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SCRITTI SU COMISO

In questa pagina vengono presentati scritti di due comisani:
- Salvatore Fiume (1920-1997)
- Nunzio Di Giacomo (1920-1988).

Lo scritto di Salvatore Fiume (pittore, scultore, scenografo, scrittore, poeta) è tratto dal romanzo
VIVA GIOCONDA, pubblicato nel 1943 e ristampato nel 1975 dalla casa editrice Mursia di Milano.

Lo scritto di Nunzio Di Giacomo (docente di lettere, poeta e romanziere) è tratto da COMISO VIVA,
opera corale dei comisani, promossa dalla Pro Loco cittadina, pubblicata nel 1976 e ristampata con ampliamenti nel 1996.


(Accendendo le casse acustiche in sottofondo
si può ascoltare il brano musicale"Fiume Ippari")






da VIVA GIOCONDA
(anno 1943)

Còmiso è circondata dai cavoli come Venezia dal mare.
Gli orti sono moltissimi e grandi, sì che l'ultimo cavolo si vede a metà perché laggiù la terra curva; se i cavoli viaggiassero come i velieri sul mare, piano piano, non li vedremmo più. Gli orti sono divisi in tanti scomparti da muriccioli, ponticelli e fossi, e sono concimati in ogni dove per mancanza di educazione.
Ma ai padroni conviene, perciò mettono cartelli di vietato il passaggio a seconda che preferiscano concimare una parte o un'altra dell'orto.

..................omissis......

La nostra terra, a volte, s'infoltisce tanta di grano, d'uva, di ortaggi, di carrubi, di olive e di frutta, che non bastano più braccia né carri per raccogliere tutto.
In quelle annate si arricchiscono perfino gli spigolatori e quanti raccolgono quel che rimane sparso per i campi dell'isola.

Quando si arriva a Natale con le cantine e i granai e le giare di ogni ben di Dio, i presepi delle due grandi chiese di Comiso, l'Annunziata e la Matrice, si trasformano in spettacoli giganteschi. I parrocchiani delle due basiliche fanno a gara nel creare lo spettacolo più sfarzoso per la Messa di mezzanotte.

Quella che avviene dentro le absidi dell'Annunziata e della Matrice è roba che può trovare un paragone soltanto nel trionfo dell'Aida al Teatro alla Scala di Milano.
Io che ho visto gli uni e l'altro non so davvero dire quale mi è sembrato più fantastico.
Al tempo in cui compivo dieci anni, Comiso assomigliava a Betlemme: la terra, la luce, il colore delle case e del cielo erano uguali a quelli della Giordania e della Palestina. C'erano la sabbia, i carrubi, gli ulivi millenari; le viti basse, le zone desertiche, i terreni riarsi, il caldo di giorno e il freddo di notte, proprio come laggiù.
I nostri carrettieri, col fazzolettone sotto il berretto, nelle giornate di sole somigliavano ai beduini e, la sera, coperti fino al capo erano ombre nere che correvano sotto la luna come la gente di laggiù.

Specialmente durante le feste di Natale il paese si trasformava tutto in un soukh: bancarelle canore, venditori scuri di pelle coi denti enormi, donne coperte fino al naso, famiglie intere fuori di casa popolavano gli stretti corridoi di pignatte e di torroni che serpeggiavano per il paese dalla parte bassa fino lassù a San Leonardo.
Il freddo sotto il sole era tipico di quelle giornate in cui si capiva la sofferenza del Bambino Gesù nato sulla nuda paglia.
Ci volevano sfarzo e ricchezze a profusione per pigliarci la rivincita su coloro che avevano perseguitato la Sacra Famiglia.
Ci volevano vestiti nuovi, di buona lana, di lusso. Bisognava vestire i bambini di quanti più orpelli vi fossero per protestare contro Erode e contro l'Impero Romano. A dispetto di costoro, infatti, i presepi, anche in tempi di carestia, erano stati carichi di oro, di frutta, di luce e di tappeti ricamati come se quell'avvenimento fosse stato festeggiato in casa di un re invece che fra gente umilissima la quale, in casa propria, chiudeva la giornata mangiando agli e carrube.

Erano infatti sbalorditivi quei presepi traboccanti di ricchezza negli altari delle chiese, mentre la stessa cosa non si vedeva negli interni delle case.
Solo chi non conosce la gente dell'isola non riesce a spiegarsi come un così grande contrasto possa far felici i cristiani. Col presepe, la cui abbondanza di ricchezza proveniva dalle povere case dei comisani, i cristiani si prendevano la rivincita sulla miseria a cui gli ebrei, Caifas, Pilato, Roma e tutti quelli che avevano perseguitato e crocifisso il Redentore, avevano costretto la notte di Natale il Figliuolo di Dio.

Pochi fra coloro che non sono delle mie parti possono immaginare come sembrano maestosi i poveri quando disprezzano la miseria e l'ingiustizia. Per chi li avesse voluti vedere, il Natale sarebbe stato il momento migliore.
I miei compaesani cominciavano con i primi di dicembre ad andare a vedere in chiesa coloro che lavoravano ai presepi. Gustavano la propria soddisfazione vedendo inchiodare tavole su tavole, cucire tele su tele, legare spaghi su spaghi, fino a veder colmare di colori e d'oro e di luci gl'interi altari maggiori, dalle più alte cornici al pavimento.

(Salvatore Fiume)





IL COMISO
da COMISO VIVA (anno 1976)

Il viaggiatore forestiero che, provenendo dalla Piana di Ragusa, imbocca, dopo aver attraversato un territorio tristemente piatto ed uniforme, il primo dei numerosi tornanti che scendono a valle, si trova, all'improvviso, di fronte ad un paesaggio arioso, profondo e vario; uno spettacolo naturale che i suoi occhi non riescono ad abbracciare in tutta la sua estensione: una valle ubertosa e variopinta, che a destra è chiusa dagli ultimi contrafforti degli Iblei, ma a sinistra si perde fino ad uno sfondo che comprende superiormente una fascia di volta celeste e, nella parte inferiore, una porzione del Canale di Sicilia, un nastro luminoso e sfumato che, per via della distanza, appare come una vibrazione di colori tra l'argento, l'azzurro ed il rosa.
Da questa altura sono visibili tre grossi centri urbani: Comiso, ai piedi del contrafforte, Vittoria, nel mezzo della valle, e, più lontano, Gela.

In quanto ai Comisani, dobbiamo dire che il tratto loro più spiccante è la singolarità. Si noti che dialettalmente la cittadina viene denominata con l'articolo: «u Comisu», cioè «il Comiso». Questo articolo viene usato con uno spirito che è ben diverso da quello con cui si nominano personalità illustri, come ad esempio il Tasso, il Manzoni, il Verga..., e piuttosto suggerisce un'intenzione vagamente ironica, come se si volesse insinuare che ci troviamo di fronte a qualcosa di inconsueto e «singolare». Comiso, appunto, sembra voler denunciare la propria congenita «singolarità» attraverso l'articolo che precede il suo nome.

Non ci risulta che ci siano esempi analoghi. Né si obietti che in Italia ci sono città, come La Spezia, L'Aquila, che pure sono precedute dall'articolo: si badi che l'articolo che precede Comiso è maschile!, mentre i nomi di città, sia nella lingua madre sia nel dialetto siciliano, sono, di regola, di genere femminile. Comiso compresa! Così, ad esempio, si dice «la bella Comiso» in italiano, «u beddu Comisu» nel nostro dialetto.
Sia chiaro, però, che questa medesima espressione acquista un significato differente se è pronunziata da un forestiero o da un comisano: se un forestiero dice «la bella Comiso», egli vuol dire che Comiso è bella e basta; se invece è un comisano a dire «u beddu Comisu», lo fa col tono con cui, riferendosi ad una canaglia, direbbe «un bel galantuomo!».
Il comisano, dunque, fa dell'ironia su se stesso, come Cirano di Bergerac; ma contrariamente al famoso nasuto e spadaccino di Francia, e perciò superandolo in «singolarità», permette anche agli altri di farne su di lui. Difatti rimane imperturbato di fronte ad un secolare giudizio secondo il quale egli, per natura, è «lollu»: «cumisaru lollu» ovvero «lollu cumisaru» si dice, come se le due parole formassero un binomio indissolubile.
Lo scrivente ha assai meditato sull'origine etnologica e psicologica della parola «lollu», dato che i Comisani, lungi dall'essere sciocchi e deficienti, sono, per universale riconoscimento, impareggiabilmente abili e scaltri nel commercio, nel condurre affari e trattative.
In proposito ha interpellato molti comisani illustri, dall'archeologo Biagio Pace al pittore Salvatore Fiume, dal ceramista Salvatore Meli al cantante Salvatore Adamo, dall'incisore Nunzio Gulino al Generale Pelligra, al pittore-contadino Francesco Giombarresi.
L'ipotesi più autorevole è, senz'altro, quella di Biagio Pace, che qui non citiamo per tirannia di spazio, ma la più «singolare» ci sembra, e perciò la citiamo, quella di Salvatore Fiume; secondo il quale l'origine della parola va ricercata nel fatto che nei secoli passati sulla nostra città avrebbe infierito la meningite che, come si sa, colpisce di preferenza l'infanzia. I «curputi» portavano sui volti, inesorabilmente impressi, i segni caratteristici della deficienza: bocca aperta e cascante, scoli di muco e bava, occhio imbambolato, espressione sorridente. Le mamme vestivano queste loro creature e, nelle belle giornate, le mettevano sedute al sole ad asciugare. Di tanto in tanto le labbra e la lingua si muovevano per mandare qualche suono. Naturalmente, da questo suono alla denominazione del «lollo» non c'era che un passo.

Prima di chiudere questa nota etnografica, sentiamo il dovere di avvertire il lettore forestiero che la «singolarità» investe la denominazione della nostra città anche dal punto di vista dell'accento tonico: pensi quale sarebbe il suo stupore se, per assurda ipotesi, venisse a sapere che Treviso, parola accentuativamente piana per vocazione, si pronuncia, con sdrucciolo, «Trèviso ». Ebbene sappia il nostro lettore che Comiso è parola sdrucciola, contro ogni legge di natura e di grammatica!
A questa pronunzia i forestieri hanno sempre opposto un rifiuto viscerale: per essi Comiso è stata ed è «Comìso». Se c'è stata qualche resa all'evidenza, è stata parziale, nel senso che lo scorrimento dell'accento è stato compensato con una metatesi: dunque «Còsimo»!

Facciamo due passi per la città: nelle principali arterie, che si snodano a serpentina, sfociano centinaia di stradette laterali che, a loro volta, si spezzettano in un labirinto di vicoletti e straducole.
Parte di esse scendono al centro attraverso gradinate, parte attraverso scivoli con pendenze fino a trenta gradi: si tratta, in fondo, di vecchie gradinate che, nella parte mediana, sono state colmate per mezzo di massicciate e colate di cemento. Come nelle acrobazie dei circhi equestri, lungo questi scivoli salgono e scendono spericolati motociclisti. Nelle strade il traffico si svolge in modo caotico, disseminate come sono di impedimenti di ogni specie: impalcature e attrezzature di muratori, caldaie e fornaci di catramatori, scale mobili di elettricisti, sporgenze di palazzi patrizi che avanzano a semicerchio o a triangolo.

I tamponamenti sono frequenti e vengono denunciati da automobilisti e ciclisti impazienti con assordanti clangori di trombe, tra la curiosità dei passanti e degli sfaccendati. Il frastuono non manca neanche nel centro storico, ma non sembra turbare il conte Naselli che, nell'ombra della Chiesa di S. Francesco, sdraiato sul proprio sarcofago, continua ad assaporare il sonno ristoratore della morte.
Più in là si vedono due immense cupole che torreggiano fra le case come due chiocce tra frotte di pulcini. Appunto, come i pulcini si stringono alla loro chioccia i Comisani si stringono alla loro cupola e si dividono in «Nunziatari» e «Matriciari ».
Tra i due schieramenti una profonda frattura: una piaga che né i secoli né le autorità ecclesiastiche sono riusciti a sanare del tutto. Il lettore perspicace avrà di già rilevato che, in fondo, i Comisani si battono per la medesima Santa, considerata in due momenti diversi della sua vita: della gioia e del dolore.
Il fatto è che la contrapposizione dei due blocchi non è soltanto di origine religiosa, ma anche sociale e politica e assume sfumature diverse secondo gli istituti politici e sociali delle varie generazioni. Il risultato è che all'antagonismo religioso corrisponde un antagonismo politico, e di conseguenza la politica spicciola delle due sacrestie non coincide con le disposizioni che vengono dall'alto; con grande scandalo delle autorità, sia politiche che religiose, della provincia, della regione e della nazione.

L'antagonismo fra le parti esplode in occasione dei festeggiamenti delle due Chiese, che si svolgono per i Nunziatari a Pasqua e per i Matriciari la terza domenica di maggio (San Biagio, il Patrono della città, è fuori causa. Una festicciuola, beninteso, si farà anche per Lui, ma a luglio, quando gli animi si saranno calmati). Le armi di questa guerra sono le campane, i mortaretti e i giuochi d'artificio. Vale la pena di specificare che le bombe comisane hanno proporzioni fuori del comune, pressapoco di un grosso salame napoletano: da qui l'espressione «misura Comiso» usata dagli artificieri della Sicilia quando fanno riferimento ai mortaretti fatti costruire ad uso esclusivo dei Comisani.
Quando, sistemati in apposite casse, i mortaretti cominciano a vomitare, tra fiamme e fumo, il loro contenuto, la terra trema sotto i piedi della folla, il cielo appare punteggiato di fumate e subito dopo comincia l'apocalisse: alle esplosioni in cielo fanno eco le castagnole in terra, che, sistemate in lunghi nastri, sono divorate da una fiamma bluastra che compie due volte il giro della piazza.
Quando tutto è finito, una nube di fumo avvolge il simulacro e la folla inebetita, mentre chi si gode la festa dai balconi straripanti ha l'impressione di affacciarsi sul cratere di un vulcano.
Per le loro rispettive feste i Comisani sfoggiano abiti di circostanza che permettono di distinguere i «festanti» veri e propri dai «non festanti».
Il forestiero che si trovasse a Comiso in occasione della festa dell'Addolorata, resterebbe stranito dinanzi ad una folla mista di persone giulive vestite con vistosa eleganza, con altre indifferenti e sbracate che indossano frusti abiti da lavoro, mentre in qualche bottega ferve, con insolita lena, il lavoro di artigiani di parte contraria.

Fino a qualche anno fa, a mezzogiorno del sabato santo «si scioglieva la gloria», cioè si scioglievano le campane dell'Annunziata e cominciava uno scampanio assordante che durava per ore. Sicché, mentre il resto del mondo cristiano attendeva con animo afflitto la resurrezione del Signore, a Comiso s'impazziva di gioia per Gesù risorto, tra fragori di campane, mortaretti e castagnole.
Ma tanto rumore, dopo secoli, giunse all'orecchio del Santo Padre, il quale, per la verità, non dovè mai capire perché nella nostra città si festeggiasse, per Pasqua, l'Annunciazione di Maria e non la Resurrezione del Signore.
Riguardo, poi, allo «scioglimento della gloria» anticipato di un giorno, la sua decisione fu drastica ed irrevocabile: a Comiso il Signore sarebbe risorto nello stesso giorno e nella stessa ora in cui risorgeva nel resto del mondo cristiano!

(Nunzio Di Giacomo)






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