COMISO E COMISANI
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le casse acustiche
in sottofondo si può ascoltare
"Inno a Comiso")
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SCRITTI SU COMISO
Questa
sezione contiene scritti di Comisani e di frustieri
che hanno come soggetto 'u
paisi 'u Comisu.
Lo
scopo è dare un quadro, il più ampio ed
esauriente possibile, dell'evoluzione del paese,
del modo di vivere e dei costumi nonché del
carattere dei Comisani.
Si
comincia col presentare in questa pagina due
scritti di Gesualdo Bufalino (1920-1996), il cantore di
Comiso e
il laudator della vita
di paese:
- il saggio "UNA CITTA'-TEATRO", scritto per COMISO
VIVA (anno 1976);
- una parte della
presentazione del libro di fotografie "COMISO
IERI" (anno 1978), nella quale si dà
un'immagine della Comiso del periodo che va dagli
ultimi decenni dell' '800
ai primi decenni del '900.
Nelle tre pagine
seguenti ci sono scritti di
Salvatore Lauretta Cassisi, Fulvio Stanganelli
(can. Raffaele Flaccavento), Biagio Pace,
Raffaele Umberto Inglieri, Salvatore Fiume e
Nunzio Di Giacomo.
Infine c'è una pagina contenente scritti di frustieri
(abate Vito Amico, abate Paolo Balsamo,
prof. Giovanni Lorenzoni, padre Filippo Rotolo,
mons. Giovanni Battaglia).
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da COMISO
VIVA
UNA CITTA'-TEATRO
(anno
1976)
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Probabilmente è vero per mille altre città, ma
a me piace credere che solo a Comiso (e non parlo
solo della Comiso d'ieri) ogni cosa si componga e
respiri, per naturale destino, in un'aria di
perpetua e volubile e lieta invenzione e
improvvisazione scenica.
Già la stessa planimetria urbana, così mossa e
pittoresca, nel suo intreccio di saliscendi e
gradoni disposti fra monte e piano, appare come
uno scenario già pronto, offerto alle sorprese e
alle peripezie dello spettacolo: strade come
quella di S. Leonardo, affondata e prigioniera
fra due siepi di ballatoi giganteschi; viuzze
come le tante che riversano i loro ruscelli di
scale fin sul Corso della Grazia; piazze dal
profilo avventuroso e vivace come quelle del
Municipio e delle Erbe; vie e piazze tutte
sembrano proporsi come fondali e quinte ideali
per i quotidiani mimiambi della vita cittadina.
Qui, infatti, ogni persona tende senza sforzo a
diventare personaggio; ogni gesto si accalora e
si illumina di enfatica fuoco. Recita il
venditore al mercato, quando decanta la propria
merce e provoca con improperi e strammotta
il rivale e il cliente; recita il bevitore,
seduto a un tavolo d'osteria e impegnato
nell'antico gioco del tocco, durante il
quale, secondo che gli accada di essere sutta,
patruni, urmu, si esibisce in una
complessa pantomima di ipotesi, promesse,
scherni, dispetti, declamazioni.
E non somiglia a un duetto drammatico quello che
si svolge ogni giorno fra la comare e
l'ambulante, mentre entrambi tirano, da una parte
e dall'altra, sul prezzo?
E il sensale che sollecita, implora,
s'inginocchia, bestemmia, afferra per un braccio
ora l'uno ora l'altro dei due recalcitranti non
sembra seguire un vetusto e sempre nuova copione?
E il mendicante? E l'innamorato?Comiso, città-teatro,
dunque. E tanto apparirà più plausibile questa
formuletta, ove si voglia servirsene per "leggere"
e interpretare le occasioni più intense di vita
pubblica che la città periodicamente regala.
Vogliamo parlare della feste religiose e delle
contese elettorali. Come altrove, vige a Comiso
una secolare e memorabile guerra di santi. Quel
che però le conferisce da noi una sorta di
dignità letteraria è la presenza in essa di
talune ricorrenze rituali, quasi gli aristotelici
canoni di un teatrale duello.
Si veda, per esempio, a Pasqua, l'epico momento
della processione detto 'a paci,
quando i due simulacri del Cristo e della
Madonna, fra le acclarnazioni dei devoti e il
commento furioso delle bande musicali, si vengono
incontro a precipizio, come a voler mimare un
rinnovellato patta d'amore e di pace fra il
Figlio risorto e la Madre esultante.
Di queste paci,
rappresentate più volte nel corso della
Domenica, la più ricca di sapore è naturalmente
quella che, a sfida, i Nunziatari effettuano
proprio di fronte alla Basilica rivale della
Matrice, in un sinuoso e angusto serpente di
strade, che dai tempi della guerra libica ha
preso il nome di Stretto dei Dardanelli.
Altri atti e consuetudini di festa, come 'a
caruta 'a taledda,
'a notturna, 'a
sittina 'a Matrici, 'a
sciuta 'a Maronna, dimenticate
le originarie motivazioni della pietà religiosa,
sopravvivono per fornire tragicomica materia di
orali e, perchè no, manuali diverbi fra l'uno e
l'altro partito, ciascuno congiurante all'ombra
della propria parrocchia.
Il culmine e il fragoroso clima dello scontro si
ha infine la sera, nell'ora dei fuochi
d'artificio, quando, dopo ogni crudele boato,
risuona, rivolto al nemico, il grido
provvisoriamente trionfale: "Va falla!"
( "va' a farne un'altra uguale": di
feste, cioè). Attrice e spettatrice insieme, la
popolazione è in queste circostanze coinvolta
così pienamente e tirannicamente nella liturgia
dello spettacolo, da ricordare talune
odiernissime modalità del teatro spontaneo,
rivolte, appunto, a distruggere ogni diaframma
fra scena e platea.
Nè altro scopo, in fondo, si prefiggevano i
giochi e le prove di destrezza, inclusi fino a
qualche diecina d'anni fa nei programmi di
festeggiamento di ciascuna solennità e aperti
alla partecipazione estemporanea di questo o di
quel cittadino.
Così la seconda domenica d'agosto, per S.
Leonardo, aveva luogo il gioco del gallo: un
gallo vivo, attaccato a una corda che tenevano
alle estremità due volenterosi, veniva fatto
altalenare a incerta portata di mano dei
contendenti, finché uno di loro con un balzo più
fortunato fosse riuscito a conquistarlo.
Per l'ottava di San Biagio il gioco
dell'antenna esibiva un gran paniere di 'mpanati
e cosaruci
in cima a un palo malignamente unto di
grasso, su cui bisognava arrampicarsi a furia di
muscoli per riuscire vittoriosi.
Infine, per San Francesco, si poteva assistere al
gioco delle tre pentole, una piena di cenere, una
d'acqua, una con cinque lire d'argento dentro. Il
concorrente, bendato e armato di un bastone,
menava colpi alla cieca col rischio di venire
investito da una cascata importuna, prima di
sentire sul selciato il tintinnio consolante
della moneta. Desuete, oramai, codeste occasioni
ingenue di compromissione corale, non perciò la
festa ha perduto il suo connotato di happening
mimico e gestuale: un happening enorme
e collettivo, straripante di colori, odori,
sapori, rumori, rossori, occhiate di fuoco,
strilli di neonati, balconi infiorati, fulgori di
minigonne...
Non diversamente le lotte politiche, pur nella
gravità e nel confronto appassionato delle
ragioni ideologiche, non si sottraggono a una
tentazione di giostra e di gioco. Quindi ogni
comizio finisce con l'esser giudicato dagli
intenditori come un minuscolo assolo di un'ora,
durante il quale il vecchio o inedito oratore si
esibisce sul podio come un tenore alla ribalta.
E le scadenze elettorali diventano pretesto di
ghiotti battibecchi fra i verseggiatori delle
opposte fazioni e seminano di foglietti
multicolori i selciati, secondo un moto perpetuo
di botte e risposte, la cui innocente ferocia si
dimentica dopo un minuto. Peccato, dunque, che il
Teatro Comunale, il quale avrebbe potuto offrire
a una tale predilezione cittadina la sede più
propria, levi inutilmente al cielo la sua
deliziosa e intatta facciata neoclassica, a
schermo dei muri e dei soffitti crollati.
Eppure, prima dell'odierno abbandono, che ci si
augura non definitivo, il teatro conobbe ore di
gloria. Vi cantò la celebre Patti, il grande
Anselmi, vi recitarono i più illustri attori
dell'isola. L'opera lirica, del resto, ha sempre
goduto le simpatie dei comisani; ed è rimasto
leggendario il viaggio a piedi compiuto a Modica,
alla fine del secolo scorso, per ascoltare la
"Forza del destino", da una brigata di
amici (Don Leli Cipudda, Don Pippinu Malandrinu...
). Senza
parlare dei tradizionali concerti domenicali che
fino a pochi anni fa venivano seguiti dai fedeli
con religioso trasporto. Erano, quelli, tempi
meno frenetici dei nostri e la vita offriva pause
e anse di riposo, come un grande fiume lento.
Tutti conoscevano tutti. E se nei cortili, in un
odore imperioso di vivande, una faccia nuova
appariva fra i panni distesi, bastava a popolare
d'occhi tutti i davanzali e le porte.
Poco occorreva per sconvolgere la trama grigia
della noia di provincia: un ghiribizzo, uno
scarto dalla norma delle cose, un granello di
momentanea pazzia, una burla. Ecco, appunto, la
burla di paese, complottata da oziosi farmacisti
o notai, nella sua crudezza spesso fescennina,
mescolava in dosi sapienti il risaputo carattere
ludico a un sospetto di consapevole volontà
creativa: quasi che l'autore della burla e i suoi
complici volessero disegnare attorno alla vittima
ignara quello spazio irreale destinato alla
finzione che è il luogo deputato dell'evento
teatrale.
Ma le burle, dopotutto, erano spassi da borghesi.
I poveri, i vecchi contadini, disposti a crocchio
in piazza, la domenica sera, intenti ad aiutare
coi gesti il loro gergo malinconico e arcano, si
contentavano di molta meno: un guizzo, lo scherzo
impulsivo e futile di uno, una mossa di scherma
fittizia, una frase: "tiriti 'n
panza", ed ecco si scioglieva
per un momento il loro groppo antico di
rassegnata tristezza in un sorriso, in un riso,
in un clamore finalmente felice. Più facile, certo,
sorridere o ridere, per i ragazzi: angeli
spettinati dalle mani colme di fionde,
lentigginosi ladri d'uva, andavano (vanno ancora?)
a cogliere l'ariadduci lungo
i greti secchi dell'Ippari, oppure a spaventarsi
di fronte al buco notturno della funebre Cava
'o Purcaru; inventavano (inventano
ancora?) un'Iliade fra le nuvole, in un turbine
di vento udivano il battito d'ala dell'Ippogrifo.
Poichè il ragazzo
è naturalmente portato a collocarsi in una
dimensione posticcia; a fingersi altro da sè.
Che è poi il fondamento di ogni destino d'attore.
Per cui non vi è gioco infantile, da Signuri
e cummari a Scardulli e
capitani, che non contenga un seme
di contraffazione e d'inganno, che non sia, cioè,
teatro: abbozzo minimo, ideale relitto di una
commedia che nessuno scriverà. Chè se dunque vi
accada, passando accanto a un tumulto di ragazzi,
di ascoltare le loro voci a gara, come una rissa
d'uccelli, non affrettate il passo ma sedetevi su
un muricciolo, con la gravità necessaria. Non è
improbabile che sotto i vostri occhi si celebri
una gesta di paladini e che Orlando sia propria
lui, quel mingherlino dai gomiti feriti, che
s'avanza per la campagna, cancellando sotto il
calcagno le lunghe file di formiche rosse.
E infine le stagioni, le
ore.
Sì, perchè da
noi anche il tempo possiede la volubilità
dell'istrione, il senso della sorpresa, del colpo
di scena, della battuta fulminea. Soprattutto in
primavera, quando le giornate si fanno inquiete e
il sangue oscilla fra subbuglio e torpore.
Allo stessa modo la nostra aria da un momento
all'altro trapassa dal torrido al gelido, si
accende di collere tanto improvvise quanto
effimere. E non è difficile che allo scirocco
africano che viene, furioso e languido, a
gremirci di sabbia e di locuste morte le soglie,
subentri d'un tratto il levante, gagliardo e
diaccio, che agguanta i passanti alle spalle e li
scaglia contro i muri, a cercar riparo nei
corrimani di ferro. Il vento è infatti il
regista estroso e arrogante delle nostre giornate:
sia quando cala dal Nord ('a pruvenza)
ed è un nero, ipocondriaco vento caro ai
suicidi; sia quando soffia da ponente, fresco,
sottile, e rapisce i capelli, occhieggia sotto le
vesti, impiglia rondini e foglie come in un
luminoso tranello.
Ma un altro vento noi abbiamo, che non sembra
provenire da nessun punto dall'orizzonte, ma è
nostro, quasi generato da un mulinello
particolarissimo d'aria sul nostro capo, qui ai
piedi del monte, dove i carrubi si arrendono ai
vigneti della pianura. E', questo vento, 'a
vîscia: un umidiccio pugnale che
tortura le ossa dei vecchi e costringe i baveri a
impennarsi sui colli magri degli adolescenti.
Accompagnata e
scandita da codesti venti, la nostra vita così
trascorre secondo un'immutabile coreografia di
alluvioni e canicole, di sabati alleriacori
e di domeniche tristi. L'estate scoppia come un
finimondo, crolla sopra le palpebre con tutto il
suo peso di rupe, ci addormenta mansueti come
uccisi, nella polvere del solstizio. Ci aspetta
poi il tempo dei crepuscoli brevi, l'agonia
viscosa delle ultime mosche. Già il lupo mannaro
erra per le strade deserte, nessuno ha pietà di
chi bussa in questa ora di ladri. Bisognerà
aspettare nientemeno che febbraio perchè
l'inverno finisca e si possa tornare a
passeggiare da mezzanotte alle due, a contemplare
dalle terrazze le luminarie della luna. Ma è già
primavera, le vecchie braci si svegliano nelle
vene, la città ritrova i suoi gesti, le sue
maschere. Così
sole e pioggia lavano e asciugano la nostra terra
e la riconsegnano nuova per una recita nuova.
E passano gli anni, le generazioni mutano, un
nome ne scaccia un altro, un viso mai visto
occupa lo spazio di un viso scomparso, gli
annunci mortuari freschi di stampa rubano ogni
mattina un pezzetto della Comiso di ieri; poi si
scollano, pendono semilaceri, ripiegandosi su se
stessi, finchè la mano di un ragazzo o la
pioggia se li porta via.
Comiso sotterra i suoi morti, battezza i suoi
neonati, si sfolla e si ripopola, ogni volta
uguale e diversa. E ogni giorno, appena i
riflettori dell'alba si accendono sui tetti, e
dal fondo dei rioni un canto di gallo superstite
si avventa a lacerare il cielo, nel momento in
cui il più mattiniero dei comisani si affaccia
sull'uscio a salutare il più nottambulo che
rincasa, in quell'istante medesimo è come se un
occulto lontanissimo gong desse il segnale
d'inizio di uno spettacolo mai udito (farsa o
dramma, chissà?) davanti ad una sterminata
platea. Il
sipario si alza. Tra un minuto si ricomincia.
(Gesualdo
Bufalino)
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da COMISO
IERI
Immagini di vita signorile e rurale
(anno 1978)
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Comiso è un paese nell'estremo lembo della
Sicilia orientale, cresciuto secolo dopo secolo
ai piedi degli Iblei, nel punto in cui il monte
perde vigore e s'arrende ai vigneti e ai seminati
della pianura.
Le case - nane, tozze, ma le rallegra agli
stipiti un'improvvisa pergola di gelsomino - in
parte salgono verso i primi carrubi della costa;
in parte si sporgono sul greto dell'Ippari,
ridotto ormai da pozzari e ladri d'acqua
a una ruga sottile e secca; in parte fanno ressa
e cicaleccio attorno a un'antica fontana.
Qui la gente è (ma bisogna forse già dire era)
d'indole operosa, di sangue tiepido e savio, non
senza qualche goccia di calcolo, di avarizia:
disposta perciò a far festa piena, indigestioni
comprese, non più di due volte l'anno, in
occasione delle solennità rivali dell'Annunziata
e dell'Addolorata, e anche allora solo per non
sfigurare, nella propria ironia e misura ionica,
al paragone con le baldanze della vicina Vittoria.
Che poi duemila anni fa su quel monte le api
distillassero un miele famoso nei libri;
e su quel fiume viaggiassero grandi barconi da
carico diretti a Camarina; e le linfe di quella
sorgente alimentassero terme ornate di Nereidi in
mosaico di cui taluna è sopravvissuta: tutto
questo lo sanno a malapena i professori di
ginnasio, la gente non ha motivo né tempo per
impararlo.
Meno ancora ne aveva alla fine del secolo scorso,
quando - non mettendo nel conto i membri delle
poche famiglie di titolati e di benestanti -
l'intera popolazione, senza pregiudizio d'età,
stava a sudarsi la vita nei campi, ovvero, ed era
segno di gloriosa promozione, in un mestiere da
bottega, con l'insegna sopra la porta.
E'
difficile oggi per noi, che soffriamo da un
giorno all'altro le accelerazioni e i su e giù
della storia, immaginare quale dovesse essere la
vita in un borgo alla periferia del Regno, quasi
un secolo fa, al tempo dei lampioni.
Poiché, se è vero, come si legge in qualche
posto, che la forma di una città muta più
rapidamente del cuore di un uomo, è vero
altrettanto che non solo la forma, ma l'odore e
il colore e il respiro di una città ad ogni
istante si fanno diversi. Sicché nessuna
testimonianza a futura memoria - effemeridi,
cartoline illustrate, oggetti d'uso museificati
nelle bacheche, epitaffi sbiaditi nei camposantí
- saprebbe mai risuscitare quell'ineffabile
amalgama di mimiche, gerghi, tics, portamenti,
massonerie, di cui s'è costruito in un certo
luogo e in un certo momento, il volto di una
comunità. (Forse è per questo che la morte di
un vecchio ci turba talvolta più di quella di un
giovane. Tanto essa rassomiglia a uno spreco, a
uno scandalo, allo scempio; per così dire, di
una memoria colma e veneranda, la cui estinzione
impoverisce il mondo. Ed è forse qui il nodo di
quel conflitto rituale fra i padri e i figli, fra
le generazioni che ricordano e quelle che sperano:
in questo non sapersi, da parte degli uni,
rassegnare alla presunzione degli altri che il
passato sia solo un'enorme massa damnationis che,
come il cadavere della commedia di Ionesco, si
moltiplica, imputridisce, non si sa come
liberarsene... ).
Comiso, dicevamo, al tempo dei lampioni.
Un paese da Sicilia amara, come tanti. Col suo
sempre ricominciato e deluso impegno di
sopravvivere; i suoi lutti e lacrime e fami; i
suoi cerimoniali di sangue e di morte.
Si moriva facilmente a Comiso, allora. Si moriva
quando la piena invernale tramutava i declivi
delle strade in alvei di fiumi senza freno, che
scalzavano talvolta i muri di tufo e se li
portavano via.
Si moriva d'inedia e di stenti, come durante la
carestia del '95, quando la popolazione si
ridusse a nutrirsi quasi esclusivamente di
carrube. I semi delle quali ('i vicci)
col passare dei giorni si ammucchiarono sul
selciato a tal punto che sembrava - così dice il
più vecchio del paese - di camminare sulla
ghiaia di un vialetto di Villa Bellini (e meno
male che una provvidenziale passa di
sarde, davanti a Scoglitti, ne rovesciò
carrettate sui banchi della pescheria,
abbassandone il prezzo fino a due soldi il chilo).
Ma si moriva soprattutto di miseria, era lei che
nutriva contagi e pestilenze come le uova di cova
della morte: dagli acquitrini di Passoladro, dai
pantani del Dirillo (a Duriddu - tinta la
matri ca ci manna lu figghiu... ), vaporava
la nube nera della malaria; da Malta veniva la melitenza;
da Lentini la pirniciusa; da dovunque
altri morbi e calamità, meno ricorrenti ma
spesso più letali.
Il colera del 1854 non aveva guardato in faccia
nessuno, s'era portati via, accanto ai poveri,
incredibilmente, anche i signori. 'U capu
Piliria (il comandante Pelligra, un notabile
del tempo) perì, si disse, per aver fiutato
tabacco da una tabacchiera non sua, scambiata di
soppiatto e riempita di tossico ad opera di un
untore nemico (dodici anni prima Manzoni aveva
pubblicato la Storia della colonna infame, ma
a Comiso con evidenza non l'aveva letta nessuno).
In tempi più recenti superstizioni consimili
accompagnarono le stragi della spagnola e
le sue inesplicabili predilezioni ed esclusioni.
Si moriva spesso, ripetiamo. E per giunta si
moriva assai presto. Fin dalle fasce i bambini
dovevano inevitabilmente affrontare, per durare,
qualcosa di simile alle sette piaghe d'Egitto:
difteriti, esantemi, dissenterie, scrofole,
tracomi, vermi solitari. Era abbastanza
frequente, per le strade, lo spettacolo di
ragazzi rasati come forzati della Caienna, col
capo cosparso di croste, con gli occhi viscosi di
cispe, che le madri, in anticipo su Fleming,
curavano lavandoli nell'acqua dell'abbeveratoio,
stagnante fra muffe dalle miracolose virtù.
Quando poi il bambino moriva, si badava a farne
un altro e non ci si piangeva su oltre il
necessario. Salvo che una famiglia, più
facoltosa, non decidesse di affidare a uno
scalpellino-scultore l'erezione di un monumentino
a ricordo della giovane esistenza interrotta:
come avvenne al piccolo Giuseppe Molè Cesareo,
la cui goffa figuretta di sasso, con
l'abbeccedario sottobraccio, intenerisce ancora
chi passa il giorno dei morti lungo un viale del
cimitero locale; e com'era avvenuto, tanto più
sontuosamente, al barone Michele di Passanitello,
morto nel 1813 a soli sette anni ed
effigiato in altorilievo su una parete interna
della Chiesa Madre.
Responsabile immediato di lutti tanto precoci -
se vogliamo tenerci all'epidermide delle cose e
tacere colpe più lontane di uomini e ordinamenti
- era lo stato dei servizi igienici, venutosi
sempre più degradando a mano a mano che il
villaggio s'era ingrossato a paese e da paese
prometteva di diventare città.
L'acqua abbondava, sì, nella benefica Fonte
Diana, ma bisognava comprarla, dentro orci e quartare,
dagli ambulanti acqualuori, sicché
l'uso ne era assai parco.
Si aggiunga l'imprudenza, da parte dei contadini,
di far focolare comune con asini e muli, i cui
escrementi venivano conservati gelosamente per
venderli come concime.
Infine, tenuto in un angolo della stanza, spesso
l'unica, dietro un siparietto di tela e sotto un
sudicio panno, v'era in ogni abitazione un tristo
mobile di coccio ('a cascitta), che
la madre di famiglia vuotava due volte al giorno
entro la buca del pozzo nero, posta proprio
dietro l'uscio e protetta, come l'ingresso
dell'Ade, da una grossa pietra rotonda.
Molte famiglie che non possedevano nemmeno
questo, gettavano all'alba davanti alla soglia i
rifiuti, in attesa che passasse a raccoglierli,
con un asino e due gerle di canne e verghe
d'ulivo intrecciate, 'u fumiraru.
Più fortunati i nobili, che potevano adibire
a privato un pensile casotto di legno ed
esibirlo, da una estremità del balcone, sulla
testa dei passanti.
Un paese infetto, dunque, un paese infelice.
Un'economia chiusa, inerte, di poco respiro. E
tanta indigenza. Si racconta che per risparmiare
il petrolio del lume taluno andasse a dormire al
buio, aiutandosi con una corda legata a un piede
del letto.
E che, talvolta, invece di bara, bastassero
quattro assi di legno a squadra, inchiodate alla
meglio. Così, su un dorso di mulo, fu portata
dal fratello e lasciata davanti ai cancelli
dell'obitorio, una povera paralitica, Peppa 'a
modda, non molto più di mezzo secolo fa.
In quanto alle altre morti, vogliamo dire le
morti per forza, accadevano anche quelle, ma
rade, e mai secondo i modi e gli editti di quello
spirito di cosca, le cui malerbe si
respirano un po' dovunque nell'isola, ma qui (sarebbe
utile accertare per quali ragioni di etnos,
economia e storia) sono pressoché sconosciute.
Poiché qui, sulle guardate oblique e le mezze
parole e i baci di Giuda - fin troppo pubblicata
semiotica della minaccia mafiosa - fa aggio il
clamore del gesto impulsivo, il rosso di squillo
dello scontro e dell'affronto leale; e sempre
sotto la spinta del sentimento di un'offesa
patita, vera o presunta che sia. (Gesualdo
Bufalino)
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