Il viaggiatore
forestiero che, provenendo dalla Piana di Ragusa,
imbocca, dopo aver attraversato un territorio
tristemente piatto ed uniforme, il primo dei
numerosi tornanti che scendono a valle, si trova,
all'improvviso, di fronte ad un paesaggio arioso,
profondo e vario; uno spettacolo naturale che i
suoi occhi non riescono ad abbracciare in tutta
la sua estensione: una valle ubertosa e
variopinta, che a destra è chiusa dagli ultimi
contrafforti degli Iblei, ma a sinistra si perde
fino ad uno sfondo che comprende superiormente
una fascia di volta celeste e, nella parte
inferiore, una porzione del Canale di Sicilia, un
nastro luminoso e sfumato che, per via della
distanza, appare come una vibrazione di colori
tra l'argento, l'azzurro ed il rosa.
Da questa altura sono visibili tre grossi centri
urbani: Comiso, ai piedi del contrafforte,
Vittoria, nel mezzo della valle, e, più lontano,
Gela.
In
quanto ai Comisani, dobbiamo dire che il tratto
loro più spiccante è la singolarità. Si noti
che dialettalmente la cittadina viene denominata
con l'articolo: «u Comisu», cioè «il Comiso».
Questo articolo viene usato con uno spirito che
è ben diverso da quello con cui si nominano
personalità illustri, come ad esempio il Tasso,
il Manzoni, il Verga..., e piuttosto suggerisce
un'intenzione vagamente ironica, come se si
volesse insinuare che ci troviamo di fronte a
qualcosa di inconsueto e «singolare». Comiso,
appunto, sembra voler denunciare la propria
congenita «singolarità» attraverso l'articolo
che precede il suo nome.
Non
ci risulta che ci siano esempi analoghi. Né si
obietti che in Italia ci sono città, come La
Spezia, L'Aquila, che pure sono precedute
dall'articolo: si badi che l'articolo che precede
Comiso è maschile!, mentre i nomi di città, sia
nella lingua madre sia nel dialetto siciliano,
sono, di regola, di genere femminile. Comiso
compresa! Così, ad esempio, si dice «la bella
Comiso» in italiano, «u beddu Comisu» nel
nostro dialetto.
Sia chiaro, però, che questa medesima
espressione acquista un significato differente se
è pronunziata da un forestiero o da un comisano:
se un forestiero dice «la bella Comiso», egli
vuol dire che Comiso è bella e basta; se invece
è un comisano a dire «u beddu Comisu», lo fa
col tono con cui, riferendosi ad una canaglia,
direbbe «un bel galantuomo!».
Il comisano, dunque, fa dell'ironia su se stesso,
come Cirano di Bergerac; ma contrariamente al
famoso nasuto e spadaccino di Francia, e perciò
superandolo in «singolarità», permette anche
agli altri di farne su di lui. Difatti rimane
imperturbato di fronte ad un secolare giudizio
secondo il quale egli, per natura, è «lollu»:
«cumisaru lollu» ovvero «lollu cumisaru» si
dice, come se le due parole formassero un binomio
indissolubile.
Lo scrivente ha assai meditato sull'origine
etnologica e psicologica della parola «lollu»,
dato che i Comisani, lungi dall'essere sciocchi e
deficienti, sono, per universale riconoscimento,
impareggiabilmente abili e scaltri nel commercio,
nel condurre affari e trattative.
In proposito ha interpellato molti comisani
illustri, dall'archeologo Biagio Pace al pittore
Salvatore Fiume, dal ceramista Salvatore Meli al
cantante Salvatore Adamo, dall'incisore Nunzio
Gulino al Generale Pelligra, al pittore-contadino
Francesco Giombarresi.
L'ipotesi più autorevole è, senz'altro, quella
di Biagio Pace, che qui non citiamo per tirannia
di spazio, ma la più «singolare» ci sembra, e
perciò la citiamo, quella di Salvatore Fiume;
secondo il quale l'origine della parola va
ricercata nel fatto che nei secoli passati sulla
nostra città avrebbe infierito la meningite che,
come si sa, colpisce di preferenza l'infanzia. I
«curputi» portavano sui volti, inesorabilmente
impressi, i segni caratteristici della deficienza:
bocca aperta e cascante, scoli di muco e bava,
occhio imbambolato, espressione sorridente. Le
mamme vestivano queste loro creature e, nelle
belle giornate, le mettevano sedute al sole ad
asciugare. Di tanto in tanto le labbra e la
lingua si muovevano per mandare qualche suono.
Naturalmente, da questo suono alla denominazione
del «lollo» non c'era che un passo.
Prima
di chiudere questa nota etnografica, sentiamo il
dovere di avvertire il lettore forestiero che la
«singolarità» investe la denominazione della
nostra città anche dal punto di vista
dell'accento tonico: pensi quale sarebbe il suo
stupore se, per assurda ipotesi, venisse a sapere
che Treviso, parola accentuativamente piana per
vocazione, si pronuncia, con sdrucciolo, «Trèviso
». Ebbene sappia il nostro lettore che Comiso è
parola sdrucciola, contro ogni legge di natura e
di grammatica!
A questa pronunzia i forestieri hanno sempre
opposto un rifiuto viscerale: per essi Comiso è
stata ed è «Comìso». Se c'è stata qualche
resa all'evidenza, è stata parziale, nel senso
che lo scorrimento dell'accento è stato
compensato con una metatesi: dunque «Còsimo»!
Facciamo
due passi per la città: nelle principali
arterie, che si snodano a serpentina, sfociano
centinaia di stradette laterali che, a loro
volta, si spezzettano in un labirinto di
vicoletti e straducole.
Parte di esse scendono al centro attraverso
gradinate, parte attraverso scivoli con pendenze
fino a trenta gradi: si tratta, in fondo, di
vecchie gradinate che, nella parte mediana, sono
state colmate per mezzo di massicciate e colate
di cemento. Come nelle acrobazie dei circhi
equestri, lungo questi scivoli salgono e scendono
spericolati motociclisti. Nelle strade il
traffico si svolge in modo caotico, disseminate
come sono di impedimenti di ogni specie:
impalcature e attrezzature di muratori, caldaie e
fornaci di catramatori, scale mobili di
elettricisti, sporgenze di palazzi patrizi che
avanzano a semicerchio o a triangolo.
I tamponamenti
sono frequenti e vengono denunciati da
automobilisti e ciclisti impazienti con
assordanti clangori di trombe, tra la curiosità
dei passanti e degli sfaccendati. Il frastuono
non manca neanche nel centro storico, ma non
sembra turbare il conte Naselli che, nell'ombra
della Chiesa di S. Francesco, sdraiato sul
proprio sarcofago, continua ad assaporare il
sonno ristoratore della morte.
Più in là si
vedono due immense cupole che torreggiano fra le
case come due chiocce tra frotte di pulcini.
Appunto, come i pulcini si stringono alla loro
chioccia i Comisani si stringono alla loro cupola
e si dividono in «Nunziatari» e «Matriciari ».
Tra i due schieramenti una profonda frattura: una
piaga che né i secoli né le autorità
ecclesiastiche sono riusciti a sanare del tutto.
Il lettore perspicace avrà di già rilevato che,
in fondo, i Comisani si battono per la medesima
Santa, considerata in due momenti diversi della
sua vita: della gioia e del dolore.
Il fatto è che la contrapposizione dei due
blocchi non è soltanto di origine religiosa, ma
anche sociale e politica e assume sfumature
diverse secondo gli istituti politici e sociali
delle varie generazioni. Il risultato è che
all'antagonismo religioso corrisponde un
antagonismo politico, e di conseguenza la
politica spicciola delle due sacrestie non
coincide con le disposizioni che vengono
dall'alto; con grande scandalo delle autorità,
sia politiche che religiose, della provincia,
della regione e della nazione.
L'antagonismo
fra le parti esplode in occasione dei
festeggiamenti delle due Chiese, che si svolgono
per i Nunziatari a Pasqua e per i Matriciari la
terza domenica di maggio (San Biagio, il Patrono
della città, è fuori causa. Una festicciuola,
beninteso, si farà anche per Lui, ma a luglio,
quando gli animi si saranno calmati). Le armi di
questa guerra sono le campane, i mortaretti e i
giuochi d'artificio. Vale la pena di specificare
che le bombe comisane hanno proporzioni fuori del
comune, pressapoco di un grosso salame napoletano:
da qui l'espressione «misura Comiso» usata
dagli artificieri della Sicilia quando fanno
riferimento ai mortaretti fatti costruire ad uso
esclusivo dei Comisani.
Quando, sistemati
in apposite casse, i mortaretti cominciano a
vomitare, tra fiamme e fumo, il loro contenuto,
la terra trema sotto i piedi della folla, il
cielo appare punteggiato di fumate e subito dopo
comincia l'apocalisse: alle esplosioni in cielo
fanno eco le castagnole in terra, che, sistemate
in lunghi nastri, sono divorate da una fiamma
bluastra che compie due volte il giro della
piazza.
Quando tutto è finito, una nube di fumo avvolge
il simulacro e la folla inebetita, mentre chi si
gode la festa dai balconi straripanti ha
l'impressione di affacciarsi sul cratere di un
vulcano.
Per le loro rispettive feste i Comisani sfoggiano
abiti di circostanza che permettono di
distinguere i «festanti» veri e propri dai «non
festanti».
Il forestiero che si trovasse a Comiso in
occasione della festa dell'Addolorata, resterebbe
stranito dinanzi ad una folla mista di persone
giulive vestite con vistosa eleganza, con altre
indifferenti e sbracate che indossano frusti
abiti da lavoro, mentre in qualche bottega ferve,
con insolita lena, il lavoro di artigiani di
parte contraria.
Fino
a qualche anno fa, a mezzogiorno del sabato santo
«si scioglieva la gloria», cioè si
scioglievano le campane dell'Annunziata e
cominciava uno scampanio assordante che durava
per ore. Sicché, mentre il resto del mondo
cristiano attendeva con animo afflitto la
resurrezione del Signore, a Comiso s'impazziva di
gioia per Gesù risorto, tra fragori di campane,
mortaretti e castagnole.
Ma tanto rumore, dopo secoli, giunse all'orecchio
del Santo Padre, il quale, per la verità, non
dovè mai capire perché nella nostra città si
festeggiasse, per Pasqua, l'Annunciazione di
Maria e non la Resurrezione del Signore.
Riguardo, poi, allo «scioglimento della gloria»
anticipato di un giorno, la sua decisione fu
drastica ed irrevocabile: a Comiso il Signore
sarebbe risorto nello stesso giorno e nella
stessa ora in cui risorgeva nel resto del mondo
cristiano!
(Nunzio Di
Giacomo)
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