COMISO E COMISANI
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SCRITTI SU COMISO
In questa pagina vengono
presentati scritti di due comisani:
- Biagio Pace (1889-1955)
- Raffaele Umberto Inglieri (1904-1983).
Lo scritto di Biagio
Pace (docente
di Archeologia presso le Università di Palermo,
Pisa e Napoli, preside della Facoltà di Lettere
presso l'Università di Napoli, deputato al
Parlamento, presidente dell'Istituto del Dramma
Antico) è tratto dalla conferenza fatta presso
il Circolo Amici dell'Arte nel 1953.
Lo scritto di Raffaele
Umberto Inglieri (archeologo, Direttore del Museo
Nazionale Lumenense e del Museo Nazionale di
Antichità di Parma, sovrintendente alle Antichità
del Lazio, nonché studioso delle eredità bizantine
e catalane a Comiso) fa parte del testo di una
conferenza tenuta a Comiso nel 1973.
(Accendendo
le casse acustiche
in sottofondo si può ascoltare "Pasqua
comisana")
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da VALORI DI VITA PROVINCIALE
(anno 1953)
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L'insediamento
umano nel sito di Comiso può farsi risalire
almeno, al corso del secondo Millennio a. C.,
quando gruppi di Siculi occupavano parecchie fra
le colline circostanti e lo stesso luogo della
città attuale.
Più tardi, quando le colonie elleniche posero
piede in Sicilia, la più potente di essa,
Siracusa, mirando a raggiungere il mar d'Africa
verso la foce dell'Ippari - ove nel 599 a. C.
fondava Camarina - snoda tra il nostro fiume e la
bastionata degli Iblei l'ultimo tratto della via
di penetrazione economica e politica che, dopo
aver risalito la valle dell'Anapo fino ad Acre,
raggiungeva la nostra pianura valicando i monti
tra Giarratana e Chiaramonte.
E mentre le antiche stazioni indigene subivano la
potente attrazione della civiltà coloniale
greca, e al suo calore si trasformavano,
accogliendo forme di vita ellenica - un capo
locale si faceva scrivere nel metro e nella
lingua dell'epos l'epitaffio per i
propri genitori - nella breve altura di S. Lio ed
in parte delle vicine terre denominate Merlino,
Desietto e Difesa, sulla destra del fiume lppari
- che doveva trovar fama nella Poesia antica per
il ricordo che Pindaro ne faceva, celebrando
l'olimpionico Psaumi - sorse una piccola città
greca, sia questa o no la colonia siracusana di
Casmene, fondata secondo la tradizione nell'anno
655 a. C.; la sua necropoli occupava la contigua
bassura dei Margi.
In questa lontana età il centro politico ed
economico della plaga risiede sul mare, a
Camarina, che ebbe tre secoli e mezzo di vita
tempestosa e turbolenta, insofferente come fu di
adattarsi a rappresentare un elemento del sistema
politico siracusano, scopo della sua fondazione;
smarrita perciò fra le più diverse avventure,
in cerca di parteggiamenti nelle grandi contese,
che dessero possibilità esterna d'inserire la
sua aspirazione in più vasto respiro politico.
Con la distruzione di Camarina, avvenuta al tempo
della prima guerra punica (258 a.C.), il
primitivo abitato ellenico di San Lio ne eredita
la funzione di centro economico. E si amplia con
un grosso prolungamento sul pendio alla sinistra
del fiume, in tutto un nuovo quartiere intorno al
ricchissimo fonte, che è al centro di Comiso, e
gli antichi avevano consacrato ad Artemide per
virtù prodigiose delle sue acque, materia di
cerimonie ordaliche.
Bagni e ninfei decorati di ricchi marmi, sculture
e mosaici d'arte, ripetutamente qui ritrovati non
meno che una vastissima necropoli - la quale
occupa tutti i quartieri superiori di Comiso,
dall'Annunziata a San Leonardo, al Saliceto -
nonché tesoretti monetali, accurate iscrizioni,
tutto attesta qui la vita, di una vera città
romana, fiorita principalmente nel periodo tardo
imperiale e in quello bizantino.
Noi non sappiamo se in questa vada riconosciuta,
come taluno crede, quella nuova Camarina che
sembra riapparire nelle testimonianze degli
antichi scrittori.
Ma è certo che il nuovo quartiere del Fonte
assume ben presto carattere urbano.
Il Cristianesimo vi trova campo di antiche
affermazioni, documentate da un gruppo di
catacombe, il cui nucleo può essere anteriore
alla pace costantiniana.
Una pregevole epigrafe mostra la presenza di una
setta gnostica. E non si può escludere che
all'antica comunità di cristiani andrebbero
riferiti quei non improbabili vescovi camarinesi,
Bonifacio e Probo, che sottoscrivono i concili
del 501 e del 504.
Le abitazioni si succedono del medesimo sito nel
periodo arabo; l'intensità della toponomastica
araba sia nell'interno dell'abitato che in tutta
la campagna circostante, attesta una vita
agricola fiorente e il fissarsi di un nucleo di
conquistatori, cui verosibilmente risale il nome
attuale di Comiso, che sembra del tutto identico
a quello della libica Homs. La ricca zona che dal
margine sud occidentale degli Iblei va fino al
braccio destro dal fiume Ippari, appare
nell'antichità costellata di piccoli villaggi,
casali e fattorie, indizio di una remota
dispersione degli abitanti, cui doveva
corrispondere una certa frantumazione della
proprietà terriera.
In età Normanna ha inizio quel processo di
accentramento demografico dal quale trae origine
l'attuale assetto della zona. La popolazione si
riversa sotto la torre protettrice, sorta in
quelli che erano già i maggiori centri, e cioè
oltre Comiso, i villaggi di Canicarao, Cifali e
Serramezzana, Gulfi, Rosacambra, dei quali i
primi furono assorbiti da Comiso qualche tempo
dopo, gli altri rappresentano rispettivamente
l'antefatto dei comuni di Chiaramonte e Santa
Croce.
Siamo al cadere del Medio Evo; all'intorno viene
a costituirsi quel caratteristico aggregato della
feudalità siciliana che fu la contea di Modica.
In quel tempo Comiso appartiene al demanio Regio,
fino al regno di Federico II, nel quale è tenuta
in breve signoria da Federico Speciale. Soltanto
sul cadere del sec. XIV e i primordi del seguente
- attraverso le usurpazioni di un personaggio che
aveva avuto gran parte nei rivolgimenti politici
che turbarono la Sicilia all'estinguersi della
dinastia aragonese, Bernardo Cabrera - la città
entra a far parte, con altre, della vasta Contea,
che venne allora a coincidere quasi con l'odierna
provincia di Ragusa.
Ma per breve tempo; non oltre mezzo secolo. Nel
1453 in seguito ad una sollevazione di vassalli,
il figlio e successore di Bernardo, dovendo
pagare al Regio Fisco una multa di 60 mila scudi,
è costretto ad alienare alcune zone del suo
Stato, fra cui Comiso, che passa alla signoria di
Periconio Naselli.
Questo ritorno all'autonomia segna l'origine del
suo rinnovamento.
I tre secoli e mezzo che precedono l'abolizione
della feudalità, vedono sotto la signoria
generalmente intelligente e generosa dei Naselli,
compiersi il processo di costituzione di Comiso,
nel suo aspetto esteriore e nella sua struttura
sociale ed economica.
Gli abitanti da 3.000 circa, quanti se ne
annoveravano al tempo di Carlo V, son diventati
al cadere del '700 oltre 10 mila. ll modesto
aggruppamento di case, rinserrato entro breve
cerchia di mura, conservava taluni nobili edifici
delle varie età: il battistero superstite di una
antica basilica bizantina di S. Gregorio, nel
quale i feudatari Regio avevano rinnovato la
decorazione dipinta; la chiesa romanica di S.
Nicola, che la tradizione attribuisce a re
Ruggero; la chiesa gotica di S. Francesco; un
nucleo del Castello che si era insediato sullo
scheletro d'un edificio romano; e ancora la
chiesetta dell'Ospedale, sede della Congregazione
dei Flagellanti; e qualche altra di cui oggi si
è appena conservato il ricordo. Un solo
convento, quello dei Carmelitani.
In breve tempo l'abitato triplica la sua
estensione, il Castello è ricostruito e
ingrandito, coronato quindi del suo potente
Mastio. Ad esso si aggiungono cospicui palazzi
privati, una ventina di chiese, talune delle
quali veramente grandiose, due monasteri di
Teresiane e quattro conventi e case religiose (oltre
i Carmelitani, già esistenti, quelle dei Minori,
de1 Cappuccini, degli Osservanti, dei Filippini,
un Collegio di Maria). Edifici sacri sontuosi,
arricchiti di opere d'arte di ogni pittore o
scultore che in Sicilia venisse in fama, dal
Gagini e dai suoi successori al Marabitti e al
Villareale, dal De Pavia al Novelli, al
Barbalonga al Sozzi.
Trasformata attraverso vaste concessioni
enfiteutiche l'economia agraria dei dintorni, è
creata nelle sue linee essenziali una classe
borghese benestante, un ceto di professionisti,
un nobile artigianato; avviato ad una molteplice
attività sedula e pertinace il popolo minuto.
Tutto ciò
collegato, in rapporti di causa ed effetto con il
più interessante fenomeno storico che maturi in
questi secoli, fenomeno che merita di essere
chiarito e ricercato a preferenza degli
avvenimenti di storia e di cronaca susseguitisi.
Fra i quali noteremo soltanto una gagliarda
sollevazione popolare del 25 Marzo 1600 con
l'assalto ad un reggimento di fanteria spagnuolo,
e la nobile parte presa nel 1673 dalle milizie
locali alla guerra franco-spagnuola, nella
campagna di Sicilia e particolarmente allo
sblocco di Milazzo, alla difesa di Licata e alla
guerra di Taormina, che valse a Comiso
l'esenzione perpetua dal servizio militare, con
privilegio del 18 Marzo 1682 di re Carlo II.
Le
usurpazioni che i maggiori feudatari dapprima, e
i piccoli in seguito, avevano gradualmente
operato, li aveva portati al cadere del sec. XIV
ad esercitare legalmente la potestà di procedere
ex abrupto in via penale contro i rei, e
la giurisdizione civile, il mero e misto
imperio secondo l'espessione del tempo. Un
Castellano o Governatore in nome del feudatario
reggeva le terre con giurisdizione criminale sui
vassalli.
Contro questo stato di fatto intervengono due
forze, popolare l'una, regia l'altra, e
s'integrano e stimolano a vicenda.
Da un canto il desiderio del sovrano di
circoscrivere i poteri dei baroni e le sanzioni
elaborate in materia dai parlamenti; e
sovrattutto il consolidamento dell'autorità
regia, segnato dai re Martino I e II.
D'altro lato lo sviluppo della popolazione, il
suo incremento economico e l'affermazione
personale di singoli terrazzani. Ed ecco
la costituzione di un vero ceto medio fra gli
abitanti del feudo.
Mentre le prescrizioni del sovrano facilitano
l'evoluzione della comunità, il costituirsi e
l'incremento di questa stimola le sanzioni
sovrane. Viene gradualmente sorgendo in tal modo
in seno al feudo siciliano una vera vita
municipale.
Lo sviluppo di questa comunità rappresenta
l'elemento essenziale di tale processo sociale e
politico.
Le nuove istituzioni non s'impongono negli
sperduti casali, gruppo di villani in potere
assoluto del feudatario, privi della capacità di
contrastargli; ma nelle terre più popolose, fra
le popolazioni più ricche, ove ad occupar
cariche di giudici e di giurati si offra un
elemento locale preparato, e questo sappia
avviare nuove conquiste, consolidare le
precedenti.
Di tale processo sociale e politico Comiso offre
un esempio quant'altri mai cospicuo ed
interessante; certamente tra i più cospicui
della Sicilia.
Già nel '500 - epoca a cui risalgono le
scritture conservate - il Conte è rappresentato
da un Castellano e da un Segreto, l'uno
comandante del castello, il secondo
amministratore delle rendite; e un Capitano
esercita nel nome del feudatario la giustizia
criminale.
Ma fra questi Officiali trovano anche posto tre
Bajuli-giurati e un sindaco o assessore, che
soprintendono all'amministrazione locale, alla
polizia ed annona, sorretti da un consiglio
civico composto di Eletti o Deputati, detti
complessivamente Vocali, in numero oscillante da
9 a 10, delegati dai nobili, borghesi e operai;
cui si aggiungono il Guardiano del convento di
San Francesco e, in seguito, anche l'Arciprete e
il Vicario, col titolo di assistenti.
In questo
ordinamento che ci pone già al cospetto del
differenziarsi di un ceto, anzi di più ceti
medi, il fenomeno di elevazione della massa
amorfa dei terrazzani appare
particolarmente intenso. Altrove gli elementi di
ricchezza derivano dai risparmi della prestazione
d'opera, dai lucri delle semine e del piccolo
armento, attraverso la pastorizia e la cultura
estensiva.
Qui invece dal diretto possesso della terra,
acquistata in enfiteusi, frazionata e talvolta
frantumata, che trova nuovo e svariato impiego
intensivo nell'assidua, tenace e intelligente
cura del coltivatore diretto, nell'avveduta
iniziativa del massaro o borghese; attraverso
quel misto di diffidenza per la novità e di
desiderio di nuovo guadagno, i due poli
apparentemente contraddittori, ma in realtà
creatori di un particolare equilibrio tra cui si
muove l'economia comisana.
I feudatari vantano in proposito la concreta
benemerenza di aver accoppiato ad un governo
generalmente buono, la concessione in censo di
quasi tutto il territorio feudale, iniziata nel
sec. XV, subito dopo l'acquisto della signoria,
incrementata largamente dal Conte Gaspare II (1544-1586),
e perfezionata in seguito.
Il vicino esempio delle concessioni di terre
operate dai Conti di Modica - già proprietari di
pressoché l'intero territorio della Contea -
deve aver influito sulla politica fondiaria dei
conti di Comiso.
Ma mentre per la stessa ampiezza del territorio,
la smobilitazione terriera della grande Contea
procedeva per feudi e tenute di diecina e
centinaia di salme, l'angusta estensione
della nostra piccola Contea imponeva concessioni
di tumoli e di qualche salma.
Coll'immenso vantaggio di non creare, come
l'altra, una classe di ricchi borghesi, che
ricorrevano all'affitto o alla mano d'opera del
bracciante, bensì un nugolo di piccoli
proprietari coltivatori diretti.
Una riforma
agraria - avversata dalla Corona - di alto
contenuto sociale.
Già verso la
metà del '600 il feudatario non possedeva
direttamente che una piccola estensione di orti
suburbani e alcuni mulini sul fiume Ippari.
L'architetto Luigi Carlo Zagho, arbitro Regio e
amministratore dello Stato di Comiso, - del quale
nel 1755 delineò una mappa - scrive che al suo
tempo «li naturali... possiedono quasi tutto
questo territorio in censo perpetuo chi un pezzo
e chi un altro» e di queste terre
dispongono liberamente.
Sul dato
iniziale di questa polverizzazione del possesso
terriero, che da secoli va redendo Comiso dal
latifondo, laboriosità, intelligenza, iniziativa
degli abitanti vengono costruendo un diffuso
benessere. Senza arrestarsi ai limiti angusti del
territorio feudale, la foresta di Cammarana,
Cifali e Canicarao, la piana di Chiaramonte, il
feudo del Chiummo e i margini dell'altopiano di
Ragusa, ovunque un nuovo territorio è da
dissodare e porre in valore, vengono invasi dal
comisano; terre che vengono a costituire il
campo, spessissimo esclusivo del suo lavoro,
quello che con parola moderna diremo il suo
bacino economico.
Né questo è sufficiente, perché l'iniziativa
esce dai suoi limiti. II complesso dello «Stato»
di Scoglitti coi feudi di Ancilla, Berdia,
Alcerito, Salina, e verso terra il feudo di San
Bartolo e più in là ancora Durillo, la Pirrera,
Terrana ai margini della piana di Gela e dei
monti di Caltagirone, sono raggiunti - come ci
mostrano ad ogni fascicolo gli atti della corte
giudiziaria feudale - dal comisano, e diventano
campo della sua vasta attività. Egli cura
l'impianto dell'ulivo e del carrubo, la cui
diffusione segna in molti luoghi il limite del
lavoro comisano.
E alimenta e raffina la pastorizia, la quale - da
incroci e selezioni cui restano legati i nomi,
tuttora viventi nell'uso, di antichi allevatori:
Antonio Gerbino del '500 e Salvatore Gioncardo
del primo ottocento - trae quella pecora «Comisana»
che è vanto del patrimonio zootecnico dell'Isola.
Si diffonde il vigneto. Vigneto di collina,
coltivato accuratamente, tutto con diretto lavoro
manuale, senza aiuto d'aratri, colle sue cinque conze;
e il suo prodotto, basato su commistioni di
varietà di uva e particolare lavorazione, crea
lentamente il tipo ambrato: quel
vino robusto e profumato, splendente alla vista
come chiara ambra, diffuso nei mercati della
montagna, e celebrato già dai nostri vecchi
quando cantavano il Ditirammu del Meli con
la variante locale:
Cu
sta mestu, e distrattu ntra un fistinu
Vivissi di lu Comisu l'ambratu
Ca ci rinfrisca pinseri e palatu.
La
frutticoltura, associata al vigneto od estensiva,
appare nell'Orto del Pirato e nelle
cannavate della Cava dell'Ippari, almeno dal
principio del `500; e si associa ancora alle più
nuove colture: il cotone, la canapa, il riso, il
lino, il sommacco, la scerba, la canna da
zucchero, il tabacco (1638) che dava la
pregiatissima polvere da fiuto detto lo spagnuolo
di Comiso, che un feudatario portava nel sec.
XVIII alla corte di Francia, e più tardi doveva
essere preferita da Papa Pio IX che la gradiva in
dono dai Cappuccini di Comiso.
Gli ortaggi infine, delle adiacenze dell'abitato,
trasformate in orti utilizzando le acque del
fonte Diana e delle minori sorgenti, con prodotti
esportati nei paesi vicini, i quali per questo
riguardo divennero e restano tributari di Comiso.
Quando la polemica plebea gratificava i comisani
del titolo di «tronzari», che sarebbe a dire
coltivatori di cavoli, creava inconsapevolmente
un attributo di nobiltà; in quanto li dichiarava
avviati alle raffinatezze delle colture
ortalizie, in una società di agricoltori
rudimentali e di pecorai.
Agli agricoltori si affianca il ceto degli
artigiani, maestri di grande e versatile abilità
nel campo dei mestieri e delle arti, organizzati
in corporazioni, raccolte intorno a congregazioni
religiose. Anche tra essi viene emergendo una
classe scelta, fra coloro che per abilità e
imprese fortunate si arricchiscono, o esercitano
arti più nobili quali l'edilizia e la sartoria
connessa col piccolo commercio delle stoffe.
Il particolare sviluppo cui dava adito la
presenza delle cave di pietra, alimenta un
artigianato artistico di alto valore. Altri
artigiani s'impongono nella lavorazione del ferro
e del legno; con la sobria eleganza di stoviglie
di creta rossa stagnata; con la
raffinatezza di lavori di tessitura e di ricamo,
che fecero celebre il «punto di Comiso». E
dall'artigianato emergono varie figure di artisti:
Gaspare Poidomani, probabile autore di quel
gioiello d'architettura che è l'abside di S.
Francesco, e Giovanni Andrea Lo Blanco,
soprannominato Lu Comisu, che esercita la
pittura in Palermo, ambedue del '500; nel secolo
seguente, Narciso Cydonio e Mariano Cusmano,
comisani forse di nascita, certamente d'elezione.
E nel '700 il pittore Biagio Ferro e l'architetto
Giambattista Cascione, autore della basilica
dell'Annunziata. Tradizione continuata
nell'ottocento dagli architetti Emanuele Girlando
e Francesco Fianchini e dal pittore Giuseppe La
Leta, che trionfa oggi nella pleiade di giovani
artisti che dalla nostra Scuola di Arte hanno
spiccato il volo per alte affermazioni.
Iniziativa
di singoli viene inoltre a creare una serie di
altre attività collegate o meno all'agricoltura.
Quando l'industria in tanti luoghi di Sicilia si
limitava al folclore di canestri di vimini e
tessuti casalinghi, qui si traeva la soda dalla
scerba o erba spinello (una chenopodiacea, la Sàlsola
soda L.) e sorgeva la conseguente fabbricazione
del sapone duro, esportato nell'Isola e a Malta;
s'affermavano alcune delle più vaste concerie di
pelli della Sicilia, si tentava una fabbricazione
di rhum impiantando una estesa coltura di
canne da zucchero, si iniziava quella industria
delle paste alimentari, che favorita da
particolare circostanza di ambiente fisico doveva
assurgere all'importanza attuale. Industrie tutte
già di importanza economica ai primordi del '600,
la cui origine si proietta anche più addietro
nel tempo.
Nel 1719 trae inizio l'industria nuova della
carta. All'attività produttiva si accoppia un
non trascurabile movimento commerciale. Questo si
svolge secondo tipiche forme di raccolta e di
transito, specialmente per l'olio, le carrube, le
mandorle, i cereali in genere; forme che sono la
proiezione in grande di quel minuto senso
commerciale del tipico fugghiamaro comisano,
che il Bongiovanni immortalava in una sua
statuetta, con due jadduzzi in una mano e
un fascio di verdura sotto il braccio. Quel fugghiamaro
che con qualche lira di capitale non v'è
luogo dei dintorni nel quale non si trovi
affaccendato, e del quale perciò - emulo del
figurinaio di Lucca - si narra con compiacenza
che abbia preceduto Colombo in America o, secondo
la variante moderna, si sia presentato ai primi
esploratori del Polo, per informarli che in quel
paese non c'era proprio nulla da fare!
Vero tipo del comisano che non perisce mai, come
canta orgogliosamente egli stesso:
(u cumisanu)
va luntanu;
furria u munnu
cala a funnu
e torna sanu.
Non è da
escludere che particolari incrementi a questa
classe di piccoli commercianti abbia fornito
quella colonia di profughi greci e albanesi che
da parecchi indizi appare stabilita in Comiso al
tempo della conquista ottomana della penisola
balcanica e dell'Egeo.
(Biagio
Pace)
|
da SOPRAVVIVENZE
CATALANE
A COMISO
(anno 1973) |
L'abitato di Comiso
all'epoca della investitura del Cabrera (1393)
era compreso fra il castello feudale - ricordato
insieme «cum aliis fortiliciis» in
documenti dei secoli XIII e XIV, non ancora
nell'odierna veste architettonica, ma dotato di
torri, torrette e merli - l'arco di una porta del
«castrum» tuttora esistente in via Imbriani,
l'abitazione del «dominus» nel sito
del convento di San Francesco, la vecchia via
Bagni di Diana e la celebre fonte.
Fortilizi e mura
circondavano solo in parte un minuscolo
agglomerato di piccole case, serrate fra viuzze
tortuose, prive di pavimentazione. C'era inoltre
in località «Vanchitedda» un sobborgo di
contadini, discendenti in prevalenza di Berberi
convertiti: i Moriscos.
Manca ogni dato demografico. Proprio fra il 1402
e il 1408 fu eseguita una numerazione di tutta
l'isola per fuochi, ma purtroppo s'ignora quale
ne sia stato l'esito. Nondimeno è facile dedurre
da molti elementi convergenti che gli abitanti
del borgo fossero pochi e le sue campagne
pressocché deserte: le ripetute pesti, le gravi
condizioni di miseria che nel secolo precedente
avevano minato la popolazione di tutta l'isola,
la recente pretestuosa deportazione dei ribelli
che avevano lasciato un gran vuoto demografico,
lo stesso trapianto e il rapido inserimento di un
forte contingente di coloni, ai quali è da
attribuire il successivo incremento della
popolazione. Infatti, nella metà del
Millecinquecento essa raggiungeva le quattromila
anime; sicché era esatto il riferimento del
Fazello a «Yomisum oppidulum».
Dopo una sistemazione
precaria di quelli che arrivarono primi, gli
immigrati (Catalani) avvertirono certamente il
bisogno di concentrarsi in un proprio rione per
star vicini a quanti venivano dalla stessa terra
e con le stesse usanze. Così fecero a Siracusa,
a Catania, a Palermo, a Napoli, e altrove i loro
corregionali.
Dove piantarono le
proprie tende, o per meglio dire, usando un
colorito termine catalano dove «s'amassonaron»?
Ritengo che non possa esserci alcun dubbio: ai
limiti sud-occidentali del già esistente abitato.
All'incirca, fra la primitiva Chiesa di San
Francesco, i solchi scavati dalle torrenziali
piene del Mulinazzo e della Cucca, e il primo
tratto della strada di comunicazione col mare, là
dove in seguito sorse la Chiesa dell'Itria.
Del rione dei Catalani
non c'è più alcuna, visibile traccia; ma sopra
un poggio delle miti e verdi alture che
delimitano questa città, sopravvive un tempio
dedicato alla Madonna di Monserrato: la grande
patrona e regina di Catalogna, così profondamene
legata alla storia di quel popolo, che dovunque
giunse ne portò e diffuse la devozione. Persino
ad una delle prime isole incontrate nel Mare dei
Caraibi fu dato il nome di Monserrat dai Catalani
che poterono partecipare al secondo viaggio di
Colombo.
Il tempio, opera
cinquecentesca, fu costruito in epoca di
benessere, per sostituire quasi certamente un più
antico luogo di culto: cappella, chiesetta, o
semplice edicola (non sappiamo, perchè è
mancato un controllo del sottosuolo), che gli
immigrati dovettero erigere senza indugi sopra
quello stesso colle, prossimo e ben visibile
dalle loro sottostanti case; eco lontana della
celebre montagna-santuario che sovrasta su tanta
parte del territorio della Vecchia Catalogna
Iberica.
Sebbene sfigurata da
troppe manomissioni e spoliazioni di marmi,
quadri, iscrizioni, e persino del simulacro della
«Nostre Moreneta» (così chiama la sua
Madonnina bruna il popolo catalano); dalla
inconsulta fusione con moderne costruzioni; e da
rifacimenti non studiati; la presenza di quella
chiesa è sintomatica: non solo per il culto
inconfondibile, ma altresì per le dimensioni.
Essa, con ben 30 metri di lunghezza per 11 di
larghezza, è la più grande delle varie
chiese monserratine esistenti in Italia;
compresa quella di Roma (m. 24 x m. 10,60),
voluta dai papi e dalla forte colonia dei
Catalani .
I culti sono elementi
probanti nella storia e le pietre parlano
talvolta più dei documenti scritti, che finora
non ci hanno fatto conoscere le vicende di cui
stiamo trattando, e che tuttavia non possono
mancare negli immensi archivi della Corona di
Aragona a Barcellona. Ivi devono trovarsi atti
costitutivi e documenti corredati di nomi, date e
dettagli, con tutte le formalità notarili ed
ecclesiastiche, che erano proprie dell'epoca e
della razza.
I Comisani di vecchio
ceppo, più o meno indigeno, non videro certo di
buon'occhio quegli intrusi di lontani paesi, che
vestivano in modo strano: pantaloni di lana,
larga fascia rossa o azzurra, calzettoni con
stringhe e fiocco, la tipica «barretina
encarnada» ripiegata sulla fronte e
sull'orecchio; che parlavano un linguaggio
incomprensibile ed erano dotati quanto loro di un
caratterino fiero ed animoso.
Essi in brevissimo tempo
avevano raddoppiato e forse triplicato la
popolazione di un territorio notoriamente
fertile, ma saccheggiato da guerriglie continue e
per molta parte incolto, perché ancora ricoperto
della boscaglia dell'antica foresta di Cammarana;
sicché è facile intuire che i rapporti fra i
due gruppi etnici furono per qualche tempo tesi.
Poi, fra diffidenze, inimicizie, invettive,
contrasti forse sanguinosi, ricorsi all'autorità
del conte e del re; li uni, ostili ad ogni
contatto con i sopravvenuti, capirono che non
potendo sbarazzarsi degli incomodi stranieri, la
situazione non sarebbe più mutata e bisognava
rassegnarsi alla cattiva sorte; gli altri,
intraprendenti, più tecnici e meglio
organizzati, cominciavano a raccogliere quei
benefici che li avevano allettati a trasferirsi
in queste «terre promesse» idonee ad un rapido
adattamento, per molti di loro anche tanto simili
alla madre-patria, sicché gli interessi comuni
intrecciandosi fra le due parti migliorarono, sia
pure con alti e bassi, i rapporti di convivenza,
che dovettero riorganizzarsi con nuovi criteri. E
i matrimoni misti completarono facilmente l'opera
di pacificazione mescolando la gente, che
oltretutto apparteneva a due rami della stessa
stirpe: mediterranea, latina, cristiana.
Con
la grande ondata degli immigrati si riversarono
su queste contrade i nomi, il linguaggio, i
costumi, le usanze, i gusti, le tradizioni
civiche e religiose, persino le superstizioni
della campagna e dei villaggi catalani; arnesi,
utensili, piante.
La
nozione dello stanziamento copioso e definitivo
di tanta gente si è andata vieppiù oscurando
fino a perdersi totalmente nel rapido e lungo
corso del tempo; ma le donne e gli uomini di
almeno venti generazioni, senza averne sentore,
hanno custodito e trasmesso fino a noi tanta
parte del patrimonio spirituale e culturale, e
delle regole di vita sociale e domestica, che le
famiglie catalane avevano recato all'alba del
Millequattrocento. Di esse, alcune si sono
estinte o trasferite altrove, lasciando tuttavia
traccia della loro esistenza negli archivi
parrocchiali.
Di altre, gli epigoni sono forse ancor oggi qui
con i loro cognomi originari, che generalmente
hanno subito lievi alterazioni.....
........(omissis).....
Le
famiglie catalane sbarcate sulle rive dell'Ippari
provenivano, a mio avviso, da due zone:
dall'entroterra monserratino fra Lerida e
Barcelona, e dalle valli pirenaiche del Ampurdá
e del Roussellon. Ed erano essenzialmente formate
da artigiani, agricoltori, piccoli mercanti e
imprenditori; vale a dire le categorie, ancora
oggi, più tecniche ed industriose di Catalogna e
di tutta la Spagna.
C'erano, s'intende, anche ecclesiastici e
funzionari.
(Raffaele Umberto
Inglieri)
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