LE OPERAIE TABACCHINE DI TIGGIANO

LA FABBRICA DEL 1955

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Terminava così la lotta per conquistare il posto di lavoro. La capo fabbrica di Lecce, la Maestra, ed il fattore, artefici di iniquità nonché delle cause che avevano portato all’agitazione del 1949, rimanevano al loro posto con il beneplacito del barone Don Mario il quale voleva mantenerli alle proprie dipendenze con i medesimi incarichi. Nonostante ciò, i tiggianesi continuavano a stimare il barone, considerato un benefattore.
La mattina del 2 febbraio 1955, le operaie sostavano più del solito davanti al portone perché la fabbrica non apriva. Si pensava ad un insolito ritardo non ben accetto in quanto vi era un gelido freddo che pungeva e penetrava aspramente, spinto da un forte vento. Mentre le operaie cercavano di sfuggire al freddo della tramontana, rimanevano gelate dalla notizia giunta da scirocco, dov’era il centro abitato: quel giorno non si lavorava, il barone Don Mario era morto, si diceva improvvisamente stroncato da un infarto nel suo letto.
Il gelo inferto dalla notizia era siderale in quanto i tiggianesi avevano riposto in Don Mario tutte le speranze della loro vita: speravano che egli, con la sua autorità di barone, le proprietà e ricchezze, avesse potuto portare nuove e migliori condizioni di vita.
Si spegnevano le speranze dei tiggianesi che si sentivano lasciati soli. Stesso sentimento l’avranno sentito la Maestra ed il fattore. Per loro furono guai seri perché non c’era più chi li difendeva e sosteneva nel loro ingiusto comportamento. Il fattore resisteva mentre la Maestra Angelina Povero lasciava definitivamente la fabbrica nel settembre del 1955.
La morte di Don Mario lasciava soli anche la moglie Maria Serafini Sauli, la baronessa, ed il figlioletto Annibale. La baronessa non aspettava molto per farsi affiancare da altra persona che provvedesse nella gestione delle proprietà ed attività economiche del casato. Così, iniziava una relazione con il sig. Giovanni Bentivoglio di Tricase al quale la baronessa delegava la direzione di tutte le proprietà della casa baronale. Tra queste, ovviamente, c’era anche il magazzino, la fabbrica del tabacco.
L’attività della fabbrica consisteva nella lavorazione della foglia secca, cioè, nella preparazione del tabacco per essere pronto alla fabbricazione delle sigarette. Ciò avveniva mediante la pulitura, cernita e sistemazione delle singole foglie. Operazioni che avvenivano tutte manualmente. E precisamente:
I contadini lavoravano tutto l’anno per il prodotto: lavoravano in gennaio i semenzai per ottenere dal seme le piantine; in primavera piantavano le piantine e le coltivavano per la crescita; in estate raccoglievano le foglie verdi e le essiccavano al sole dopo averle infilzate una ad una in delle corde di spago e sistemate in appositi telai di legno; in autunno compattavano il prodotto per venderlo al magazzino.
Così il tabacco arrivava in fabbrica pressato in ballette o casse.
Le operaie sfilavano il tabacco secco dalle corde, c.d. filze, e facevano una prima separazione in qualità: buono, medio, cattivo.
Il prodotto veniva consegnato alle operaie cernitrici le quali dovevano prendere le singole foglie, pulirle dalla polvere e selezionarle in base alla categoria, consistenza ed al colore. Le categorie erano tre: in ordine di prima qualità si aveva A, B, e C. I tabacchi coltivati nel Salento erano c.d. levantini distinti nelle specie Santijacà, Perustiza ed Erzeguvina. La prima era quasi sempre di categoria A, ma le foglie erano piccole, fastidiose da lavorare. Inoltre, erano di peso inferiore. Visto che oltre alla categoria il tabacco veniva pagato secondo la quantità, i contadini sceglievano di coltivare il tabacco che avrebbe assicurato un maggior peso. La selezione della consistenza era solo tra secco ed umido, mentre quella dei colori era decisamente difficoltosa in quanto vi era una enorme varietà distinta da un’infima differenza e sfumatura. Così si doveva selezionare con le varie tonalità e sfumature la foglia di colore giallo, la verde, la c.d. verdaia, marrone, verdemarrone, ecc. Come detto, non vi era un colore unico, quindi la selezione riguardava le foglie, per esempio, di giallo con le sue varianti (giallo, giallino, giallognolo, gialloverde, giallo arancio, giallo oro, giallo scuro, ecc.). Tonalità e sfumature da far impazzire e guai a sbagliare.
Queste erano le foglie di qualità che erano rimaste integre. La selezione continuava, quindi, in base all’integrità della foglia: le quinte erano quelle lacerate, i frasani erano quelle sbriciolate, muffa erano quelle ammuffite ed, infine, il fuoco erano le foglie di scarsissimo valore, in genere venivano bruciate o utilizzate per concime.
Una volta selezionate, le foglie venivano consegnate alle operaie spianatrici le quali dovevano distendere le foglie ad una ad una sulle proprie gambe per appiattirle del tutto, sovrapponendole da costituire dei mazzetti, chiamati classi, sistemati in triplice ordine a cono su un disco. Il tabacco, dopo essere stato controllato dalla capo squadra, veniva poi sistemato nelle cassette di legno con lo stipite delle foglie verso l’esterno e le punte verso il centro, poi passato alle imballatrici per compattarlo in balle chiamate masma. Il tabacco di qualità inferiore veniva sistemato in ballette e pressato al torchio. Il prodotto veniva lasciato per una ventina di giorni al caldo delle stufe, cioè in dei particolari forni. Quindi veniva imballato in ballette di sacco di juta, cucite con corde ed etichettate con l’indicazione della qualità e della tipologia.
A tal punto il tabacco veniva spedito alla manifattura di sigarette.
L’arrivo del Bentivoglio nella fabbrica inasprì la condizione delle operaie, già sottoposte a ritmi stressanti, in quanto egli adoperò subito metodi lavorativi ancor più massacranti.
Da una relazione alla direzione provinciale delle Acli redatta da Vincenzo De Francesco nel 1960 così si legge:
“”In Tiggiano esiste una sola fabbrica della lavorazione della foglia del tabacco e che occupa circa 230 operaie per pochi mesi durante l’anno e costituisce l’unica risorsa delle operaie e delle loro famiglie. Non vi è, infatti, un solo guadagno economico ma vi è anche il beneficio dell’assistenza malattia ed il sussidio straordinario.
Purtroppo devono lavorare minimo dalle 7.30 alle 16.30, non esiste mensa, Né posto per tenere o per allattare i bambini. Le donne che hanno bambini devono farseli portare in fabbrica per essere allattati in quanto non gli viene concesso il permesso di recarsi a casa. L’allattamento avviene nel reparto lavorativo, con tutta la polvere dell’ambiente e che la madre aveva sui vestiti. Si lavora tutto il tempo in piedi, stando zitte e senza dire nemmeno una parola, a pena di essere sospese o fin anche licenziate. La minaccia di essere sospese o licenziate comportava una grande paura non solo in fabbrica, ma anche per il marito, per i genitori e per le compagne di lavoro, specie se sospese o licenziate per scarso rendimento.
Alle operaie viene dato un certo quantitativo di tabacco che deve essere lavorato in un certo orario di lavoro. Le operaie sono esauste per la fretta che devono avere e per il comportamento della Maestra e del Fattore i quali dicono sempre: “qui comando io!”. Davanti a loro tutte le operaie tremano.
Nessuno dice niente. Eppure la stessa segretaria della CISL lavora in queste condizioni all’interno della fabbrica””.
In pratica vi era un vile super sfruttamento attuato tramite le Maestre, capo fabbrica. Ad ogni operaia davano una quantità di tabacco che doveva lavorare entro la sera. Ad ogni cernitrice venivano affiancate due spianatrici e gli venivano consegnate 20 corde di tabacco. La prima cernitrice che finiva di lavorare le 20 corde veniva rifornita di altre corde di tabacco e la stessa quantità veniva consegnata anche alle altre cernitrici che non avevano ancora finito. Così il carico di lavoro aumentava a tutte le operaie.
L’operaia che non riusciva a finire il lavoro entro il termine stabilito vedeva decurtata la paga della giornata, oppure veniva sospesa per un certo periodo di tempo o addirittura licenziata per scarso rendimento. Tale accusa di scarso rendimento mossa dalla Maestra costituiva una vergogna per l’operaia la quale rimaneva esposta al giudizio negativo della gente del paese. Il terrore di essere licenziate costringeva le operaie a non avvalersi della pausa e lavorare continuamente in modo da finire il lavoro nel tempo stabilito dalla Maestra. Mangiavano velocemente solo una fetta di pane durante la lavorazione. Nessuno sconto di tempo e lavoro veniva fatto alle operaie in gravidanza o madri di bambini piccoli le quali erano obbligate a lavorare anche fino al momento del parto e dopo pochi giorni dalla nascita del figlio. Sempre nel corso del lavoro le operaie dovevano allattare i bambini i quali, tra polvere, freddo e maleodori, venivano nutriti da una madre allo stremo delle forze con gravi conseguenze per la salute. Per tutto ciò si sono registrate molte malattie. Una madre operaia che allattava il figlioletto, per la debolezza accusava problemi alla vista ma ha dovuto continuare a lavorare in quelle condizioni. E’ diventata cieca lentamente.
Durante il lavoro non si poteva cantare, neppure canti religiosi. Niente. Era vietato parlare e non veniva permesso nemmeno lo scambio di una parola con l’operaia vicina. Si doveva stare in silenzio assoluto. Chi veniva colta a parlare veniva punita con la multa minima pari alla trattenuta della metà paga giornaliera fino alla totale sospensione dal lavoro.
Bastava muovere le labbra per essere sospettate di aver parlato. Per non interrompere il lavoro veniva vietato fin anche di soffiarsi il naso. La polvere di tabacco respirata brucia nelle narici e tutte dovevano sopportare tale dolore. Ma in concomitanza di un raffreddore un’operaia si è soffiato il naso perché il bruciore era insopportabile. Vista dal sig. Facchini, ragioniere del Bentivoglio, è stata sospesa.
La figura peggiore che le operaie ricordano dalla fabbrica era quella della Maestra la quale aveva la funzione di sorvegliare il comportamento delle lavoratrici, controllare alitando sul collo l’esecuzione del lavoro, incitare all’aumento del ritmo della lavorazione e farla velocizzare al massimo. Durante queste operazioni la Maestra maltrattava ed offendeva le operaie chiamandole “pecore, capre, mangiapane a tradimento, scansafatiche, ecc.”.
Da un’altra relazione redatta nel 1961 da Giacomo De Donno alla direzione provinciale Acli così si legge:
“”La Serafini affidava la gestione della ditta a Bentivoglio Giovanni, noto concessionario di tabacchi della zona e noto soprattutto per le infinite violazioni alle disposizioni sulla tutela del lavoro delle operaie tabacchine, come può essere accertato presso gli organi di competenza. Il Bentivoglio di sua iniziativa ha introdotto nell’esercizio dell’azienda nuovi metodi arbitrari, danneggiando non solo le operaie tabacchine, ma l’intera popolazione. Infatti, pur rimanendo immutato l’etteraggio della concessione (n. 356 per ettari 62), dal 1955 in poi le tabacchine hanno potuto lavorare soltanto poche giornate l’anno e questo si può constatare controllando i registri dell’azienda.
Così le operaie pian piano hanno visto svanire i diritti alle assicurazioni assistenziali e previdenziali.
L’anno scorso le operaie sono state costrette a lavorare per circa 10 ore al giorno onde ultimare il tabacco in pochissime giornate; mentre persone di fiducia della ditta facevano capire che coloro che si fossero rifiutate a tale orario, sarebbero state licenziate, o comunque non sarebbero state assunte nell’anno successivo, non solo, ma rimproverando aspramente coloro che fossero rimaste arretrate alla gara che contro la loro volontà si era iniziata. Anche questo si può facilmente constatare controllando la quantità di tabacco lavorato in rapporto al numero di giornate lavorative impiegate. Ormai nella fabbrica si era giunti ad uno stato di fatto della lavorazione a cottimo, mentre tecnici della direzione compartimentale hanno dichiarato che un articolo del capitolato di concessione dice che una tabacchina deve lavorare dai quattro-cinque chilogrammi di tabacco al giorno.
Tutto questo comportava, come già detto, poche giornate lavorative con la conseguente diminuzione dei contributi assicurativi.
Nel corso delle due ultime campagne estive, persone di fiducia della ditta, hanno costretto diverse tabacchine e loro familiari a recarsi in Alezio e ad Ugento a lavorare alla raccolta del tabacco verde; paesi molto distanti da Tiggiano e con automezzi del tutto inadeguati, partendo alle tre del mattimo e tornando a Tiggiano alle 22-23 della sera, senza percepire nemmeno una lira di straordinario o di trasferta e spesso anche senza la regolare richiesta dell’Uffici di Collocamento. Il tutto sotto la minaccia che coloro che non fossero andate non sarebbero state assunte durante l’inverno!
Inoltre nel 1960 il Bentivoglio, sempre a nome della Serafini-Sauli, ha richiesto all’Ufficio di Collocamento operai ed operaie disoccupati per farli lavorare per suo conto in Ugento. Molti sono stati costretti ad andare, pur sapendo che la richiesta era irregolare, sempre per la questione delle donne che non avrebbe richiesto durante l’inverno. Gli operai in questione venivano chiesti per lavorare in Tiggiano, mentre in effetti venivano portati in altro paese, il tutto senza il regolare permesso dell’Ufficio di Collocamento.
E’ evidente l’arbitrio del Bentivoglio, in quanto anche se disoccupati, non potevano essere costretti, sotto varie minaccie, a raggiungere paesi lontani con mezzi inadeguati, camion scoperti, senza assicurazione e senza nemmeno l’ombra dello straordinario e dell’indennità di trasporto”.

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