Ci concentreremo in questa seconda parte del volume su Gambolò in quanto comunità. Preliminarmente, occorre chiarire i punti di osservazione che guidano qui l'analisi, e che fungono anche come limitazione di un argomento che, altrimenti, sarebbe enorme.
Il concetto di ``comunità'', infatti, oltre che essere storiograficamente piuttosto controverso, implica tutta una serie di funzioni che non si possono in questa sede né chiarire né, tantomeno, trattare in tutta la loro estensione. Questo non certo per mancanza di fonti, vista l'abbondanza e la varietà delle medesime nell'Archivio Storico di Gambolò (mi riferisco in particolare alla serie dei «Convocati», pressoché completa per il Cinque-Seicento), ma per la natura stessa della ricerca. Le questioni affacciate per il Seicento sono state quindi, da un lato, il ruolo preminente di Gambolò entro la provincia Vigevanasca; e nelle prossime pagine la struttura economico-fiscale della comunità.
Si tratta di due argomenti oltremodo complessi. Il primo perché richiedeva una trattazione organica delle strutture e delle competenze del contado, un contado che per sua natura non si appoggiava su un centro predefinito eletto come capoluogo, ma era sostanzialmente decentrato e con organi amministrativi itineranti. Mi pare sia comunque emerso dalla precedente trattazione come Gambolò si ponesse come principale centro della provincia, e principale ispiratore delle sue politiche. Questo per svariate ragioni che abbiamo illustrato. Il fondamento di questa preminenza sembra comunque risiedesse nel ``maggior estimo'' posseduto da Gambolò rispetto alle altre dieci comunità. Sebbene vi fossero ordini specifici, ribaditi dal sindaco Custodi fino alla nausea nel corso dell' ``affare Guazzi'', che nelle congregazioni generali (cioè nelle riunioni di tutti i deputati delle comunità) si dovesse votare secondo maggioranza e non somma dell'estimo, di fatto sappiamo che molte delle principali questioni venivano decise in base al secondo principio e non al primo. Il fatto più evidente resta la composizione dei gradi alti della rappresentanza: la congregazione ristretta rispecchiava infatti fedelmente l'estimo, inglobando i rappresentanti delle terre rurali più tassate. Il sindaco, il Custodi, era un alleato di Gambolò2.1. Gambolò stessa forniva i principali funzionari della provincia, e in particolar modo i cancellieri (i Cassini) e alcuni procuratori di stanza a Milano e Vigevano.
Questo principio, cioè la preminenza dell'estimo, in ogni caso, si poggiava a sua volta su un altro fatto fondamentale, che possiamo riconoscere fra i più decisivi per quel che riguarda il rapporto con la provincia. Vale a dire che, dato un sistema d'estimo che si fondava pressoché esclusivamente sul censimento dei terreni (sul perticato), vista anche l'assoluta pochezza del «mercimonio» (tassa sui commerci) nelle campagne, risultava più ``quotata'' la comunità con i terreni migliori e più estesi. Quanto più, cioè, un comune aveva sotto di sé un ampio perticato composto da buoni terreni tanto più era tassato. La condizione che si aggiunge subito dopo questa è che quanto più la penetrazione dei rurali nella proprietà fondiaria è avanzata, tanto più l'estimo rurale è ovviamente forte; conseguenza questa di capitale importanza, essendo appunto il governo provinciale nient'altro che una rappresentanza di rurali. Da questo punto di vista, come si può facilmente notare, Gambolò sopravanzava nettamente tutte le altre comunità del Vigevanasco, non solo per estensione del perticato ma soprattutto per penetrazione dei ``terrieri'': era infatti la comunità col maggior numero di pertiche in mano a rurali, sia proporzionalmente come in assoluto2.2. Per quanto riguarda un calcolo con pretese di esattezza del perticato occorre tener conto che non si tratta quasi mai di valori stabili ma (sui piccoli numeri) abbastanza mutevoli nel tempo. Secondo i calcoli dei ``processetti'' preparatori per il catasto teresiano, comunque, tenuti nel 1723 (e che riteniamo più precisi di quelli forniti dal Pollini in merito alle autocertificazioni dei consoli per la tentata infeudazione di Vigevano e contado nel 16252.3), l'intero perticato, levato quello ecclesiastico e 3.000 pertiche detratte alla Motta Visconte per alluvione del fiume Ticino, ascenderebbe a 50.020 pertiche. A questi sono da aggiungere i beni ecclesiastici supposti immuni per 8.829 pertiche e 18 tavole e i beni ecclesiastici che pagano carichi per 1944 pertiche e 21 tavole2.4.
Si tratta di un totale all'incirca poco inferiore alle 64.000 pertiche, dato peraltro abbastanza omogeneo con quelli forniti dal Pollini per il 1625. Non abbiamo purtroppo nei ``Processetti'' una divisione fra perticato rurale e civile ma sappiamo che il primo si difese più che validamente nei confronti del secondo, pur in un periodo, il Seicento, in cui l'investimento in terra da parte delle componenti nobiliari e cittadine fu fortissimo2.5. Nonostante reiterati tentativi dei feudatari del borgo, i Litta, di acquistare terreni (oltre che di impossessarsi di dazi e diritti) di proprietà di rurali e della comunità, sappiamo ad esempio che nel 1695 essi possedevano in Gambolò ``soltanto'' 1.823 pertiche, corrispondenti a svariati terreni attorno al Castello e alla possessione del ``Rattanino''2.6.
Per quanto riguarda la qualità dei terreni, la cosa certa è che Gambolò non possedeva molti terreni di alta qualità né vi si praticavano tecniche agronomiche particolarmente raffinate. Secondo una testimonianza del 1723 di Pietro Paolo Cotta, ragionato della comunità, «li nostri terreni sono di specie diversi parte cultivi con l'aratro alcuni prativi ma in minore quantità, e la più parte asciuti, altri sono vigne tutte unite, e congiunte», con una notevole presenza di boschi e di «genestrato»2.7. I prati, pochi, erano quasi inservibili a causa delle inondazioni del Terdoppio, anche se vi era una certa quantità di ``prato stabile'', ma che non si rompeva e non entrava nella rotazione delle colture. Del lino si diceva che ce n'era poco e quel poco neanche bastava per l'autoconsumo, tanto che occorreva acquistarne al di fuori della comunità. Un certo pregio avevano però i terreni coltivati a vigna e quelli a ``moroni'' (gelsi, le cui foglie servivano all'allevamento dei bachi da seta). Risulta inoltre che ancora alla data del 1723 il comune fosse il maggior proprietario di boschi, oltre che di vari altri beni abbandonati da particolari2.8.
Quello che si vuole qui sostenere è che la principale fonte di ricchezza di Gambolò in età moderna era, da una parte, la notevole estensione del perticato ma dall'altro e soprattutto, le modalità di gestione di questo e, in senso più allargato, l'organizzazione dei dazi e dei ``diritti''. Risulta infatti che la gran parte di questi, in maniera davvero insospettabile (si arriva a toccare funzioni essenziali dell'annona, o la Giudicatura delle Strade, in genere di competenza strettamente cittadina; fino ad arrivare a dazi che altrove sono quasi sempre feudali) erano parte del patrimonio della comunità. Una ricchezza che nasce, quindi, dalla diffusione della proprietà, simboleggiata dalla resistenza rurale nei confronti del grande possesso, e dall'eminente ruolo organizzativo della comunità. Questa si trova in possesso di un notevole numero di terreni comunali (soprattutto boschi2.9), ma in particolar modo di una serie di prerogative, dazi, diritti, che la ponevano come l'assoluta protagonista della vita economica locale, sia nel ruolo della ``proprietà'' come del controllo e dell'organizzazione, e di cui tratteremo poi a parte in un capitolo dedicato.
A questo tema si accompagna quello del ``Buon Governo'', per mostrare in che modo la comunità fosse realmente partecipativa: da una parte per quel che riguarda il meccanismo di determinazione e il funzionamento delle rappresentanze, e dall'altra per ciò che concerne la spartizione dei proventi tra i comunisti e il reale influsso sul singolo che ebbe la politica di gestione dei beni da parte della comunità. Si tratta di elementi cui faremo spesso riferimento perché decisivi per determinare un concetto di ``politica fiscale'' assai diverso da come potremmo intenderlo noi, e che inglobava ragionamenti complessi sulle ``sostanze'' della comunità e la qualità del suo governo. Sostanzialmente, quella che chiamiamo qui con termine abbastanza improprio ``politica fiscale'' era una complessa macchina di rapporto centro-periferia che s'innestava su tre grandi fronti: la riscossione locale e i suoi strumenti, la consistenza e la gestione dei beni comunali e il ricorso al debito. Sono tre questioni capitali per la Lombardia Spagnola e in particolare per il Seicento, e tre temi di particolare pregnanza per la definizione degli organismi locali.
Un assunto di questa linea interpretativa sta ovviamente nel fatto che gran parte del rapporto politico fra il Centro e i vari organismi locali (comunità, ma anche contadi) fosse giocato sul tema fiscale, soprattutto nei suoi aspetti esecutivi e non certo di ripartizione (dopo il vetusto estimo di Carlo V il governo spagnolo non diede più mano alla materia). Brutalmente, si può forse dire che, una volta sistemati i rapporti interni (fra contado e città, per esempio) nel '500, gli organi centrali impostarono una politica tesa a inglobare contadi e comunità come, strettamente, camere di riscossione degli oneri (soprattutto militari) che venivano imposti. Questioni come le garanzie tutorie verso gli enti locali, piuttosto che interventi in vista di nuove definizioni del territorio (nomina di nuove città, per esempio) furono a quanto pare del tutto accantonati. Gli organi veramente decisori e presenti nel rapporto con gli enti locali finirono così per essere quelli prettamente fiscali: vale a dire il Magistrato Ordinario e, per altre questioni (feudi, acque, etc.) il Magistrato Straordinario. Anche a livello di definizione del territorio, furono questioni di finanza fiscale straordinaria a fornire nuovi elementi di costituzione centrale di organismi: valga l'esempio dei feudi, costruiti in grossa quantità nel Seicento per poi alienarli a privati desiderosi di tentare la via della nobilitazione.
Riscossione locale, beni comunali e politica del debito erano comunque tre aspetti profondamente legati. La visione sostanzialista della comunità, come ``corpo'' composto da un insieme di beni comunali oltre che di ``comunisti'' aventi precisi diritti su di essi faceva sì che i relativi proventi fossero innanzitutto utilizzati per diminuire le imposte ricevute a vario titolo dal Centro. Per esempio, un'ordinazione dei Convocati del 1661 chiarisce come
da quivi avanti si debba fare un'affitto generale di tutte le terre, prati e boschi e altri effetti, che tiene la comunità a denari contanti, et il prezzo de tutti affitti si debba ponere sopra al libro dell'imposta generale, ad effetto, che la communità, e particolari possino vedere e sapere chi siano li fittabili, e che il denaro resti convertito nel beneficio pubblico2.10
Anche per ciò che concerne il debito fondamentale era il rimando ai beni comunali. Per poter costituire, infatti, censo, cioè la forma di debito-credito più utilizzata dagli enti pubblici del tempo era necessario presentare una garanzia. Tale garanzia consisteva, quasi sempre, nel riferimento a beni comunali, almeno fino a quando questi ultimi non si rivelarono totalmente insufficienti per coprire l'entità del debito, il che avvenne molto presto2.11.
Da questo momento in avanti lo strumento del censo si snaturò, tanto che già negli anni Venti del Seicento il maggior numero di censi costituiti da Gambolò erano sopra l'estimo, cioè la riscossione futura, e quindi senza garanzia reale.