomo di
Neandertal sarebbe stato molto più affine a noi di quanto non sembri:
cioè avremmo avuto l’ Homo sapiens neandertaliensis (che quindi sarebbe
stato semplicemente una sottospecie di Homo sapiens) e l’Homo sapiens
sapiens (altra sottospecie, detto anche uomo di Cro-Magnon che sarebbe
stato il nostro diretto antenato).
Secondo la teoria dell’ “origine africana” lo svilluppo dell’Homo
sapiens e quello dell’ Homo neandertaliensis sarebbe avvenuto sempre
in Africa (da dove poi emigrò alla volta dell’Europa), mentre la teoria così
detta “multiregionale” ipotizza che le diverse popolazioni di Homo erectus
si siano evolute indipendentemente cosicché l’uomo di Neandertal ha avuto
origine in Europa, mentre l’uomo di Cro-Magnon in Africa.
Forse l’Homo erectus
che viveva in Italia a partire da circa 800.000 anni fa era già più simile
all’uomo di Neandertal dei suoi predecessori africani, ma ancora mancano
conferme certe a questa ipotesi. Di sicuro sappiamo che in epoche successive
troviamo le sue tracce (spesso anche molto abbondanti) sia verso il Molise e la
Puglia, sia verso il Lazio.
Vediamo quindi di tornare
ai nostri antenati di 800.000 anni fa (nell’immagine sopra la ricostruzione
grafica dell'habitat dell'homo di Isernia elaborata da Dario Di Carlo.). Se
guardiamo dentro alla famosa finestra illuminata vedremo un paesaggio ben diverso
da quello di oggi: l’Appennino in via di formazione ha declivi più dolci e meno
aspri di quelli attuali, ma non vi sono certo campi, vigneti e boschi, bensì
una steppa dal clima arido e non troppo mite, con estesi pascoli, pochi alberi
e paludi nelle zone pianeggianti, su cui si susseguivano fondamentalmente due
stagioni nell’arco di un anno, una lunga, secca ed abbastanza fredda ed una
piovosa e più temperata.
Immaginiamo di scrutare queste praterie in un giorno qualunque di
quella lontana epoca, nel momento in cui inizia ad albeggiare. I grandi
erbivori sono al pascolo: nella pianura si scorgono branchi di elefanti (Elephas antiquus) e, qua e là, rinoceronti
(Dicerorhinus hemitohecus) isolati. Nei fiumi nuotano
gruppi di ippopotami (Hippopotamus amphibius) di
ritorno dai pascoli dove si sono alimentati durante la notte e sulle rive
crescono fitte macchie con alberi d’alto fusto che si spingono fino sui fianchi
delle colline e che sono il regno del megacero,
un grande cervide dagli enormi palchi ramificati, del daino (Dama sp.)
e del cinghiale (Sus scrofa). Sulle rupi vive
il thar
(Hemitragus bonali), simile ad una capra selvatica, i cui
balzi non sono certo meno agili rispetto a quelli di stambecchi e camosci.
Sulle colline è facile osservare un orso (Ursus deningeri), magari una
femmina con tanto di piccoli al seguito. Più in basso, verso la pianura, una
mandria di bisonti (Bison shoetensaki) è al
pascolo su di un pendio erboso.
Ma qualcosa si muove non molto distante. Un predatore? Un leone? No. È un gruppo di creature
bipedi dai tratti apparentemente scimmieschi. Ma guardandoli più da vicino
noteremmo in loro qualcosa di umano e di straordinariamente simile a noi. Non
sono molto alti: circa un metro e cinquanta. Sono giovani. La loro pelle è
scura, a testimonianza della loro lontana origine nelle savane africane, ed è
coperta di pitture rituali e propiziatorie eseguite con l’ocra rossa. Sono
armati di rudimentali asce di pietra, di giavellotti e di bastoni acuminati le
cui punte sono state indurite sul fuoco. Si scambiano brevi messaggi a gesti,
per non insospettire i grandi erbivori che continuano a pascolare ignari di
quel gruppo di esseri che si sta avvicinando disposto a semicerchio. I
cacciatori, però, sanno alla perfezione cosa devono fare anche senza bisogno di
comunicare tra di loro (La scena di caccia qui raffigurata è stata realizzata
da Umberto Taccola).
Infatti eccoli d’improvviso scattare in piedi urlando, lanciando
pietre e facendo quanto più strepito possibile con tutto ciò che hanno a
disposizione. La mandria terrorizzata si lancia in una folle fuga verso la
salvezza. Ma è una corsa cieca verso un dirupo. Alcuni riescono a scartare ed a
cambiare direzione. Altri precipitano inesorabilmente.
Ai cacciatori non resta altro da fare che scendere e finire gli
animali agonizzanti e poi farli a pezzi (e magari mangiarne subito alcune parti
crude, secondo un rituale antichissimo) utilizzando robuste pietre scheggiate
dai bordi taglienti, i cosiddetti “chopper”.
Il ricco bottino di carne viene quindi portato all’accampamento
(anche le immagini sottostanti sono opera di Umberto Taccola).
L’accampamento è costituito
da diverse capanne disposte in vario modo attorno ad un grande focolare, che
costituisce il fulcro della comunità. Ai cacciatori che stanno tornando carichi
di prezioso cibo giungono gli odori ed i rumori del villaggio: le attività
delle donne o dei “fabbricanti di utensili”, cioè gli uomini più anziani che
non vanno più a caccia, ma che raccolgono le pietre a loro giudizio migliori
per ricavare strumenti e, con pochi, abili e sapienti colpi, le trasformano in choppers
o in raschiatoi dai bordi taglienti, che verranno poi adibiti agli usi più
disparati.
E, tra tutti gli altri suoni, spiccano le voci e gli schiamazzi dei
bambini che giocano e che, proprio grazie al gioco apprendono, formano le loro
prime relazioni sociali ed imparano a conoscere la vita. Più o meno come fanno
tutti gli altri cuccioli dei mammiferi. Ma a differenza di questi ultimi la
loro è un’infanzia straordinariamente lunga, che non dura poche stagioni, bensì
molti anni. Anche una volta diventati “adulti”, cioè raggiunta l’età in cui è
loro possibile procreare, ovvero la “maturità sessuale”, il cervello dei nostri
antenati (come il nostro del resto) restava, per così dire, ancora bambino,
cioè sempre pronto ad apprendere, curioso, attento ed interessato agli
avvenimenti del mondo, perché è proprio grazie all’esperienza che si può
imparare qualcosa di nuovo. Questo fenomeno prende il nome di “neotenia”.
I piccoli ed i giovani restano per molto tempo accanto ai genitori, i quali
possono quindi trasmettere loro le proprie esperienze e conoscenze, cioè la
loro “cultura”. Non solo: la curiosità e l’osservazione che possono condurre a
nuove scoperte, e quindi la ricerca, diventano attività “autoremunerative”,
cioè attività che danno piacere in sé e per sé, anche senza uno scopo
immediato. Tutto ciò è importantissimo per la nostra evoluzione, poiché ci ha
permesso uno straordinario sviluppo del cervello e delle nostre facoltà
intellettive, di gran lunga superiori alle altre specie viventi (anche se, per
dirla tutta, con la condotta che ha assunto l’uomo nei confronti del pianeta,
delle altre specie viventi e spesso pure dei suoi simili, ci siamo rimangiati
un bel po’ di punti!) e ci ha reso estremamente adattabili e capaci di
modificare il nostro comportamento in relazione con i cambiamenti ambientali: è
stata la nostra carta vincente.
Un’infanzia lunga come quella dell’uomo, sebbene abbia avuto enormi
vantaggi dal punto di vista evolutivo, pone anche diversi problemi: il fatto di
dover accudire ai piccoli è una limitazione per le madri che non hanno più
l’indipendenza sufficiente per muoversi liberamente alla ricerca di cibo. Non è
sufficiente che le femmine divengano più piccole e minute per aver bisogno di
meno nutrimento (e di conseguenza sottrarne anche meno alla prole). È
necessario che qualcuno si occupi di procurare cibo per tutti: i maschi. Ed è
bene che siano in grado di procacciare della carne, molto più nutriente dei
semplici vegetali. Nascono quindi le aggregazioni per la cura dei piccoli e poi
quelle per procurarsi il cibo con la caccia. Ma per vivere in gruppo è
necessario comunicare. Più le forme di comunicazione sono raffinate e meglio è.
Ecco quindi un linguaggio sempre più complesso che giunge fino alla parola ed
oltre, fino alla trasmissione verbale sempre più articolata dei propri
pensieri.
Tutto ciò che noi siamo oggi esisteva già, in misura più
rudimentale, nei nostri antenati di 800.000 anni fa.
L’arrivo dei cacciatori al villaggio è accolto con gioia, ma è
necessario preparare la carne per potersene cibare: le prede vanno scuoiate,
pulite, tagliate in frammenti più piccoli messi a cuocere sul fuoco al centro
del villaggio (e magari insaporite con radici, bacche o foglie raccolte dalle
donne). Per parafrasare un noto detto, “del bisonte non si butta via nulla”: la
pelle viene conciata dalle donne che la masticano con forza per ammorbidirla e
le ossa vengono frantumate con pietre e choppers per estrarne il
nutriente midollo (e, chissà, forse qualcuno pensa di utilizzarle per ricavarne
manufatti o simboli totemici prima di gettarle nella discarica al margine
dell’accampamento. Se solo pensiamo che circa 100.000 anni dopo l’Homo
erectus che viveva presso l’attuale Isernia le utilizzava per consolidare
il terreno palustre su cui aveva edificato il proprio accampamento…!).
La giornata dei nostri antichi avi si conclude con il banchetto
attorno al focolare, in cui tutti, cacciatori, anziani, guardiani, donne e
bambini, mangiano e comunicano tra di loro con le espressioni, gli sguardi, i
gesti, i segni tracciati sul terreno e soprattutto le parole. Sono
racconti di eventi passati, storie di cacce (magari proprio quella che si era
svolta nella mattinata), nuove strategie che vengono elaborate per procurare
cibo alla comunità (ad esempio fare in modo che un rinoceronte resti
intrappolato nel fango della palude, dove poi i cacciatori potrebbero ucciderlo
con facilità). Ma soprattutto sono pensieri che divengono tangibili per tutta
la comunità e che possono essere trasmessi da un individuo ad un altro in maniera
sempre più complessa e raffinata. Sono i germi di ciò che è oggi la nostra
esistenza.
2. Seicentocinquantamila
anni dopo
Un’altra finestra si illumina circa
150.000 anni fa, durante il Paleolitico Inferiore, per essere precisi (e un po’
pignoli) nel periodo Levalloisiano, subito dopo la glaciazione di Riss.
Il paesaggio ai piedi dell’Appennino
Romagnolo non è mutato un gran che: una vasta steppa con un clima arido e
piuttosto freddo, intervallata da rari alberi (ontani, faggi, abeti bianchi e
noccioli). Anche ora vi sono grandi erbivori che si spostano alla continua
ricerca di nuovi pascoli: elefanti, rinoceronti, bisonti, cavalli selvaggi e
megaceri (nel torrente Conca sono stati ritrovati depositi fossili dei resti di
questi grandi cervidi). E, insieme a loro, varie specie di roditori, orsi e,
naturalmente, l’uomo, che si sposta in piccoli gruppi alla ricerca di nuovi
territori di cui sfruttare le risorse attraverso la raccolta e la caccia. Tali
risorse, però, a causa del clima, dovevano essere piuttosto scarse, per cui
l’uomo era costretto a spostarsi di continuo soprattutto lungo i ripiani del
Pedeappennino, tra gli 80 ed i 200 metri di quota, dove sono stati ritrovati i
resti di numerosi accampamenti.
Non sono stati ritrovati scheletri
che ci testimonino chi fossero questi nomadi, ma si ritiene che fossero una
forma di transizione tra Homo erectus e Homo neandertaliensis (o Homo
sapiens neandertaliensis, se restiamo fedeli alla teoria che lo vuole
nostro cospecifico), ma non si può di re con certezza. Con molta probabilità
possiamo dire che erano una ulteriore evoluzione verso l’uomo attuale.
La capacità di procurarsi carne con cui nutrirsi, lo sviluppo delle
capacità manuali, l’uso di strumenti, la vita sociale, la nascita di un linguaggio
sempre più raffinato e complesso e lo sviluppo della massa cerebrale e di una
rete di connessioni nervose via via più estesa avevano interagito tra di loro e
stavano portando ad una specie, la nostra, che avrebbe avuto un enorme
successo, sebbene alle sue origini apparisse indubbiamente più fragile ed
indifesa di molte altre.
Altre tracce dell’uomo risalenti al paleolitico non sono state
rinvenute nelle nostre zone. È possibile immaginare che forse antichi
cacciatori si siano spinti fino qua sulle tracce dell’Archidiskodon
meridionalis, affine al mammut, i resti fossili del quale sono stati
rinvenuti in varie zone d’Italia, tra cui il Mugello, l’Appennino Modenese e la
provincia di Arezzo. Ma per ora si tratta solo di pure congetture: non ci sono
né ossa umane, né strumenti o manufatti di pietra, né tantomeno pitture
rupestri eseguite con ocra rossa ed ossido di manganese a fornirci delle prove.
Le testimonianze che sono state ritrovate nella nostra zona
(Camipigna, Cabelli, S. Sofia ed altre) risalgono ad un periodo di gran lunga
posteriore: il Neolitico. Quando il clima ed il paesaggio erano simili a quelli
attuali e l’ultima testimonianza del Paleolitico era costituita dalla copertura
forestale, identica alla selva del periodo Wurmiano (l’ultimo periodo
glaciale), la quale ancora sopravvive nel Parco Nazionale delle Foreste
Casentinesi, Monte Falterona e Campigna.
Ø
Dossier: l’alba dell’uomo. A
cura di Piero Piazzano – Testi di Alberto Angela. Airone N. 185, Settembre
1996. Pagg. 143-153
Ø
Nicoletta Salvatori. Un italiano di
700.000 anni fa. Airone N. 40, Agosto 1984. Pagg. 78-101
Ø
Olga Ammann. Come si viveva a Forlì
150.000 anni fa. Airone N. 29, Settembre 1983. Pag. 31
Ø
Piero e Alberto Angela. Sui primi
passi dell’uomo. Airone N. 102, Ottobre 1989. Pagg. 56-71
Ø
Piero e Alberto Angela. Un giorno
nella vita dell’Homo habilis. Airone N. 103, Novembre 1989. Pagg. 166-180
Ø
Piero e Alberto Angela. Il
Rinascimento della preistoria. Airone N. 104, Dicembre 1989. Pagg. 120-131
Ø
Metello Vené. Riappare il mito con
le zanne. Airone N.145, Maggio 1993. Pagg.38-57