Amnesty International Italia
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Reportage dall'Eritrea
Eritrea, cala la notte ed è caccia all'uomo
Sono oppositori politici, giornalisti, disertori dalle feroci condizioni dell'esercito. Tra loro si chiamano «ghost», spettri. Quando scende il buio e i cellulari si bloccano, dalle colline scendono gli «animals», i soldati della 17esima divisione, armati di ferocia e bastoni. E comincia la battuta
Ugo Borga
Asmara
E' quando su Asmara cala la notte, che te ne accorgi. Quando i fedeli accucciati intorno alla moschea smettono di pregare e si affannano verso la stazione di autobus troppo vecchi, o piccoli, per portare via tutti. Quando la gente smette di parlare e comincia a guardarsi intorno, a soffermarsi su un volto sconosciuto, a cercare un indizio tra le ombre che avanzano lungo Harnett Avenue. Quando uno dei tanti bar italiani della città si svuota all'improvviso, e la gente che lo affollava cerca l'angolo più buio o lontano o soltanto vuoto, e ci si infila scomparendo come un spettro.
E' quando su Asmara cala la notte che riesci a dare un significato ai racconti della gente, a dare un volto e un nome alle loro paure.
L'ennesimo giro di vite all'opposizione interna ha trasformato, di fatto, l'Eritrea in un carcere a cielo aperto. Tutti i media privati chiusi dal 2001, repressione di ogni forma di opposizione politica, allontanamento o pesante limitazione delle organizzazioni umanitarie. Renitenti alla leva, dissidenti e disertori si muovono nelle città come spettri: privi di documenti, braccati , non possono far altro che nascondersi. Sono centinaia nella sola Asmara. Tra loro, si chiamano ghost, fantasmi.
Il popolo eritreo cova da tempo un comune, unico sogno: la fuga. Chiunque non abbia ancora raggiunto il confine sudanese spera di farlo al più presto: servono soldi, tanti, e da quando le relazioni tra i due paesi sono migliorate, anche parecchia fortuna. I movimenti all'interno dell'Eritrea sono severamente limitati: occorrono permessi militari per muoversi in qualunque direzione, e servono ottimi motivi per ottenerli.
I tre quarti del paese sono ormai off limits: impossibile proseguire a nord, oltre Keren, a sud e ovest oltre Massaua e Mendefera. Oltre confine operano pattuglie di polizia militare, il cui scopo è scovare i profughi e riportarli indietro in un inferno reso tanto più sinistro dal fatto che nessuno è mai tornato a raccontarlo.
I fantasmi dell'Eritrea
Isaias è uno di quelli che è inutile cercare: ti trovano loro. Basta sedersi nel posto giusto, che da queste parti ha l'aspetto di bar di periferia, ed aspettare. Di mestiere risolve problemi, in una terra in cui non mancano. Per la legge, è un disertore. Abita con la famiglia in una delle tante case con il tetto di lamiera di un quartiere della periferia di Asmara, chiamato "il Fungo". Un quartiere difficile, in cui si impara presto che quel che conta è sopravvivere. E' la zona del mercato nero, del contrabbando, delle prostitute da un dollaro a prestazione. Ce ne sono tanti, qui, di fantasmi: ogni tanto ne sparisce qualcuno, come risucchiato da un incubo. Un incubo chiamato repressione.
«Sono scappato da Massaua, una notte, poco prima della grande retata di sei mesi fa», racconta Isaias. «La polizia militare ha svuotato la città, arrestato centinaia di persone, nessuno sa dove siano state portate. Mi sono nascosto qui, come tanti, tanti altri che come me sono scappati dall'esercito». Oltre il venti per cento del pil di questo paese è destinato alla difesa. Un vero record mondiale. Il servizio militare è a tempo indeterminato ed esteso a tutti gli uomini e donne di età compresa tra i diciotto e i quarantacinque anni. Le condizioni di vita dei soldati sono critiche: spesso ricevono solo un pezzo di pane e un paio di bicchieri d'acqua al giorno, per sopravvivere a temperature che superano i 50 gradi. La paga è irrisoria, l'equivalente di 25 dollari al mese dopo i primi tre anni di ferma. Vivono esposti alle malattie, alla fame, isolati in zone di confine per anni.
Le punizioni sono severissime. «Io stesso ho subito l'«elicottero», una delle punizioni più dolorose: braccia e gambe legate, i polsi schiacciati in una morsa d'acciaio, a pancia in giù, nudo, sulla sabbia rovente. E' successo circa tre anni fa, quando ero sulle isole Dahlak. Una notte, un amico mi ha liberato. Siamo fuggiti insieme. Ha dovuto trascinarmi, come un sacco. Le mie gambe non funzionavano più».
E' sera quando ci salutiamo, e il cielo sopra Asmara si tinge di rosso fuoco, Isaias ha voglia di parlare, di immergersi ancora nel pozzo profondo dei suoi ricordi. Ci diamo appuntamento per l'indomani, in città. Poco lontano, due bambini appoggiati ad un muro, vestiti di stracci, sniffano «mastìsci», colla. «Money sir», dicono. Non è una domanda. Anche loro sembrano fantasmi.
Animals. Così vengono chiamati i soldati della diciassettesima divisione accampata sulle colline intorno ad Asmara. Di notte calano sulla città in gruppi di tre o quattro, armati di kalash, «slaa» (bastoni lunghi e sottili) e della ferocia leggendaria che è valsa loro questo nome. Divise stracciate, kefia, sandali di gomma, una magrezza che contribuisce a rendere il loro aspetto ancora più sinistro e selvaggio. A queste unità sono affidati compiti di polizia militare, in particolare la caccia ai renitenti alla leva, ai disertori, ai dissidenti.
Quando le prime pattuglie scendono dalla collina, si attiva una rete clandestina di informazioni: il telefonino, da queste parti, è molto più di un vezzo, e possederne uno può aiutare a restare liberi. «E' uno strumento di sopravvivenza, per questo ragazze e ragazzi escono sempre in gruppo», racconta Selamat, renitente alla leva, 23 anni e due occhi tristi, adulti, sempre attenti a verificare vie di fuga, calcolare tempi, indagare volti sconosciuti. «L'essenziale è che uno di noi abbia sempre il telefono a portata di mano. Nel momento in cui qualcuno avvista gli animals, provvede a telefonare a tutti quelli che conosce, che a loro volta diffondono la notizia».
Ma spesso il regime disattiva le linee in tutta l'Eritrea, e telefonare diventa impossibile. «Questo è il segnale peggiore, significa che vogliono fare le cose in grande, che la caccia sarà lunga e spietata. Se ci troviamo su un autobus, costringiamo l'autista ad uscire dalla città, se siamo a piedi cerchiamo un taxi che ci trasporti velocemente nella direzione opposta a quella da cui arrivano gli animals. Se non possiamo, ci nascondiamo nelle case, negli alberghi, nei negozi: se resti in strada, sei finito. Con la polizia è possibile cavarsela - sussurra Selamat, gli occhi alla finestra, lo sguardo lontano, dentro un futuro appena immaginato - Spesso è sufficiente parlare, spiegare...anche loro hanno figli, sorelle, fratelli che si nascondono per sfuggire al servizio militare. Ma non con gli animals. Sono arruolati nelle zone di confine, nessuno di loro è di qui. Vengono privati di tutto, anche del cibo, per aumentarne l'aggressività: sono violenti, brutali, non hanno nessuna pietà».
Gli animals all'attacco
Giornalisti, dissidenti politici, renitenti alla leva, disertori sono detenuti in condizioni che un rapporto di Amnesty International definisce «crudeli». Il luogo della detenzione è spesso sconosciuto. Le ritorsioni sui famigliari sono una pratica ormai consolidata del regime: «Ho perso due dei miei figli nell'ultima guerra», racconta Selam, le mani impegnate a preparare il caffè speziato nella piccola brocca di terracotta. «Mi hanno detto che erano degli eroi. Dei martiri. Ho ricevuto dal governo cinquemila nakfa per ognuno di loro. Ma quando l'altro mio figlio, il più giovane, ha disertato, mi hanno detto che dovevo pagarne cinquantamila o consegnarlo ai soldati. Altrimenti sarei finita in carcere».
Una somma inimmaginabile, per una donna che ne guadagna al massimo quattrocento in un mese. «Com'è possibile che la vita di un eroe valga cinquemila nakfa e quella di un disertore cinquantamila? E come possono pretendere che una madre consegni il proprio figlio alla tortura?» Obiezioni inutili. «Le carceri erano piene di uomini e donne nella mia situazione», conclude Selam, rilasciata solo alcuni mesi dopo la cattura del figlio.
E il presidente va in Italia
C'è una battuta ricorrente che in questi giorni rimbalza da un bar all'altro nella periferia di Asmara. Il presedente Isaias Afeworki è in visita ufficiale in Italia. Molti si chiedono se tornerà o ne approfitterà per scappare, anche lui, dall'inferno che lui stesso ha creato.
Ma il tam tam africano, questa sera, porta anche notizie di Rachelina, uno dei tanti fantasmi della città. Forse poco attendibili, ma buone, e tanto basta. Qualcuno che ha detto a qualcun altro di aver parlato con uno che l'ha vista viva, in Sudan. «Ce l'ha fatta», mi dice Isaias, gli occhi liquidi per le troppe birre, i vuoti ammucchiati come trofei sul tavolino del bar. «Era sparita. Quando qualcuno scompare, da queste parti, può significare solo due cose: o è stato catturato, o si prepara a fuggire. Si vive nel sospetto perenne: tra le persone che vedi in questo bar, probabilmente alcuni sono informatori. Per questo, quando la gente si prepara a fuggire fa perdere le proprie tracce: per non essere tradita».
I festeggiamenti proseguono per ore: buona musica, molta birra, lunghi abbracci. Il tempo sembra essersi fermato, come per concedere un momento di tregua, di oblio. Fuori, la notte è già scesa da un pezzo quando Isaias mi si avvicina barcollando. Ha ancora il sorriso sulle labbra, solo che adesso sembra una smorfia.
«Hanno disattivato le linee del telefono», sussurra. «Muoviti, italiano. La caccia è cominciata».
All'inizio sono ombre. Lunghe, oblique, corrono come impazzite su Harnett Avenue, verso nord, piegandosi ad angolo retto sui marciapiedi, sbattendo contro le palme del viale improvvisamente sinistro. Poi è il silenzio. Quello della tromba delle scale del palazzo in cui ci siamo nascosti. Selamat, Isaias, i loro compagni; occhi che indagano l'oscurità e poi rimangono immobili, come abbagliati da un pensiero, un presentimento. Appoggiati alle pareti, seduti sul pavimento. Nessuno parla. Nulla da dire.
Le prime bastonate sono colpi secchi preceduti da un sibilo acuto. Sembrano colpi di pistola lontani, non diresti mai che sono gli slaa a fare questo rumore. Voci, urla e passi si fanno più intensi. Piano, avviciniamo le teste alla finestra: quattro uomini, diciassettesima divisione. Animals. Circondano due ragazzi, a cui hanno ordinato di togliere le scarpe. Dopo pochi minuti, se ne aggiungono altri due, e altri ancora. Alcuni hanno le mani legate, altri tentano un fuga tardiva, vengono ripresi, pestati. Incontro gli occhi di Selamat. Bruciano. «Me ne andrò di qua, italiano. Viva o morta. Goodbye, Eritrea..».
Il 26 maggio del 2007 circa 400 giovani
eritrei sono stati catturati nel corso
di una di queste retate. Isaias e Selamat
si trovavano su un autobus, diretti
a casa. Non sono mai arrivati.
(copyright ugo borga/il manifesto)
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ultimo aggiornamento 06 Dic. 2010