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9 ottobre 1963.
Nei miei ricordi di bambino Longarone dopo il disastro è l'immagine di una distesa uniforme di terra chiara, su cui non cresce neppure un filo d'erba. Tutta la parte di sopra, Erto e Casso con tutta la vallata soprastante, mi erano allora ignote.
Ho conosciuto la zona anni dopo, passandoci per andare in Val Zoldana o sulle Dolomiti venete, ma non riuscivo ad avere la percezione esatta di cos'erano quegli accumuli di terra a fianco della strada. Poi, dopo aver letto il libro, ho capito.
Ho capito che era una cosa troppo grande per riuscire anche solo ad immaginare che si trattasse di una fetta enorme di montagna, troppo grande per essere
concepita.
Ed è proprio questo che trasmette il libro, la sensazione di una cosa immane sfuggita alla debolezza umana che pure l'ha messa in moto, spinta dalle
sirene del guadagno e forse anche dall'orgoglio di chi crede di poter piegare tutto il mondo ai propri interessi. Uomini grandi, nei loro campi, capaci
tecnicamente (la diga infatti resistette alla pressione dell'acqua), ma forse troppo abituati a piegare gli eventi alla loro volontà. Quella
volta la natura è stata troppo più forte di loro, e 2000 croci sono lì a ricordarcelo.
Certo è un libro di parte, dalla parte dei montanari e della montagna, della natura la cui potenza stranamente non smette di stupirci, non ci sono le difese di chi quel disastro ha causato; ma è un libro, anche se non più recente (del 1997), che merita di essere riletto ogni tanto, PER NON DIMENTICARE.
f.d. |