tratto
da "MI RITORNA IN MENTE" di Caterina Bonanni. Terza Ed.
Luglio 1998. Prog.Graf. di G.Mazzini. Tutti i diritti riservati.
Usanze
ormai tramontate
I coscritti.
Quando i giovani
del paese venivano chiamati per il servizio di leva, quindici giorni
prima della partenza giravano il paese e, sotto le finestre delle
ragazze nate nello stesso anno, improvvisavano una serenata: “A Caterina
a l’è en ta leve e vuremu da beive e de quer bon”[8] Noi ragazze dovevamo
quindi consegnare loro un fiasco di vino buono da consumare la vigilia
della partenza con salsicce e berodi.[9]
Er varcu -
Er pagittu.
Nel nostro paese
un tempo non era possibile trasportare le cose con mezzi meccanici,
l’unico mezzo era l’uomo. Non esistevano strade ma solo viottoli dove
si passava a malapena a piedi. Gli uomini si caricavano ogni peso
sulle spalle, le donne in testa; per non avere gli oggetti a contatto
della pelle , siano stati fasci di legna, strame per concimare la
vigna, bacinelle piene d’acqua, ceste d’uva, damigiane di vino ecc.
ecc., la testa veniva protetta dal “varcu” che consisteva in un grembiule
arrotolato nelle mani come un serpente e che aveva la funzione di
un cuscino. Si imparava molto presto ad usare il “varcu”; da bambini
con piccoli pesi e poi, man mano che si cresceva, sempre più pesanti
fino a raggiungere, per le donne, i quaranta chili e, per gli uomini,
il quintale. Quando si raggiungeva un certo equilibrio, si poteva
camminare anche senza tenere l’oggetto con le mani e le nonne, quando
andavano in campagna, riuscivano addirittura anche a fare la calza
col peso sulla testa. Scriveva il pittore Telemaco Signorini, nel
suo libro intitolato “Riomaggiore”, che non aveva mai visto donne
camminare con un portamento così eretto. Gli uomini invece per riparare
le spalle portavano il “pagittu” che era un sacco di iuta arrotolato
in modo tale che una parte fungeva da cappuccio e vi infilavano la
testa mentre l’altra parte appoggiava sulla spalla sotto il peso.
Questi due oggetti sono difficili da descriversi, sarebbe stato meglio
vederli fare da persone esperte, ma ormai non si usano quasi più.
Il bucato.
Fare il bucato ai
nostri tempi era un’impresa non da poco; si faceva una volta al mese
e, quando si trattava di lavare le lenzuola, noi donne eravamo impegnate
per tre giorni. Il primo giorno si andava con una bacinella contenente
le lenzuola nel canale. Il posto più frequentato era dopo il ponte
di “Lavacciu” oppure dalla casa dei “Paulò” ma si andava anche oltre;
c’erano dei laghetti e sulle rocce si insaponavano questi panni, si
giravano e rigiravano con le mani in tutti i punti, si sciorinavano
al sole e così insaponati si riportavano a casa. Eravamo scalze e
con i piedi e le mani sempre nell’acqua; certi inverni, e per fortuna
avveniva di rado, dovevamo rompere il ghiaccio per poter lavare. In
cucina avevamo un grosso mastello detto “cuncon”: era di terracotta
e in fondo aveva un buco dove si infilava un cannoncino che serviva
da drenaggio, sotto mettevamo un secchio per raccogliere l’acqua.
Dentro questo mastello si sistemavano le lenzuola che venivano ricoperte
da un panno che si chiamava “ bugaeu “ e serviva esclusivamente per
questo; ci si metteva poi sopra la cenere ricavata dal fuoco di legna
che fungeva da detersivo insieme a foglie di alloro. Nel frattempo
, in un recipiente detto “brunsin” si faceva bollire l’acqua che veniva
rovesciata sulle lenzuola. Questa operazione si ripeteva tante volte
(scei caudenti, scei scuttenti e scei bruscenti) finché l’acqua usciva
caldissima. Naturalmente si riciclava sempre la stessa, si lasciavano
riposare tutta la notte e il mattino seguente si riportavano al canale
per risciacquarli. Diventavano bianchissimi e profumati; questo lavoro
l’ho fatto da ragazza e per tanti anni ancora, poi vennero le lavatrici
e penso che, per noi donne, questo sia stato l’elettrodomestico che
più ci ha fatto risparmiare un sacco di fatica.
NOTE:
[8] La Caterina è una coscritta, vogliamo da bere di quello buono.
[9] Berodi = sanguinacci.