Antony and the Johnsons
Lo stadio non è certamente il posto adatto per questo genere e per questo cantante: timido, mezzo sorridente, a volte impacciato e insicuro. Tra un pezzo e l’altro mugugna qualche «ok», come alla fine di qualche ragionamento svoltosi solo nella sua testa, e ogni volta sembra che
la canzone parta in maniera casuale, con qualche accordo di piano buttato lì e la sua voce particolare a renderla finalmente riconoscibile. I Johnsons (chitarra acustica, fisarmonica, violino, violoncello e basso) aspettano sempre un suo cenno, guardandolo quasi imploranti,
timidi ed emozionati come lui, spaesati di fronte a tutta questa gente. Il pubblico all’inizio è svogliato e disattento. Ma Antony continua e cerca di coinvolgerlo in un pezzo scandito solo dal battito delle mani, Dust and Water. L’esperimento non riesce ma il pubblico pian
piano comincia a gradire, e lo dimostra con lunghi applausi alla fine di ogni brano e con la richiesta sincera di un bis alla fine del concerto, riconoscendogli un meritato successo.
Il concerto di ieri sera sembra ricalcare l’andamento della carriera, con i suoi difficili inizi, di questo londinese, omosessuale dichiarato, trapiantato a New York che, dopo un primo album
del 1999 passato inosservato, solo nel 2005 conquista l’attenzione della critica. Il contributo di gente come Lou Reed o Rufus Wainwright ha avuto la sua parte, ma il merito è indubbiamente
della sua voce (ricorda Nina Simone e un poco Billie Holiday) e dei brani intimisti, delle ballate eseguite ai limiti del melodrammatico e degli arrangiamenti eleganti dei Johnsons.
Ne sentiremo parlare.