Rapporto 2008
AMNESTY INTERNATIONAL PRESENTA IL RAPPORTO ANNUALE 2009 E LA NUOVA CAMPAGNA “IO PRETENDO DIGNITA'?"
Il mondo e' seduto sopra una bomba a orologeria sociale, politica ed
economica, innescata da una crisi dei diritti umani: e' quanto afferma
oggi Amnesty International, presentando a Londra, Roma e in altre capitali
il proprio Rapporto annuale 2009, il volume (pubblicato in Italia da EGA
Editore) che analizza la situazione dei diritti umani in 157 paesi e
territori nell’anno precedente.
'Dietro alla crisi economica si cela un’esplosiva crisi dei diritti umani'
– ha dichiarato Christine Weise, presidente della Sezione Italiana di
Amnesty International nel corso della conferenza stampa di Roma. 'La
recessione ha aggravato le violazioni dei diritti umani, distolto
l’attenzione da esse e creato nuovi problemi. Prima, i diritti umani erano
messi in secondo piano in nome della sicurezza, ora in nome della crisi
economica'.
'Il mondo ha bisogno di un nuovo tipo di leadership, di un new deal
dedicato ai diritti umani: ha bisogno non di promesse di carta ma di
azioni e impegni concreti per disinnescare la bomba a orologeria, di
investire nei diritti umani quanto s’investe nell’economia. Miliardi di
persone sono private di sicurezza, giustizia e dignita'. La crisi che le
colpisce ha a che fare con la mancanza di cibo, di lavoro, di acqua
potabile, di terra e di alloggio ma anche con l’aumento di disuguaglianza,
xenofobia, razzismo, violenza e repressione' – ha sottolineato Weise.
Tra gli esempi piu' evidenti di questa crisi, Weise ha citato:
- la negazione alle comunita' indigene del diritto fondamentale a una vita
dignitosa, nonostante la crescita economica in paesi come Brasile, Messico
e India;
- gli sgomberi forzati di centinaia di migliaia di persone da
insediamenti abitativi precari o terreni agricoli, in nome dello sviluppo
economico;
- il vertiginoso aumento dei prezzi, che ha provocato altra fame e altre
malattie e, in paesi come Corea del Nord, Myanmar e Zimbabwe, l’uso del
cibo come arma politica;
- il persistere della violenza e della discriminazione nei confronti delle
donne;
- la reazione alla pressione migratoria da parte dei paesi di destinazione
e di transito, che hanno adottato politiche ancora piu' restrittive, con
l’Europa a indicare il cammino in collusione con governi come Mauritania,
Marocco e Libia.
'Osserviamo nel mondo crescenti segnali di rivolta e violenza politica. Il
rischio e' che la recessione porti con se' maggiore repressione. Lo
abbiamo gia' visto in Tunisia, Egitto, Camerun e altri paesi africani,
quando i governi hanno stroncato duramente le proteste contro la
situazione economica, sociale e politica. L’impunita' della polizia e
delle forze di sicurezza e' risultata dominante. La Cina e la Russia sono
la prova che all’apertura dei mercati non e' corrisposta l’apertura delle
societa'. Attivisti per i diritti umani, giornalisti, avvocati,
sindacalisti sono stati intimiditi, minacciati, aggrediti, incriminati o
uccisi in ogni parte del mondo' – ha affermato Weise.
Mentre si concentrano sui tentativi di rianimare l’economia globale, i
leader del mondo trascurano quei conflitti mortali che producono
violazioni dei diritti umani di massa.
'Da Gaza al Darfur, dall’est della Repubblica Democratica del Congo al
nord dello Sri Lanka, il costo umano dei conflitti e' risultato orrendo e
la blanda risposta della comunita' internazionale e' stata scioccante. Le
operazioni militari in Afghanistan e Pakistan sono aumentate, tenendo in
scarso conto le implicazioni dal punto di vista dei diritti umani. Le
crisi sono interconnesse tra loro: ignorarne una per concentrarsi su
un’altra non fa altro che aggravarle entrambe. La ripresa dell’economia
non sara' equa e non durera' a lungo se i governi non porranno fine alle
violazioni dei diritti umani che creano e acuiscono la poverta' e se non
fermeranno i conflitti armati che generano nuove violazioni' – ha
puntualizzato Weise.
'I paesi del G20 si stanno presentando alla ribalta internazionale come un
soggetto nuovo, portatore di istanze e soluzioni e che rivendica un peso
politico maggiore. Tuttavia, in tema di diritti umani, questo gruppo
dimostra di avere un approccio vecchio e fallimentare fatto di violazioni,
retorica priva di azione, promozione dei diritti all’estero e negazione in
casa propria, copertura politica degli alleati. Il new deal che abbiamo in
mente deve evitare tanto gli approcci selettivi quanto i doppi standard in
materia di diritti umani' – ha osservato Weise.
'Abbiamo apprezzato la decisione del presidente Obama di chiudere
Guantánamo e denunciare la tortura. Assumere la responsabilita' per quanto
accaduto nella ‘guerra al terrore’ e chiamare a rispondere i responsabili
delle violazioni dei diritti umani commesse nel suo contesto, accrescera'
tanto la sicurezza globale quanto l’autorita' morale degli Stati Uniti' –
ha precisato Weise.
Sottolineando come la crisi economica abbia creato un urgente bisogno di
cambiamento, Weise ha annunciato il lancio di una nuova campagna globale
di Amnesty International, che intende affrontare e fermare le violazioni
dei diritti umani che creano e acuiscono la poverta'. In Italia, la
campagna si chiamera' “Io pretendo dignita'?.
'La poverta' e' caratterizzata da privazione, disuguaglianza, ingiustizia,
insicurezza e oppressione, cioe' da una serie di fattori che insieme
erodono il primo dei diritti umani: la dignita' di ogni essere umano. Per
questo, la dignita' e' al centro di questa nuova campagna. Non e' una
semplice coincidenza il fatto che la maggior parte dei poveri del mondo
siano donne, migranti e appartenenti a minoranze etniche o religiose.
Quasi 50 anni fa, Amnesty International venne creata per chiedere il
rilascio dei prigionieri di coscienza. Oggi noi pretendiamo dignita' per i
prigionieri della poverta', affinche' possano cambiare la loro vita. La
nostra campagna portera' i diritti umani al centro del dibattito sulla
poverta' e, quello che c’interessa ancora di piu', al centro delle
soluzioni per contrastare la poverta' e per restituire la dignita' a ogni
essere umano' – ha concluso Weise.
Rapporto 2007
Roma 23 Maggio 2007
Presentato oggi il Rapporto Annuale 2007 di Amnesty International: “Le politiche della paura creano un mondo pericolosamente diviso”
Governi potenti e gruppi armati stanno volutamente fomentando la paura allo scopo di erodere i diritti umani e creare un mondo sempre più polarizzato e pericoloso: è questo il messaggio lanciato oggi da Amnesty International, in occasione della presentazione del suo Rapporto Annuale 2007, il volume che esamina la situazione mondiale dei diritti umani, pubblicato in Italia da EGA Editore.
“Attraverso politiche miopi che danno luogo a paura e divisione, i governi stanno compromettendo lo stato di diritto e i diritti umani, attizzando razzismo e xenofobia, separando comunità, acuendo le disuguaglianze e preparando il terreno per altre violenze e altri conflitti” – ha dichiarato Paolo Pobbiati, presidente della Sezione Italiana di Amnesty International. “Le politiche della paura alimentano una spirale di violazioni dei diritti umani in cui nessun diritto è più intoccabile e nessuna persona è al riparo. La ‘guerra al terrore’ e la guerra in Iraq, col loro campionario di violazioni dei diritti umani, hanno creato profonde spaccature che stanno gettando un’ombra sulle relazioni internazionali, rendendo così più arduo risolvere i conflitti e proteggere i civili”.
Dominata dalla sfiducia e dalla divisione, la comunità internazionale è rimasta troppo spesso tiepida o impotente di fronte alle grandi crisi dei diritti umani del 2006, che si tratti dei conflitti dimenticati come quelli di Cecenia, Colombia e Sri Lanka o dei conflitti che sono sulle prime pagine, come quelli in Medio Oriente.
Le Nazioni Unite hanno impiegato settimane prima di riuscire a chiedere il cessate il fuoco nel conflitto in Libano, in cui hanno perso la vita circa 1200 civili. La comunità internazionale non ha mostrato coraggio nell’affrontare la disastrosa situazione dei diritti umani provocata dalle gravi restrizioni alla libertà di movimento imposte ai palestinesi dei Territori occupati, dagli incessanti attacchi dell’esercito israeliano e dagli scontri tra le fazioni palestinesi.
“Il Darfur è una ferita sanguinante sulla coscienza del mondo” – ha affermato Pobbiati. “L’azione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu è minata dalla sfiducia e dal doppio standard adottato dai suoi Stati membri più potenti. Il governo sudanese si prende gioco dell’Onu. Nel frattempo, sono morte 200.000 persone, il numero degli sfollati è dieci volte maggiore e gli attacchi delle milizie si stanno allargando al Ciad e alla Repubblica Centrafricana”.
Prosperando in una fascia di instabilità che va dal Pakistan al Corno d’Africa, i gruppi armati hanno gonfiato i muscoli e si sono resi responsabili di massicce violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario.
Secondo il Rapporto Annuale 2007 di Amnesty International, “se i governi non affronteranno le rivendicazioni di cui si servono questi gruppi, se non mostreranno effettiva leadership per costringere questi ultimi a render conto del loro operato, se non saranno loro stessi pronti a rispondere delle proprie azioni, allora la prognosi per i diritti umani sarà nera”.
In Afghanistan, la comunità internazionale e il governo locale hanno perso l’opportunità di costruire istituzioni realmente fondate sui diritti umani e sullo stato di diritto. Hanno lasciato la popolazione in uno stato di insicurezza permanente e di corruzione e in balia del ritorno dei Talebani. In Iraq, le forze di sicurezza hanno incitato alla violenza settaria piuttosto che frenarla, il sistema giudiziario si è rivelato profondamente inadeguato e le peggiori pratiche del regime di Saddam Hussein – torture, processi iniqui, pena di morte e stupri nell’impunità – sono rimaste in auge.
“In molti paesi, agende dominate dalla paura alimentano la discriminazione, allargando le distanze tra abbienti e nullatenenti, tra ‘loro’ e ‘noi’ e lasciando senza protezione i gruppi più emarginati” – si legge nel Rapporto Annuale.
Nella sola Africa centinaia e centinaia di persone sono state allontanate dalle proprie case senza una procedura equa, una ricompensa o l’individuazione di un alloggio alternativo, e tutto questo spesso in nome del progresso e dello sviluppo economico.
Gli esponenti politici hanno sfruttato la paura di un’immigrazione priva di controllo per giustificare misure più dure contro migranti e rifugiati in Europa Occidentale. In tutto il mondo, dalla Corea del Sud alla Repubblica Dominicana, i lavoratori migranti sono rimasti senza protezione e sfruttati.
La divisione tra musulmani e non musulmani si è acuita, alimentata nei paesi occidentali da strategie anti-terrorismo discriminatorie. Gli episodi di islamofobia, antisemitismo, intolleranza e di attacchi contro le minoranze religiose sono aumentati un po’ ovunque.
Contemporaneamente, i crimini dell’odio contro i cittadini stranieri hanno conosciuto una grande diffusione in Russia e in vari paesi europei si sono fatte evidenti la segregazione e l’esclusione delle comunità Rom, prove della clamorosa mancanza di leadership nel combattere il razzismo e la xenofobia.
“L’aumentata polarizzazione e le crescenti paure per la sicurezza nazionale hanno ridotto lo spazio per la tolleranza e il dissenso. Ovunque nel mondo, dall’Iran allo Zimbabwe, molte voci indipendenti per i diritti umani sono state ridotte al silenzio” – ha detto Pobbiati.
La libertà d’espressione è stata soppressa in molti modi diversi: incriminando scrittori e difensori dei diritti umani in Turchia, uccidendo gli attivisti politici nelle Filippine, minacciando, sorvegliando e arrestando sistematicamente i difensori dei diritti umani in Cina, fino all’assassinio di Anna Politkovskaya e alle nuove leggi sulle Organizzazioni non governative in Russia. Internet è diventata la nuova frontiera del dissenso: attivisti on line sono stati arrestati e le aziende hanno collaborato coi governi nel restringere l’accesso all’informazione sulla Rete in paesi come Bielorussia, Cina, Iran, Siria e Vietnam.
La repressione “vecchio stile” ha trovato nuova linfa vitale camuffata come lotta al terrorismo in vari paesi, tra cui l’Egitto, mentre leggi contenenti definizioni vaghe di terrorismo hanno posto una potenziale minaccia alla libertà d’espressione nel Regno Unito.
Cinque anni dopo l’11 settembre, sono emerse nuove prove sul modo in cui l’amministrazione Usa abbia considerato il mondo come un terreno di scontro tra giganti nella sua “guerra al terrore”, attraverso sequestri, arresti, detenzioni arbitrarie, torture e trasferimenti di sospetti da una prigione segreta all’altra del pianeta, in un contesto marcato dall’impunità e dalle cosiddette extraordinary rendition.
“Nulla può esemplificare la globalizzazione delle violazioni dei diritti umani meglio della ‘guerra al terrore’ guidata dagli Usa e il programma di extraordinary rendition, che ha coinvolto governi di paesi lontani tra loro, come Italia e Pakistan, Germania e Kenya. Strategie antiterrorismo mal concepite hanno fatto poco per ridurre la minaccia della violenza o assicurare giustizia alle vittime del terrorismo, ma hanno fatto molto per danneggiare a livello globale i diritti umani e il primato della legge” – ha sottolineato Pobbiati.
Amnesty International chiede ai governi di rigettare le politiche della paura e investire nelle istituzioni dei diritti umani e nello stato di diritto, sia a livello nazionale che internazionale.
Secondo Pobbiati, “vi sono segnali di speranza. Le istituzioni europee hanno raggiunto un risultato importante in termini di trasparenza e assunzione di responsabilità sul fenomeno delle rendition. Grazie alla pressione della società civile, l’Onu ha accettato di sviluppare un trattato per il controllo delle armi convenzionali. In diversi paesi, nuovi dirigenti e nuovi parlamenti hanno l’opportunità di rimediare ai fallimenti dei passati governi che hanno segnato il panorama dei diritti umani negli anni scorsi. Il nuovo Congresso Usa potrebbe dare il la a un’inversione di tendenza, ripristinando il rispetto per i diritti umani nel territorio nazionale e all’estero”.
“Così come il riscaldamento globale richiede un’azione basata sulla cooperazione internazionale, allo stesso modo la situazione dei diritti umani può essere affrontata solo attraverso la solidarietà globale e il rispetto per il diritto internazionale” – ha concluso Pobbiati.
Il presidente di Amnesty Italia racconta il rapporto annuale del 2006.
Se dovessimo cercare un’immagine metaforica per sintetizzare i contenuti più importanti del Rapporto Annuale di Amnesty International, sarebbe sicuramente quella di un bicchiere riempito a metà. Nel corso del 2005 ci sono stati importanti sviluppi nel campo della tutela dei diritti umani che lasciano ben sperare per il futuro, e questa è la parte di bicchiere che è stato riempito. Tanto, tantissimo rimane da fare per sanare situazioni inaccettabili, e questa è la parte di un bicchiere scandalosamente mezzo vuoto.
Leggi le schede sui paesi contenute nel Rapporto Annuale 2007
Rapporto 2006
Una strada a ritroso. Per la prima volta dall’11 settembre 2001 e dalla successiva offensiva nei confronti dei diritti umani, i protagonisti della cosiddetta “guerra al terrore” si sono visti costretti a restare sulla difensiva; in più casi, le istituzioni dei paesi i cui governi si sono distinti nel palese tentativo di erosione del sistema di protezione dei diritti umani, hanno preso posizioni forti nella direzione opposta; alcuni organismi internazionali si sono pronunciati in maniera chiara e inequivocabile così come l’opinione pubblica ha iniziato a mettere in dubbio l’efficacia e l’impatto delle strategie antiterrorismo.
Nel corso del 2005 abbiamo assistito a vere e proprie prove di forza fra i governi statunitense e britannico da un lato e i rispettivi parlamenti e organi giudiziari dall’altro, i quali si sono posti a difesa dello stato di diritto. Il governo Blair ha conosciuto le sue prime sconfitte in Parlamento, dopo nove anni, proprio sulla legislazione antiterrorismo. La Camera dei Lord ha bocciato il progetto di legge del governo che avrebbe reso ammissibili le prove estorte con la tortura e altri organi di giustizia britannici hanno dichiarato illegale la detenzione senza accusa né processo di cittadini stranieri. Queste novità, se da un lato mostrano quanta strada si sia percorsa a ritroso rispetto a quanto realizzato nei decenni precedenti, danno anche una chiara indicazione su quanto l’intervento delle istituzioni e la sensibilizzazione della società civile possano essere determinanti nel fermare questo processo di smantellamento del sistema internazionale di protezione dei diritti umani.
Speculare la situazione negli Stati Uniti, dove il Congresso ha intrapreso un vero e proprio braccio di ferro con l’amministrazione Bush sulla legittimità o meno dell’utilizzo, da parte del personale americano, di trattamenti crudeli, inumani o degradanti nei confronti di cittadini stranieri accusati o sospettati di attività terroristiche.
Assenza colpevole. I nomi che sono diventati i simboli della cancellazione dello stato di diritto li conosciamo bene: Guantanamo, Abu Ghraib, Bagram. Accanto a questi ve ne sono altri che non conosciamo, sono quelli che rientrano nella denominazione di “buchi neri”, i “black sites”, luoghi di detenzione segreta situati presumibilmente in alcuni paesi dell’Asia Centrale e dell’Europa Orientale.
In questo quadro, l’Europa è stata colpevolmente assente, rendendosi spesso anche complice di questi abusi. Nel corso del 2005 è emerso il tema delle “rendition”, i trasferimenti illegali e al di fuori di ogni controllo giudiziario di persone sospettate di terrorismo, verso paesi terzi quali Yemen, Arabia Saudita, Egitto, Siria, noti per le torture che si praticano nelle loro carceri. Difficile credere che a fronte di ciascuno di questi trasferimenti siano state fornite garanzie riguardanti il rispetto dei diritti umani da parte di chi ha preso in consegna i detenuti. Su questo tema emergono omissioni e connivenze anche da parte di numerosi paesi europei, tra cui l’Italia. Amnesty International ha documentato più di 1.600 voli organizzati dalla CIA, molti dei quali hanno utilizzato lo spazio aereo e scali europei, ricorrendo a compagnie aeree private, a volte esistenti solo sulla carta, in modo da eludere eventuali richieste e controlli sulle destinazioni e su chi si trovasse a bordo. Impossibile dare cifre precise su quanti detenuti siano stati trasferiti con queste modalità, ma in base alle ammissioni di alcuni governi e di funzionari statunitensi si tende a quantificare il numero di prigionieri “consegnati” in diverse centinaia. Non si tratta soltanto di trasferimenti illegali: contestualmente alle “rendition” si apre una vasta gamma di violazioni, come gli arresti arbitrari, la detenzione a tempo indeterminato senza accusa né processo, la mancanza di assistenza legale, la tortura e i maltrattamenti, le condizioni di detenzione inadeguate, la possibilità di “scomparire” definitivamente.
Qualcosa si muove. Ma proprio la maggiore consapevolezza che si sta affermando nella comunità internazionale sugli attacchi ai diritti umani che la cosiddetta “guerra al terrore” sta provocando, pregiudica sempre di più la credibilità e l’autorevolezza morale di chi questa “guerra” la sta portando avanti. Qualcosa però si sta muovendo: le indagini del Consiglio d’Europa e del Parlamento Europeo sul coinvolgimento dei paesi europei nelle “rendition”, la condanna delle Nazioni Unite alle modalità di detenzione nel carcere di Guantanamo, e la esplicita richiesta di chiuderlo, l’emissione di 22 mandati di cattura nei confronti di agenti della CIA coinvolti nel sequestro, avvenuto a Milano, e nella successiva sparizione di Abu Omar, evidenziano i dubbi sempre più diffusi sull’impatto delle strategie antiterrorismo.
Dubbi ci sono anche sulla loro efficacia: secondo il rapporto annuale del Dipartimento di Stato Usa sul terrorismo internazionale, nel 2005 ci sono stati 11.000 attentati terroristici nel mondo, che hanno causato oltre 14.600 vittime, delle quali 8.300 in Iraq. Oggi il mondo non è certamente più sicuro dalle minacce di gruppi armati che colpiscono deliberatamente la popolazione civile in una sequela di attentati che ha insanguinato diversi paesi. Il fallimento di questa strategia oggi è forse più evidente nei due paesi che avrebbero dovuto essere i “laboratori” dell’esportazione della democrazia, l’Iraq, affogato in un vortice di violenza settaria, e l’Afghanistan, dove povertà, illegalità e insicurezza hanno continuato ad affliggere le vite di milioni di persone.
Un prezzo alto. I governi, da soli e collettivamente, hanno paralizzato le istituzioni internazionali, dilapidato risorse pubbliche per perseguire obiettivi di sicurezza limitati e di corto respiro, sacrificato valori in nome della “guerra al terrore” e chiuso gli occhi di fronte a violazioni dei diritti umani su scala massiccia. La conseguenza è che il mondo sta pagando un prezzo elevato in termini di erosione dei principi fondamentali e di enormi danni arrecati alla vita e al benessere della società civile; ne è diretta conseguenza la perdita di autorevolezza della comunità internazionale che si trova a essere sempre più inefficace nell’affrontare crisi umanitarie. Così come è avvenuto nel Darfur, dove la flebile azione delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana si sono dimostrate pateticamente inadeguate rispetto a quanto sarebbe occorso fare, consentendo la prosecuzione delle atrocità nei confronti della popolazione civile, con altre migliaia di morti e milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case e i propri villaggi, o in conflitti sempre più dimenticati come quelli in Costa D’Avorio, Cecenia, Uganda o Colombia. Contemporaneamente, Israele e i Territori Occupati sono scomparsi dall’agenda internazionale: un conflitto che non sembra avere vincitori, ma solo vittime. Da una parte un popolo che vive costantemente con la minaccia di attentati indiscriminati, e vede ancora oggi la legittimità del proprio stato messa in discussione da dichiarazioni vergognose come quelle del presidente iraniano Ahmadinejad; sul fronte opposto un altro popolo che vede negati i più elementari diritti, sottoposto ad abusi e umiliazioni, che sta pagando un prezzo inaccettabile non solo in vite umane ma anche in termini di qualità della vita e della possibilità di migliorare il proprio futuro. Persone costrette a vivere nella povertà e nel degrado sociale, ambiente ideale per coltivare i semi della violenza e dell’odio.
Storie di ordinaria repressione. Oltre a essere uno schiaffo per il sistema di protezione dei diritti umani, le modalità di gestione della lotta al terrorismo hanno un “effetto domino” su molti altri paesi, che trovano legittimazione nella loro opera di “pulizia interna”. Il caso forse più eclatante e drammatico è quello dell’Uzbekistan: nella notte del 13 maggio 2005 le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco sulla folla che protestava contro il governo del presidente Karimov nella città di Andijan, nella valle di Fergana. Centinaia di persone sono state uccise, centinaia sono state arrestate e molte altre sono state costrette a fuggire nel vicino Kirghizistan, con il rischio di venire rimandate indietro. I pochi testimoni oculari che hanno osato sfidare la “versione ufficiale” su quanto accaduto ad Andijan, sono stati condannati a lunghe pene detentive.
Accanto a tutte queste ci sono poi le storie di “ordinaria repressione”, della soppressione del dissenso, della libertà di espressione, di associazione e di religione, delle minoranze etniche o linguistiche, dei difensori dei diritti umani, di persone con orientamenti sessuali non accettati. Nascondendosi dietro la foglia di fico della lotta al terrorismo o completamente sganciati da essa, molti governi non esitano a colpire duramente chi minaccia lo status quo, chi chiede cambiamenti politici o chi semplicemente si colloca al di fuori di canoni prestabiliti, concepiti dalla società o dallo stato. L’impunità della quale spesso godono le forze di sicurezza favorisce il ripetersi di abusi e di violenza, spesso motivati dal pregiudizio di tipo etnico. Sempre più spesso nel mondo, una persona viene presa di mira per la sua identità, per ciò che è e non per ciò che ha fatto o si sospetta abbia fatto. Questo accade anche in Italia, come dimostra la sequela di violazioni dei diritti umani ai danni di migranti e richiedenti asilo nel nostro paese.
Colpiti i difesori dei diritti umani. Chi denuncia le violazioni dei diritti umani e chi si batte per la loro tutela, come nel caso dell’Uzbekistan o della Colombia (che anche nel 2005 è risultato il paese col maggior numero di sindacalisti assassinati), subisce la rappresaglia del governo. In Cina la repressione si caratterizza sempre di più nel colpire i difensori dei diritti umani: sindacalisti, contadini che protestano per l’esproprio delle loro terre, per la corruzione o per le tasse troppo pesanti che vengono loro imposte e gli avvocati che li difendono, diseredati che rimangono esclusi dal miracolo economico cinese. Ma la vera nuova frontiera della repressione in Cina è internet. Particolarmente inquietante è la collaborazione che le autorità cinesi ricevono da aziende occidentali: Yahoo, Google e Microsoft hanno adattato i loro prodotti al mercato cinese impedendo di accedere a siti non graditi alle autorità attraverso i loro portali e ai loro motori di ricerca. Eclatante il caso del giornalista Shi Tao, condannato a 10 anni di reclusione in aprile per aver diffuso una direttiva del Partito Comunista via e-mail: stando agli atti processuali, Yahoo avrebbe fornito alle autorità cinesi informazioni sul possessore dell’account.
Il Rapporto Annuale 2006 presenta uno scenario pressoché immutato di continue violazioni dei diritti umani drammaticamente uguale a se stesso da anni. Nelle carceri della Siria, dell’Iran, di Cuba, del Myanmar, dell’Eritrea, del Sudan, della Corea del Nord, della Tunisia e di molti altri paesi, si trovano dissidenti, giornalisti, difensori dei diritti umani, spesso incarcerati solo per aver pacificamente espresso le loro opinioni, imprigionati con lo scopo di metterli a tacere. Sono le tante persone alle quali Amnesty dà e continuerà a dare la propria voce, e per le quali le attività dell’associazione continuano a rappresentare la speranza.
Rapporto annuale 2010
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ultimo aggiornamento 05 Dic. 2010