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SCRITTI SU COMISO

In questa pagina vengono presentati scritti di due comisani:
- Biagio Pace (1889-1955)
- Raffaele Umberto Inglieri (1904-1983).


Lo scritto di Biagio Pace (docente di Archeologia presso le Università di Palermo, Pisa e Napoli, preside della Facoltà di Lettere presso l'Università di Napoli, deputato al Parlamento, presidente dell'Istituto del Dramma Antico) è tratto dalla conferenza fatta presso il Circolo Amici dell'Arte nel 1953.

Lo scritto di Raffaele Umberto Inglieri (archeologo, Direttore del Museo Nazionale Lumenense e del Museo Nazionale di Antichità di Parma, sovrintendente alle Antichità del Lazio, nonché studioso delle eredità bizantine e catalane a Comiso) fa parte del testo di una conferenza tenuta a Comiso nel 1973.

(Accendendo le casse acustiche
in sottofondo si può ascoltare "Pasqua comisana")





da VALORI DI VITA PROVINCIALE
(anno 1953)

L'insediamento umano nel sito di Comiso può farsi risalire almeno, al corso del secondo Millennio a. C., quando gruppi di Siculi occupavano parecchie fra le colline circostanti e lo stesso luogo della città attuale.
Più tardi, quando le colonie elleniche posero piede in Sicilia, la più potente di essa, Siracusa, mirando a raggiungere il mar d'Africa verso la foce dell'Ippari - ove nel 599 a. C. fondava Camarina - snoda tra il nostro fiume e la bastionata degli Iblei l'ultimo tratto della via di penetrazione economica e politica che, dopo aver risalito la valle dell'Anapo fino ad Acre, raggiungeva la nostra pianura valicando i monti tra Giarratana e Chiaramonte.
E mentre le antiche stazioni indigene subivano la potente attrazione della civiltà coloniale greca, e al suo calore si trasformavano, accogliendo forme di vita ellenica - un capo locale si faceva scrivere nel metro e nella lingua dell'epos l'epitaffio per i propri genitori - nella breve altura di S. Lio ed in parte delle vicine terre denominate Merlino, Desietto e Difesa, sulla destra del fiume lppari - che doveva trovar fama nella Poesia antica per il ricordo che Pindaro ne faceva, celebrando l'olimpionico Psaumi - sorse una piccola città greca, sia questa o no la colonia siracusana di Casmene, fondata secondo la tradizione nell'anno 655 a. C.; la sua necropoli occupava la contigua bassura dei Margi.
In questa lontana età il centro politico ed economico della plaga risiede sul mare, a Camarina, che ebbe tre secoli e mezzo di vita tempestosa e turbolenta, insofferente come fu di adattarsi a rappresentare un elemento del sistema politico siracusano, scopo della sua fondazione; smarrita perciò fra le più diverse avventure, in cerca di parteggiamenti nelle grandi contese, che dessero possibilità esterna d'inserire la sua aspirazione in più vasto respiro politico.
Con la distruzione di Camarina, avvenuta al tempo della prima guerra punica (258 a.C.), il primitivo abitato ellenico di San Lio ne eredita la funzione di centro economico. E si amplia con un grosso prolungamento sul pendio alla sinistra del fiume, in tutto un nuovo quartiere intorno al ricchissimo fonte, che è al centro di Comiso, e gli antichi avevano consacrato ad Artemide per virtù prodigiose delle sue acque, materia di cerimonie ordaliche.
Bagni e ninfei decorati di ricchi marmi, sculture e mosaici d'arte, ripetutamente qui ritrovati non meno che una vastissima necropoli - la quale occupa tutti i quartieri superiori di Comiso, dall'Annunziata a San Leonardo, al Saliceto - nonché tesoretti monetali, accurate iscrizioni, tutto attesta qui la vita, di una vera città romana, fiorita principalmente nel periodo tardo imperiale e in quello bizantino.
Noi non sappiamo se in questa vada riconosciuta, come taluno crede, quella nuova Camarina che sembra riapparire nelle testimonianze degli antichi scrittori.
Ma è certo che il nuovo quartiere del Fonte assume ben presto carattere urbano.
Il Cristianesimo vi trova campo di antiche affermazioni, documentate da un gruppo di catacombe, il cui nucleo può essere anteriore alla pace costantiniana.
Una pregevole epigrafe mostra la presenza di una setta gnostica. E non si può escludere che all'antica comunità di cristiani andrebbero riferiti quei non improbabili vescovi camarinesi, Bonifacio e Probo, che sottoscrivono i concili del 501 e del 504.
Le abitazioni si succedono del medesimo sito nel periodo arabo; l'intensità della toponomastica araba sia nell'interno dell'abitato che in tutta la campagna circostante, attesta una vita agricola fiorente e il fissarsi di un nucleo di conquistatori, cui verosibilmente risale il nome attuale di Comiso, che sembra del tutto identico a quello della libica Homs. La ricca zona che dal margine sud occidentale degli Iblei va fino al braccio destro dal fiume Ippari, appare nell'antichità costellata di piccoli villaggi, casali e fattorie, indizio di una remota dispersione degli abitanti, cui doveva corrispondere una certa frantumazione della proprietà terriera.
In età Normanna ha inizio quel processo di accentramento demografico dal quale trae origine l'attuale assetto della zona. La popolazione si riversa sotto la torre protettrice, sorta in quelli che erano già i maggiori centri, e cioè oltre Comiso, i villaggi di Canicarao, Cifali e Serramezzana, Gulfi, Rosacambra, dei quali i primi furono assorbiti da Comiso qualche tempo dopo, gli altri rappresentano rispettivamente l'antefatto dei comuni di Chiaramonte e Santa Croce.
Siamo al cadere del Medio Evo; all'intorno viene a costituirsi quel caratteristico aggregato della feudalità siciliana che fu la contea di Modica. In quel tempo Comiso appartiene al demanio Regio, fino al regno di Federico II, nel quale è tenuta in breve signoria da Federico Speciale. Soltanto sul cadere del sec. XIV e i primordi del seguente - attraverso le usurpazioni di un personaggio che aveva avuto gran parte nei rivolgimenti politici che turbarono la Sicilia all'estinguersi della dinastia aragonese, Bernardo Cabrera - la città entra a far parte, con altre, della vasta Contea, che venne allora a coincidere quasi con l'odierna provincia di Ragusa.
Ma per breve tempo; non oltre mezzo secolo. Nel 1453 in seguito ad una sollevazione di vassalli, il figlio e successore di Bernardo, dovendo pagare al Regio Fisco una multa di 60 mila scudi, è costretto ad alienare alcune zone del suo Stato, fra cui Comiso, che passa alla signoria di Periconio Naselli.
Questo ritorno all'autonomia segna l'origine del suo rinnovamento.

I tre secoli e mezzo che precedono l'abolizione della feudalità, vedono sotto la signoria generalmente intelligente e generosa dei Naselli, compiersi il processo di costituzione di Comiso, nel suo aspetto esteriore e nella sua struttura sociale ed economica.
Gli abitanti da 3.000 circa, quanti se ne annoveravano al tempo di Carlo V, son diventati al cadere del '700 oltre 10 mila. ll modesto aggruppamento di case, rinserrato entro breve cerchia di mura, conservava taluni nobili edifici delle varie età: il battistero superstite di una antica basilica bizantina di S. Gregorio, nel quale i feudatari Regio avevano rinnovato la decorazione dipinta; la chiesa romanica di S. Nicola, che la tradizione attribuisce a re Ruggero; la chiesa gotica di S. Francesco; un nucleo del Castello che si era insediato sullo scheletro d'un edificio romano; e ancora la chiesetta dell'Ospedale, sede della Congregazione dei Flagellanti; e qualche altra di cui oggi si è appena conservato il ricordo. Un solo convento, quello dei Carmelitani.
In breve tempo l'abitato triplica la sua estensione, il Castello è ricostruito e ingrandito, coronato quindi del suo potente Mastio. Ad esso si aggiungono cospicui palazzi privati, una ventina di chiese, talune delle quali veramente grandiose, due monasteri di Teresiane e quattro conventi e case religiose (oltre i Carmelitani, già esistenti, quelle dei Minori, de1 Cappuccini, degli Osservanti, dei Filippini, un Collegio di Maria). Edifici sacri sontuosi, arricchiti di opere d'arte di ogni pittore o scultore che in Sicilia venisse in fama, dal Gagini e dai suoi successori al Marabitti e al Villareale, dal De Pavia al Novelli, al Barbalonga al Sozzi.
Trasformata attraverso vaste concessioni enfiteutiche l'economia agraria dei dintorni, è creata nelle sue linee essenziali una classe borghese benestante, un ceto di professionisti, un nobile artigianato; avviato ad una molteplice attività sedula e pertinace il popolo minuto.



Tutto ciò collegato, in rapporti di causa ed effetto con il più interessante fenomeno storico che maturi in questi secoli, fenomeno che merita di essere chiarito e ricercato a preferenza degli avvenimenti di storia e di cronaca susseguitisi.
Fra i quali noteremo soltanto una gagliarda sollevazione popolare del 25 Marzo 1600 con l'assalto ad un reggimento di fanteria spagnuolo, e la nobile parte presa nel 1673 dalle milizie locali alla guerra franco-spagnuola, nella campagna di Sicilia e particolarmente allo sblocco di Milazzo, alla difesa di Licata e alla guerra di Taormina, che valse a Comiso l'esenzione perpetua dal servizio militare, con privilegio del 18 Marzo 1682 di re Carlo II.

Le usurpazioni che i maggiori feudatari dapprima, e i piccoli in seguito, avevano gradualmente operato, li aveva portati al cadere del sec. XIV ad esercitare legalmente la potestà di procedere ex abrupto in via penale contro i rei, e la giurisdizione civile, il mero e misto imperio secondo l'espessione del tempo. Un Castellano o Governatore in nome del feudatario reggeva le terre con giurisdizione criminale sui vassalli.

Contro questo stato di fatto intervengono due forze, popolare l'una, regia l'altra, e s'integrano e stimolano a vicenda.
Da un canto il desiderio del sovrano di circoscrivere i poteri dei baroni e le sanzioni elaborate in materia dai parlamenti; e sovrattutto il consolidamento dell'autorità regia, segnato dai re Martino I e II.
D'altro lato lo sviluppo della popolazione, il suo incremento economico e l'affermazione personale di singoli terrazzani. Ed ecco la costituzione di un vero ceto medio fra gli abitanti del feudo.

Mentre le prescrizioni del sovrano facilitano l'evoluzione della comunità, il costituirsi e l'incremento di questa stimola le sanzioni sovrane. Viene gradualmente sorgendo in tal modo in seno al feudo siciliano una vera vita municipale.
Lo sviluppo di questa comunità rappresenta l'elemento essenziale di tale processo sociale e politico.
Le nuove istituzioni non s'impongono negli sperduti casali, gruppo di villani in potere assoluto del feudatario, privi della capacità di contrastargli; ma nelle terre più popolose, fra le popolazioni più ricche, ove ad occupar cariche di giudici e di giurati si offra un elemento locale preparato, e questo sappia avviare nuove conquiste, consolidare le precedenti.


Di tale processo sociale e politico Comiso offre un esempio quant'altri mai cospicuo ed interessante; certamente tra i più cospicui della Sicilia.
Già nel '500 - epoca a cui risalgono le scritture conservate - il Conte è rappresentato da un Castellano e da un Segreto, l'uno comandante del castello, il secondo amministratore delle rendite; e un Capitano esercita nel nome del feudatario la giustizia criminale.
Ma fra questi Officiali trovano anche posto tre Bajuli-giurati e un sindaco o assessore, che soprintendono all'amministrazione locale, alla polizia ed annona, sorretti da un consiglio civico composto di Eletti o Deputati, detti complessivamente Vocali, in numero oscillante da 9 a 10, delegati dai nobili, borghesi e operai; cui si aggiungono il Guardiano del convento di San Francesco e, in seguito, anche l'Arciprete e il Vicario, col titolo di assistenti.

In questo ordinamento che ci pone già al cospetto del differenziarsi di un ceto, anzi di più ceti medi, il fenomeno di elevazione della massa amorfa dei terrazzani appare particolarmente intenso. Altrove gli elementi di ricchezza derivano dai risparmi della prestazione d'opera, dai lucri delle semine e del piccolo armento, attraverso la pastorizia e la cultura estensiva.
Qui invece dal diretto possesso della terra, acquistata in enfiteusi, frazionata e talvolta frantumata, che trova nuovo e svariato impiego intensivo nell'assidua, tenace e intelligente cura del coltivatore diretto, nell'avveduta iniziativa del massaro o borghese; attraverso quel misto di diffidenza per la novità e di desiderio di nuovo guadagno, i due poli apparentemente contraddittori, ma in realtà creatori di un particolare equilibrio tra cui si muove l'economia comisana.

I feudatari vantano in proposito la concreta benemerenza di aver accoppiato ad un governo generalmente buono, la concessione in censo di quasi tutto il territorio feudale, iniziata nel sec. XV, subito dopo l'acquisto della signoria, incrementata largamente dal Conte Gaspare II (1544-1586), e perfezionata in seguito.
Il vicino esempio delle concessioni di terre operate dai Conti di Modica - già proprietari di pressoché l'intero territorio della Contea - deve aver influito sulla politica fondiaria dei conti di Comiso.
Ma mentre per la stessa ampiezza del territorio, la smobilitazione terriera della grande Contea procedeva per feudi e tenute di diecina e centinaia di salme, l'angusta estensione della nostra piccola Contea imponeva concessioni di tumoli e di qualche salma. Coll'immenso vantaggio di non creare, come l'altra, una classe di ricchi borghesi, che ricorrevano all'affitto o alla mano d'opera del bracciante, bensì un nugolo di piccoli proprietari coltivatori diretti.

Una riforma agraria - avversata dalla Corona - di alto contenuto sociale.

Già verso la metà del '600 il feudatario non possedeva direttamente che una piccola estensione di orti suburbani e alcuni mulini sul fiume Ippari.
L'architetto Luigi Carlo Zagho, arbitro Regio e amministratore dello Stato di Comiso, - del quale nel 1755 delineò una mappa - scrive che al suo tempo «li naturali... possiedono quasi tutto questo territorio in censo perpetuo chi un pezzo e chi un altro» e di queste terre dispongono liberamente.

Sul dato iniziale di questa polverizzazione del possesso terriero, che da secoli va redendo Comiso dal latifondo, laboriosità, intelligenza, iniziativa degli abitanti vengono costruendo un diffuso benessere. Senza arrestarsi ai limiti angusti del territorio feudale, la foresta di Cammarana, Cifali e Canicarao, la piana di Chiaramonte, il feudo del Chiummo e i margini dell'altopiano di Ragusa, ovunque un nuovo territorio è da dissodare e porre in valore, vengono invasi dal comisano; terre che vengono a costituire il campo, spessissimo esclusivo del suo lavoro, quello che con parola moderna diremo il suo bacino economico.
Né questo è sufficiente, perché l'iniziativa esce dai suoi limiti. II complesso dello «Stato» di Scoglitti coi feudi di Ancilla, Berdia, Alcerito, Salina, e verso terra il feudo di San Bartolo e più in là ancora Durillo, la Pirrera, Terrana ai margini della piana di Gela e dei monti di Caltagirone, sono raggiunti - come ci mostrano ad ogni fascicolo gli atti della corte giudiziaria feudale - dal comisano, e diventano campo della sua vasta attività. Egli cura l'impianto dell'ulivo e del carrubo, la cui diffusione segna in molti luoghi il limite del lavoro comisano.
E alimenta e raffina la pastorizia, la quale - da incroci e selezioni cui restano legati i nomi, tuttora viventi nell'uso, di antichi allevatori: Antonio Gerbino del '500 e Salvatore Gioncardo del primo ottocento - trae quella pecora «Comisana» che è vanto del patrimonio zootecnico dell'Isola.
Si diffonde il vigneto. Vigneto di collina, coltivato accuratamente, tutto con diretto lavoro manuale, senza aiuto d'aratri, colle sue cinque conze; e il suo prodotto, basato su commistioni di varietà di uva e particolare lavorazione, crea lentamente il tipo ambrato: quel vino robusto e profumato, splendente alla vista come chiara ambra, diffuso nei mercati della montagna, e celebrato già dai nostri vecchi quando cantavano il Ditirammu del Meli con la variante locale:

Cu sta mestu, e distrattu ntra un fistinu
Vivissi di lu Comisu l'ambratu
Ca ci rinfrisca pinseri e palatu.

La frutticoltura, associata al vigneto od estensiva, appare nell'Orto del Pirato e nelle cannavate della Cava dell'Ippari, almeno dal principio del `500; e si associa ancora alle più nuove colture: il cotone, la canapa, il riso, il lino, il sommacco, la scerba, la canna da zucchero, il tabacco (1638) che dava la pregiatissima polvere da fiuto detto lo spagnuolo di Comiso, che un feudatario portava nel sec. XVIII alla corte di Francia, e più tardi doveva essere preferita da Papa Pio IX che la gradiva in dono dai Cappuccini di Comiso.
Gli ortaggi infine, delle adiacenze dell'abitato, trasformate in orti utilizzando le acque del fonte Diana e delle minori sorgenti, con prodotti esportati nei paesi vicini, i quali per questo riguardo divennero e restano tributari di Comiso.
Quando la polemica plebea gratificava i comisani del titolo di «tronzari», che sarebbe a dire coltivatori di cavoli, creava inconsapevolmente un attributo di nobiltà; in quanto li dichiarava avviati alle raffinatezze delle colture ortalizie, in una società di agricoltori rudimentali e di pecorai.

Agli agricoltori si affianca il ceto degli artigiani, maestri di grande e versatile abilità nel campo dei mestieri e delle arti, organizzati in corporazioni, raccolte intorno a congregazioni religiose. Anche tra essi viene emergendo una classe scelta, fra coloro che per abilità e imprese fortunate si arricchiscono, o esercitano arti più nobili quali l'edilizia e la sartoria connessa col piccolo commercio delle stoffe.
Il particolare sviluppo cui dava adito la presenza delle cave di pietra, alimenta un artigianato artistico di alto valore. Altri artigiani s'impongono nella lavorazione del ferro e del legno; con la sobria eleganza di stoviglie di creta rossa stagnata; con la raffinatezza di lavori di tessitura e di ricamo, che fecero celebre il «punto di Comiso». E dall'artigianato emergono varie figure di artisti: Gaspare Poidomani, probabile autore di quel gioiello d'architettura che è l'abside di S. Francesco, e Giovanni Andrea Lo Blanco, soprannominato Lu Comisu, che esercita la pittura in Palermo, ambedue del '500; nel secolo seguente, Narciso Cydonio e Mariano Cusmano, comisani forse di nascita, certamente d'elezione.
E nel '700 il pittore Biagio Ferro e l'architetto Giambattista Cascione, autore della basilica dell'Annunziata. Tradizione continuata nell'ottocento dagli architetti Emanuele Girlando e Francesco Fianchini e dal pittore Giuseppe La Leta, che trionfa oggi nella pleiade di giovani artisti che dalla nostra Scuola di Arte hanno spiccato il volo per alte affermazioni.


Iniziativa di singoli viene inoltre a creare una serie di altre attività collegate o meno all'agricoltura. Quando l'industria in tanti luoghi di Sicilia si limitava al folclore di canestri di vimini e tessuti casalinghi, qui si traeva la soda dalla scerba o erba spinello (una chenopodiacea, la Sàlsola soda L.) e sorgeva la conseguente fabbricazione del sapone duro, esportato nell'Isola e a Malta; s'affermavano alcune delle più vaste concerie di pelli della Sicilia, si tentava una fabbricazione di rhum impiantando una estesa coltura di canne da zucchero, si iniziava quella industria delle paste alimentari, che favorita da particolare circostanza di ambiente fisico doveva assurgere all'importanza attuale. Industrie tutte già di importanza economica ai primordi del '600, la cui origine si proietta anche più addietro nel tempo.

Nel 1719 trae inizio l'industria nuova della carta. All'attività produttiva si accoppia un non trascurabile movimento commerciale. Questo si svolge secondo tipiche forme di raccolta e di transito, specialmente per l'olio, le carrube, le mandorle, i cereali in genere; forme che sono la proiezione in grande di quel minuto senso commerciale del tipico fugghiamaro comisano, che il Bongiovanni immortalava in una sua statuetta, con due jadduzzi in una mano e un fascio di verdura sotto il braccio. Quel fugghiamaro che con qualche lira di capitale non v'è luogo dei dintorni nel quale non si trovi affaccendato, e del quale perciò - emulo del figurinaio di Lucca - si narra con compiacenza che abbia preceduto Colombo in America o, secondo la variante moderna, si sia presentato ai primi esploratori del Polo, per informarli che in quel paese non c'era proprio nulla da fare!
Vero tipo del comisano che non perisce mai, come canta orgogliosamente egli stesso:

(u cumisanu)
va luntanu;
furria u munnu
cala a funnu
e torna sanu.

Non è da escludere che particolari incrementi a questa classe di piccoli commercianti abbia fornito quella colonia di profughi greci e albanesi che da parecchi indizi appare stabilita in Comiso al tempo della conquista ottomana della penisola balcanica e dell'Egeo.

(Biagio Pace)





da SOPRAVVIVENZE CATALANE
A COMISO

(anno 1973)

L'abitato di Comiso all'epoca della investitura del Cabrera (1393) era compreso fra il castello feudale - ricordato insieme «cum aliis fortiliciis» in documenti dei secoli XIII e XIV, non ancora nell'odierna veste architettonica, ma dotato di torri, torrette e merli - l'arco di una porta del «castrum» tuttora esistente in via Imbriani, l'abitazione del «dominus» nel sito del convento di San Francesco, la vecchia via Bagni di Diana e la celebre fonte.

Fortilizi e mura circondavano solo in parte un minuscolo agglomerato di piccole case, serrate fra viuzze tortuose, prive di pavimentazione. C'era inoltre in località «Vanchitedda» un sobborgo di contadini, discendenti in prevalenza di Berberi convertiti: i Moriscos.
Manca ogni dato demografico. Proprio fra il 1402 e il 1408 fu eseguita una numerazione di tutta l'isola per fuochi, ma purtroppo s'ignora quale ne sia stato l'esito. Nondimeno è facile dedurre da molti elementi convergenti che gli abitanti del borgo fossero pochi e le sue campagne pressocché deserte: le ripetute pesti, le gravi condizioni di miseria che nel secolo precedente avevano minato la popolazione di tutta l'isola, la recente pretestuosa deportazione dei ribelli che avevano lasciato un gran vuoto demografico, lo stesso trapianto e il rapido inserimento di un forte contingente di coloni, ai quali è da attribuire il successivo incremento della popolazione. Infatti, nella metà del Millecinquecento essa raggiungeva le quattromila anime; sicché era esatto il riferimento del Fazello a «Yomisum oppidulum».

Dopo una sistemazione precaria di quelli che arrivarono primi, gli immigrati (Catalani) avvertirono certamente il bisogno di concentrarsi in un proprio rione per star vicini a quanti venivano dalla stessa terra e con le stesse usanze. Così fecero a Siracusa, a Catania, a Palermo, a Napoli, e altrove i loro corregionali.

Dove piantarono le proprie tende, o per meglio dire, usando un colorito termine catalano dove «s'amassonaron»? Ritengo che non possa esserci alcun dubbio: ai limiti sud-occidentali del già esistente abitato. All'incirca, fra la primitiva Chiesa di San Francesco, i solchi scavati dalle torrenziali piene del Mulinazzo e della Cucca, e il primo tratto della strada di comunicazione col mare, là dove in seguito sorse la Chiesa dell'Itria.

Del rione dei Catalani non c'è più alcuna, visibile traccia; ma sopra un poggio delle miti e verdi alture che delimitano questa città, sopravvive un tempio dedicato alla Madonna di Monserrato: la grande patrona e regina di Catalogna, così profondamene legata alla storia di quel popolo, che dovunque giunse ne portò e diffuse la devozione. Persino ad una delle prime isole incontrate nel Mare dei Caraibi fu dato il nome di Monserrat dai Catalani che poterono partecipare al secondo viaggio di Colombo.

Il tempio, opera cinquecentesca, fu costruito in epoca di benessere, per sostituire quasi certamente un più antico luogo di culto: cappella, chiesetta, o semplice edicola (non sappiamo, perchè è mancato un controllo del sottosuolo), che gli immigrati dovettero erigere senza indugi sopra quello stesso colle, prossimo e ben visibile dalle loro sottostanti case; eco lontana della celebre montagna-santuario che sovrasta su tanta parte del territorio della Vecchia Catalogna Iberica.

Sebbene sfigurata da troppe manomissioni e spoliazioni di marmi, quadri, iscrizioni, e persino del simulacro della «Nostre Moreneta» (così chiama la sua Madonnina bruna il popolo catalano); dalla inconsulta fusione con moderne costruzioni; e da rifacimenti non studiati; la presenza di quella chiesa è sintomatica: non solo per il culto inconfondibile, ma altresì per le dimensioni.
Essa, con ben 30 metri di lunghezza per 11 di larghezza, è la più grande delle varie chiese monserratine esistenti in Italia; compresa quella di Roma (m. 24 x m. 10,60), voluta dai papi e dalla forte colonia dei Catalani .

I culti sono elementi probanti nella storia e le pietre parlano talvolta più dei documenti scritti, che finora non ci hanno fatto conoscere le vicende di cui stiamo trattando, e che tuttavia non possono mancare negli immensi archivi della Corona di Aragona a Barcellona. Ivi devono trovarsi atti costitutivi e documenti corredati di nomi, date e dettagli, con tutte le formalità notarili ed ecclesiastiche, che erano proprie dell'epoca e della razza.

I Comisani di vecchio ceppo, più o meno indigeno, non videro certo di buon'occhio quegli intrusi di lontani paesi, che vestivano in modo strano: pantaloni di lana, larga fascia rossa o azzurra, calzettoni con stringhe e fiocco, la tipica «barretina encarnada» ripiegata sulla fronte e sull'orecchio; che parlavano un linguaggio incomprensibile ed erano dotati quanto loro di un caratterino fiero ed animoso.

Essi in brevissimo tempo avevano raddoppiato e forse triplicato la popolazione di un territorio notoriamente fertile, ma saccheggiato da guerriglie continue e per molta parte incolto, perché ancora ricoperto della boscaglia dell'antica foresta di Cammarana; sicché è facile intuire che i rapporti fra i due gruppi etnici furono per qualche tempo tesi. Poi, fra diffidenze, inimicizie, invettive, contrasti forse sanguinosi, ricorsi all'autorità del conte e del re; li uni, ostili ad ogni contatto con i sopravvenuti, capirono che non potendo sbarazzarsi degli incomodi stranieri, la situazione non sarebbe più mutata e bisognava rassegnarsi alla cattiva sorte; gli altri, intraprendenti, più tecnici e meglio organizzati, cominciavano a raccogliere quei benefici che li avevano allettati a trasferirsi in queste «terre promesse» idonee ad un rapido adattamento, per molti di loro anche tanto simili alla madre-patria, sicché gli interessi comuni intrecciandosi fra le due parti migliorarono, sia pure con alti e bassi, i rapporti di convivenza, che dovettero riorganizzarsi con nuovi criteri. E i matrimoni misti completarono facilmente l'opera di pacificazione mescolando la gente, che oltretutto apparteneva a due rami della stessa stirpe: mediterranea, latina, cristiana.

Con la grande ondata degli immigrati si riversarono su queste contrade i nomi, il linguaggio, i costumi, le usanze, i gusti, le tradizioni civiche e religiose, persino le superstizioni della campagna e dei villaggi catalani; arnesi, utensili, piante.

La nozione dello stanziamento copioso e definitivo di tanta gente si è andata vieppiù oscurando fino a perdersi totalmente nel rapido e lungo corso del tempo; ma le donne e gli uomini di almeno venti generazioni, senza averne sentore, hanno custodito e trasmesso fino a noi tanta parte del patrimonio spirituale e culturale, e delle regole di vita sociale e domestica, che le famiglie catalane avevano recato all'alba del Millequattrocento. Di esse, alcune si sono estinte o trasferite altrove, lasciando tuttavia traccia della loro esistenza negli archivi parrocchiali.
Di altre, gli epigoni sono forse ancor oggi qui con i loro cognomi originari, che generalmente hanno subito lievi alterazioni.....

........(omissis).....

Le famiglie catalane sbarcate sulle rive dell'Ippari provenivano, a mio avviso, da due zone: dall'entroterra monserratino fra Lerida e Barcelona, e dalle valli pirenaiche del Ampurdá e del Roussellon. Ed erano essenzialmente formate da artigiani, agricoltori, piccoli mercanti e imprenditori; vale a dire le categorie, ancora oggi, più tecniche ed industriose di Catalogna e di tutta la Spagna.
C'erano, s'intende, anche ecclesiastici e funzionari.

(Raffaele Umberto Inglieri)






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