Johann Wolfgang von Goethe
(1749-1832) è soprattutto conosciuto come uno dei più grandi poeti romantici
tedeschi, eppure lo scrittore pensava che la sua più grande opera fosse Zur
Farbenlehre (1810), tradotta in inglese come Theory of Colours (1840). Nel
saggio, frutto di lunghi anni di lavoro, Goethe tenta di confutare l'experimentum
crucis di Newton.
Il
fisico tedesco Werner Heisenberg ha scritto che ogni grande scienziato è anche un poeta.
Eppure,
nel giudizio comune scienza e poesia costituiscono una antitesi irriducibile,
due poli opposti e incommensurabili esprimenti rispettivamente oggettività e
soggettività; mondo esterno, fisico, e mondo interiore, sentimentale;
razionalità ed intuizione; realtà e sogno.
Lo scienziato, il freddo misuratore
quantitativo della Natura, non può abbandonarsi al mondo della poesia, pena la
perdita della sua identità, così come il poeta, abituato a creare liberamente,
senza vincoli, un suo mondo, talora onirico, talora frutto di una
trasfigurazione "arbitraria" della realtà o, magari, di una
osservazione "ingenua" della stessa, risulta essere costituzionalmente
inadatto ad elaborare un procedimento scientifico.
E
chi meglio di Goethe (1749-1832), poeta, filosofo e scienziato, può
rappresentare il paradigma moderno? Come sempre, la strada per il
"futuro" parte da un preciso e selettivo recupero del
"passato", con tutti i limiti che i due termini assumono nel nostro
discorso.
Goethe,
in effetti, fu un essere totale e compiuto, simbolo, quasi sempre coerente, di
un mondo spirituale che si andava eclissando di fronte alla prevaricazione
dell'illuminismo e del materialismo Proprio il pregiudizio, a cui si accennava
all'inizio, circa l'inconciliabilità fra mentalità scientifica e mentalità
poetica, hanno fatto scrivere a molti che Goethe come naturalista fu un
dilettante che la scienza non può prendere in considerazione. In contrasto con
essi, altri studiosi della Natura, dal grande Heisenberg a Born e Heitler, per
quel che riguarda i fisici, e una fitta schiera di biologi dell'800 e del '900,
hanno trovato in Goethe l'impronta del vero scienziato, seppur atipico, ben
lontano dal semplice dilettante, così diffuso nel '700 illuminista
Per Goethe il colore è costituito di luce e tenebra (bianco e nero)
e non si può tener conto
esclusivamente delle caratteristiche fisiche della luce, ma è indispensabile
indagare sulle esperienze dell'anima che ogni colore è in grado di suscitare.
Osservando,
per esempio, un cerchio bianco su sfondo nero i colori assumeranno sul cerchio
una disposizione caratteristica
La
zona centrale del cerchio apparirà ancora bianca, mentre sul lato destro, al
confine con il nero dello sfondo, ma senza debordare in esso, apparirà una
orlatura di colore arancione intenso e nella parte più interna apparirà una
zona gialla.
La
regione giallo-arancione si presenta percettivamente come interamente diffusa
sulla superficie bianca del cerchio.
Sul
lato sinistro avremo verso l'esterno del cerchio una zona blu-viola (che
chiameremo semplicemente viola) tendenzialmente sconfinante verso lo sfondo
nero. A ridosso di essa, verso la zona interna del cerchio, vi è invece una
zona azzurra.
L'impressione
percettiva della regione azzurro-viola è dunque che essa si diffonda a partire
dal cerchio verso lo sfondo nero.
Indubbiamente, insieme a profondi fraintendimenti del lavoro di Newton, troviamo
nell'opera osservazioni importanti, come quella relativa agli effetti di
contrasto cromatico.
Per il
poeta la sola percezione non consente di cogliere tutta la complessità e la
bellezza della natura; non può esistere distinzione fra mondo dell'esperienza e
mondo dell'idea e i colori esercitano un'azione sensoriale che non può essere
avulsa da un'azione morale.
Il poeta distingue così i
colori in attivi, (giallo, arancio, rosso) e passivi (azzurro, indaco,
violetto); nei colori attivi la luminosità si espande verso l’esterno, e
quindi essi vengono vissuti come gioiosi e pieni di energia, in quelli passivi
prevale l’ombra, poiché la luce rimane per così dire imprigionata
nell’interiorità.
Goethe riprendendo gli esperimenti di Newton sulla camera
oscura, fissa un colore e poi, al
buio completo registra quali colori si presentano alla sua mente; descrive così,
fra l'altro, il fenomeno delle postimmagini o immagini postume
In
Goethe, che non aveva
compreso l'importanza del lavoro di Newton e si era impadronito solo in parte
del significato della rifrazione, è presente tuttavia un'intuizione importante,
che cioè i colori sono una rielaborazione attiva di chi li percepisce e
risentono fortemente del contesto psicologico e storico dell'osservatore.
In rapporto alla posizione che Goethe assume nel suo approccio alla tematica
del colore si parla spesso di un atteggiamento
fenomenologico implicito. Ma più che l’uso di una simile
espressione, ci interessa cercare di individuare le ragioni particolari della
possibilità della sua applicazione nel caso di Goethe, proprio perché in
queste ragioni essa può ricevere la necessaria determinatezza.
Affrontando questo
compito, abbiamo subito a che fare con lo sfondo
filosofico generale dell’opera, concentrato nelle pagine introduttive che
fissano in pochi tratti lo spirito da cui essa è animata.
Strettamente
intrecciato alla visione alchemica, fu sempre presente in Goethe un deciso
neoplatonismo ( Plotino fu una delle sue letture preferite),
che traspare, ad esempio, anche dai versi di una sua poesia, Uno e Tutto,
il cui titolo appare già ampiamente significativo (dirà anche: «l'eterno
Uno che si manifesta in molteplici aspetti»):
«Esso
deve essere in movimento, agire creando,
Prima assumere una forma, poi trasformarsi;
Solo in apparenza esso sta talvolta in quiete,
L'Eterno è continuamente in moto:
Giacché deve disperdersi nel nulla
Tutto ciò che vuol persistere nell'immortalità».
Ci
si può chiedere se Goethe, non essendo panteista, almeno nel profondo, abbia
espresso una visione cristiana della Natura e della vita.
Da
quanto detto ci sembra che tale ipotesi sia da scartare: egli credeva
profondamente in Dio, ma il suo Dio era ben diverso da quello biblico-evangelico,
potendolo avvicinare, piuttosto, alle divinità olimpiche della Grecia, cosicché,
a ragione, Nietzsche lo definì un «sincero pagano».
Questo sfondo rimanda
al concetto di natura, un concetto
che Goethe condivide con così larga parte della cultura romantica, di cui la Teoria
dei colori è anzitutto un documento esemplare.
La natura come un
sistema complesso di leggi, che assumono necessariamente forma matematica e la
cui formulazione richiede elaborate costruzioni intellettuali - la natura dunque
come «mondo di cose» e precisamente secondo quella nozione della cosa che
comporta la soppressione dell’esperienza, come
ci siamo espressi in precedenza sottolineando l’inerenza di questo punto di
vista alla stessa posizione di scopi conoscitivi - questa nozione di natura non
è certamente per Goethe una nozione prioritaria.
Colori e suoni appartengono alla natura
scrive Goethe; e molto, se non tutto, il senso della posizione che egli assume dipende
proprio dalla comprensione di questa frase.
Colori e suoni sono parti
di un intero, di quel grande organismo vivente che
è la natura stessa. Essi sono fenomeni naturali in un’accezione pregnante: non semplici eventi invia di principio
dominabili all’interno di un sistema unitario di leggi; sono fenomeni nel
senso di manifestazioni.
La natura si manifesta in essi; colori e suoni sono espressioni
della natura. I fenomeni naturali di cui consta il grande organismo,
sono ciò attraverso cui esso ci parla, sono il linguaggio
stesso della natura:
«e dal più leggero soffio fino al più
selvaggio rumore, dal suono più elementare fino al più complesso accordo, dal
più veemente e appassionato grido sino alle più miti parole della ragione, sarà
sempre la natura a parlare, a rivelare la propria presenza, la propria vita e le
proprie connessioni»
Ciò decide fin dall’inizio l’atteggiamento che deve essere assunto nei
confronti dei colori. Se essi sono il linguaggio vivente della natura,
attraverso la vita dei sensi attraverso l’esperienza sensibile, si deve
realizzare un rapporto autentico di comunicazione.
Il colore parla e dunque
noi dobbiamo sforzarci di comprendere ciò
che esso dice. Per fare questo dobbiamo afferrare il fenomeno cromatico in tutta
la sua vivezza, così come ci si presenta in tutta la sua forza ai nostri occhi.
Si annuncia in questo modo, nell’intera impostazione
goethiana, una
tensione verso il qualitativo, verso un sapere legato alla corposità dei
fenomeni come una corposità che non può essere affatto ridotta.
Sono proprio le peculiarità di queste motivazioni che impediscono la
consapevolezza dei limiti entro cui deve muoversi una fenomenologia del colore.
Goethe non si rassegna alla necessità di considerare la luce, e dunque - per
Goethe - la chiarezza, il bianco, come un risultato della fusione di una
molteplicità di colori. «Che tutti i colori mischiati producano il bianco è
un’assurdità che, accanto ad altre assurdità, si è abituati a ripetere
fiduciosi da un secolo, e in contrasto con la testimonianza degli occhi».
Goethe ha certamente ragione, se stiamo appunto alla testimonianza
degli occhi.
E ha ragione anche nel ritenere che non sia affatto
giustificato respingere questa testimonianza come se essa fosse ingannevole.
E
tuttavia il problema di Newton era intanto quello di fornire una spiegazione
soddisfacente della formazione, su uno schermo, di un ordinato cromatismo ad
opera di un fascio di luce passante per un prisma di vetro.
Escludendo con buoni
motivi che una simile formazione possa essere dovuta alla natura del mezzo, è
possibile formulare l’ipotesi teorica e apprestare esperimenti di conferma,
secondo cui la «luce bianca» sarebbe la risultante di raggi «monocromatici»
(e dunque semplici, in un senso ben definito del termine), ciascuno
caratterizzato da uno specifico angolo di rifrazione.
In tal caso, il dato di
fatto della formazione dello spettro risulterebbe spiegato in termini fisici
come un processo di scomposizione.
Per Goethe non si tratta soltanto di realizzare una compiuta
descrizione di quella esperienza, ma di penetrare attraverso di essa sino all’essenza
naturale del colore. In qualche modo, vi è un’istanza naturalistica che si integra strettamente con la fenomenologiadi
Goethe e ne specifica la direzione.
Di qui deriva anche il dubbio ricorrente sull’impiego dello strumento
matematico dello studio dei fenomeni naturali in genere.
Se il linguaggio della
natura è rappresentato già dai fenomeni naturali sperimentati nella loro
concretezza, allora il linguaggio matematico deve essere considerato come un
secondo linguaggio che si sovrappone al primo e che rischia di confonderne il
senso, qualora il suo impiego non sia accompagnato da opportune cautele.
Ogni
possibilità di acquisire elementi conoscitivi sarà dunque interamente affidata
all’osservazione: a un osservazione attenta, ostinata, minuta, puntuale,
incessante, a un’osservazione empirica nel senso più ampio, dalla quale manca
tuttavia, per ragioni ben comprensibili, una chiara nozione di esperimento.
Non
vi è infatti qui propriamente nessuna ipotesi da mettere alla prova, e anche
tutti i dispositivi di cui possiamo eventualmente avvalerci hanno come scopo
essenziale quello di rendere più acuta l’osservazione stessa.
Lo strumento
principale di Goethe è proprio questa attenzione
osservativa portata alla sua estrema esasperazione: ci accingiamo ora
a spiare ogni mossa del colore, a inseguire le sue manifestazioni negli angoli
più riposti, non tanto per giungere a rendere conto di esse, quanto piuttosto
per arrivare a possederle nel loro senso.
|