LE OPERAIE TABACCHINE DI TIGGIANO

CONTESTO DI TIGGIANO(1945-1971)

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Tiggiano è posto alle ultime propaggini della penisola salentina, a pochi chilometri dalla “fine della terra” del tacco d’Italia, sul versante del mare Adriatico dal quale si eleva per circa 130 metri repentinamente con un rilievo roccioso. E’ posto nel territorio del Capo di Leuca che i leccesi pronunciano con tono spregiativo per prendere le distanze da una popolazione considerata più bigotta ed arretrata del resto della provincia di Lecce.
Tiggiano è raggiunto a stenti dalla ferrovia vicinale del Sud Est. Il trenino parte da Lecce per Gagliano e, superati i nodi di Zollino e Maglie, dopo aver percorso quasi 60 Km. ed essersi arrampicato sulla salita di Tricase, vi arriva sbuffando alla stazioncina situata accanto al cimitero.
Il paese è attraversato dalla strada provinciale Vaste-Gagliano il cui tratto è stato sovrapposto all’antico percorso che i Messapi avevano realizzato da Basta a Vereto, gli attuali paesi di Vaste e Patù. Di quel percorso Tiggiano conserva inconsapevolmente solo una struttura a porta di epoca Normanna del XII sec.
Più consapevolmente i tiggianesi conservano lo stemma cittadino Giano bifronte, ad indicare l’aspetto della loro personalità ambigua, inaffidabile, “voltafaccia”, come vengono chiamati i tiggianesi dai paesi vicini. Lo stemma delle due facce non mette in ombra un altro simbolo del paese, quello de “lu Maschcaru”, un’antica ed efficace serratura della porta. E ciò ad indicare un altro aspetto caratteriale dei tiggianesi: quello di mentalità chiusa.
Tiggiano abbina il suo nome alla festa di Sant’Ippazio (Santu Pati), un santo, sembra, greco ortodosso, originario del nord est della Turchia, nero, sicuramente importato dai monaci basiliani che lo hanno imposto nel XVII secolo, non riconosciuto dalla Santa Sede. E’ festeggiato il 19 gennaio di ogni anno ed è sentito con fervore da tutta la comunità salentina per essere protettore degli organi genitali maschili, dell’erezione e della fertilità. Il simbolo della festa è un fallo composto da una Pestanaca (una carota dolce) con ai lati della base due Sciscele (giuggiole).
Come tutti i paesi del Salento, Tiggiano non ha corsi d’acqua. L’unica fonte era costituita dalle depressioni del territorio in cui si accumulava l’acqua piovana dando vita ad una pozza paludosa. L’approvvigionamento idrico avveniva solo con la raccolta di acqua piovana in piccole cisterne artificiali scavate nella roccia.
Di proprietà nobiliare erano alcune cisterne di grandi dimensioni chiamate pozzi ai quali la popolazione poteva attingere l’acqua nei periodi di siccità. Ciò non come diritto ma come concessione arbitraria del singolo nobile signorotto.
Nel periodo estivo il paese soffre la siccità, a volte non piove per molti mesi. La piovosità è di circa 750 millimetri l’anno quasi tutti concentrati nei soli mesi di marzo e novembre durante i quali si formano preoccupanti allagamenti.
Nonostante ciò, non è stata mai realizzata alcuna opera idraulica per il recupero e la conservazione dell’acqua piovana da essere utilizzata per scopi potabili ed irrigui. La carenza di acqua ha contratto la vivibilità delle persone e immiserito l’economia basata quasi interamente sull’agricoltura e l’allevamento di animali domestici. Le uniche iniziative intraprese dai tiggianesi avverso la siccità e gli allagamenti sono state solo processioni religiose nelle campagne con le quali chiedevano l’intercessione del padreterno o di qualche santo devoto.
Nel ventennio fascista è stato realizzato l’Acquedotto Pugliese, la canalizzazione idrica più grande d’Europa. La diramazione di Tiggiano ha servito solo gli edifici pubblici del municipio e della scuola, nonché le poche abitazioni comprese tra i due stabili. Vi erano tre fontane ad uso pubblico. La fornitura d’acqua però avveniva solo per alcune ore la mattina. La quasi totalità delle case e della popolazione continuava ad avere l’acqua nella vecchia maniera: l’acqua piovana.
Negli anni settanta sono avvenute le prime perforazioni di pozzi artificiali, scavando anche 130 metri con la trivella, con i quali è stato garantito l’approvvigionamento delle cisterne nei periodi di siccità.
Solo negli anni ottanta e novanta le abitazioni sono state raggiunte dalla rete idrica dell’Acquedotto al pari della fognatura nera. Precedentemente vi erano solo dei pozzi di raccolta dei liquami posti accanto alle abitazioni ed alle cisterne. Tali pozzi fognari non erano a tenuta stagnea ed i liquami si disperdevano nel suolo inquinando spesso la falda acquifera. Fino a tutti gli anni sessanta quasi tutte le abitazioni erano sfornite di impianto idrico e di riscaldamento e non erano servite da acqua calda. Vi era solo il secchio della cisterna ed il camino. Il bagno era costituito solo dal water ed era situato in uno sgabuzzino posto esternamente in giardino e distante dalla casa.
Complessivamente il clima è mediterraneo ma vi sono dei periodi in cui si soffre il caldo torrido e, soprattutto, il vento di scirocco. L’umidità è un problema.
Nel conflitto bellico del 1940-45 la povera gente di Tiggiano è stata chiamata a versare il sangue con caduti sul fronte e dispersi nelle campagne d’Africa, mentre molti altri, inviati nei Balcani, dopo la resa dell’Italia agli angloamericani, sono stati arrestati ed internati per anni nei campi di concentramento tedeschi. Non vi è stato alcun tiggianese impegnato nella lotta di resistenza.
Tutti questi aspetti sono proseguiti immutabilmente anche dopo la guerra. Il paese ha ripreso la vita monotona, passiva e piatta di sempre, lavoro duro in campagna sotto padrone, dall’alba al tramonto, per una fetta di pane e, a volte, un filo d’olio sopra. Una condizione feudale in cui i lavoratori tiggianesi erano assimilati ai servi della gleba che lavoravano assoggettati al manipolo di nobili. Tiggiano era di proprietà della baronessa Serafini Sauli.
Nonostante la situazione di miseria e di sopraffazione, Tiggiano nel referendum del 2 giugno 1945 ha risposto come tutta la provincia di Lecce optando totalmente per il mantenimento della Monarchia.
Di questo legame è rimasta traccia per decenni: sui muri del paese, infatti, si mantenevano precise scritte a vernice di: W il RE; W Umberto II; W la Monarchia. Tutto era stato dimenticato: la guerra, i soprusi compiuti dai nobili, la miseria, lo sfruttamento, le disuguaglianze, le ingiustizie.
Dal 1945 al 1975 Tiggiano ha avuto solo associazioni religiose e due partiti politici: il M.S.I. e la D.C. Quest’ultima raccoglieva fino al 93% dei voti. Non ha mai avuto una sezione del P.C.I. Quanti non votavano per il partito fascista, né per quello democristiano, venivano tacciati per comunisti, considerati ancora mangiabambini, e discriminati dall’intero paese. Sorte toccata ai fuorisciti della D.C. nel 1972 con l’M.P.L.
Le regole di condotta della vita individuale e delle relazioni sociali erano disciplinate da quelle religiose la cui osservanza era minacciata dal senso di colpa del peccato, mentre la loro violazione era pagata con la discriminazione sociale, l’additamento, l’isolamento. La giustizia era amministrata dal prete, l’autorità massima riconosciuta dai tiggianesi.
Dal 1945 al 1971 Tiggiano ha avuto solo sette laureati. L’80% della popolazione contadina e manovale era analfabeta ed il restante 20% incorreva nell’analfabetismo di ritorno. L’istruzione non era ritenuta indispensabile, specie per le donne le quali, si riteneva, avrebbero avuto occasione d’incontro con gli uomini.
Alla fine del conflitto era stata completamente dimenticata anche la rivolta del pane avvenuta a Tiggiano nel 1919 e quella contro il segretario comunale del 1916 il quale infliggeva sempre nuove tasse ed ulteriori aumenti. Vi fu una rivolta per cui dovette scappare nei campi verso Alessano inseguito dalla gente inferocita. Oltre a queste iniziative, fino al 1945 a Tiggiano non si registrano proteste popolari.
La gente era ritornata sui campi a rompersi la schiena per coltivare tabacco e raccogliere olive in fazzoletti di terra strappati alle pietre ed alla roccia e contesi con la gramigna. Il 47,2% dell’occupazione nei campi era femminile, impiegata maggiormente nei periodi stagionali di emigrazione interna, specie verso la provincia di Taranto dove la terra permetteva buone colture e richiamava maggior manodopera e dove gli uomini emigravano per le coltivazioni del tabacco, della vite e dell’ulivo.
Emigravano come tutti i contadini del Capo di Leuca, partendo col treno o in bicicletta i più fortunati, altrimenti anche a piedi. In queste zone interne del tarantino e del brindisino (Palagiano, Ginosa, Castellaneta, Oria, Mesagne, Francavilla Fontana, ecc.) i padroni aspettavano con ansia i contadini salentini per poterli sfruttare come schiavi, anche perché si sottomettevano facilmente, non protestavano, accettavano passivamente ogni angheria, sostanzialmente si facevano trattare come animali. Li facevano lavorare in continuazione nei campi e nei frantoi dove, in pratica, restavano chiusi per l’intera stagione, per mesi, durante i quali non avevano nessuna notizia della famiglia, né della morte di un congiunto, né della nascita di un figlio. Gli davano due soldi di paga, scarso cibo e terribile alloggio: all’arrivo, il padrone consegnava all’operaio contadino un sacco vuoto, gli indicava dove riempirlo di paglia e gli assegnava un posto nello stesso frantoio o in capannoni senza pavimento dove pulci e pidocchi facevano compagnia nelle poche ore di riposo concesse.
Fu proprio da queste immigrazioni che diversi tiggianesi si stabilivano per sempre nelle zone di emigrazione, cominciando a spostarsi con il proprio nucleo famigliare ed a lavorare i campi a mezzadria. Fino al 1951 furono 157 i tiggianesi che si stabilirono nella sola provincia di Taranto; 241 nel 1961 e 406 nel 1971 (alla fine degli anni sessanta era stato aperto a Taranto il polo siderurgico).
Il dopoguerra coincide anche con il grande flusso emigratorio all’estero, verso i paesi dell’Europa centrale. I primi a partire furono contadini analfabeti e nullatenenti. Partirono verso la Francia nell’agricoltura, il Belgio nelle miniere, la Germania nelle fabbriche, in Inghilterra nei laboratori, poi, dopo il 1950, in Svizzera nei cantieri dove successivamente si riversò la maggior parte degli emigranti.
Nel 1951 Tiggiano avrebbe dovuto contare complessivamente 459 emigranti; 546 nel 1961 e 371 nel 1971. Alcuni emigranti sono morti per incidenti sul lavoro, o nelle case, o durante il viaggio. Dai primi risparmi accumulati cominciava l’acquisto di terreni agricoli da coltivare tenuti in possesso fino all’ora dai nobili del paese i quali, anche se incolti, li vendevano a peso d’oro. Iniziava così la formazione di larga proprietà privata, eccessivamente frazionata, e l’inizio della totale coltivazione diretta dei propri campi.
La maggior parte dei campi era di proprietà dell’avv. Mario De Francesco, il quale, avendo sposato la baronessa Maria Serafini Sauli di Montesardo, era diventato Barone di Tiggiano ed acquistò il nome di Don Mario.
Oltre alla maggior parte di estensioni di terreno fertile, il Barone di Tiggiano, Don Mario, possedeva mulini, frantoi, magazzini, macchinari, case, ecc., anche in altri paesi, tra cui Specchia Preti, Botrugno, Presicce. Insomma, Don Mario era il padrone di Tiggiano al pari di un feudatario medioevale. Era stimato dalla gente il cui riconoscimento era frutto dell’imposizione religiosa di adorare il padrone. Comunque gli veniva riconosciuto il comportamento non tirannico, buono, disponibile e, soprattutto, onesto nell’accezione del termine di non approfittare del corpo fisico delle persone. Ricordiamo che siamo all’interno della mentalità che considera le persone proprietà privata del padrone e del nobile e non era passato molto tempo dall’abolizione del diritto del feudatario di trascorrere la prima notte di nozze con la sposa.
La coltivazione agricola principale era quella del tabacco, una coltura che impegnava un intero anno di lavoro: dalla preparazione dei semenzai in gennaio all’imballaggio per la vendita del prodotto di novembre. Tale coltivazione fu introdotta a Tiggiano nei primi anni del 1900 per affrontare e superare la crisi agricola scaturita dal mal raccolto delle olive e dell’uva sceso al di sotto di un decimo.
La coltivazione e la lavorazione della foglia secca del tabacco, nonché la fabbricazione delle sigarette era detenuta in Monopolio dallo Stato e permessa ai privati solo su concessione. La maggior parte delle concessioni erano in mano ai nobili dei paesi. La coltivazione del tabacco a Tiggiano passò dai pochi ettari coltivati agli inizi del novecento ad alcune centinaia negli anni quaranta. Per questo aumento di prodotto Don Mario al posto del vecchio e fatiscente Magazzino, ne costruì uno nuovo. Il Magazzino era la fabbrica in cui veniva lavorata la foglia secca del tabacco prima di essere destinata alla fabbricazione delle sigarette.
Nella fabbrica venivano occupate solo donne per un lavoro stagionale di pochi mesi l’anno durante i quali lavoravano insieme circa duecento operaie su una popolazione di circa 2000 abitanti. Possiamo dire che ogni famiglia aveva una componente operaia del Magazzino, fonte di sopravvivenza in quanto costituiva un’entrata economica anche se misera. Inoltre, permetteva l’iscrizione agli “Elenchi Anagrafici”, un istituto che concedeva ai lavoratori agricoli le assicurazioni sociali, la mutualità malattie, gli assegni famigliari, nonchè l’indennità di disoccupazione.
Il Magazzino era anche fonte di sfruttamento, malattia, sofferenze, ingiustizie, soprusi, proteste e lotte.

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