Riesplode
il conflitto nelle Isole delle Spezie
di Paolo Emilio
Landi
Ambon e le Molucche
sono chiuse agli stranieri e tanto più ai giornalisti. Con un cordiale
sorriso l’addetto stampa dell’ambasciata indonesiana ci informa che possiamo
chiedere il visto. Se poi ci sarà concesso, è tutta un’altra
storia. Così, travestiti da turisti, in pantaloncini corti, camicia
hawaiana e macchina fotografica d’ordinanza, ci presentiamo all’imbarco
per Ambon. Nessuno si cura della nostra identità e tanto meno del
visto. Non che la polizia di frontiera sia assente. E’ che nessuno,
né l’esercito, ne la polizia e tantomeno i leaders politici, possono
garantire la sicurezza. Durante uno scalo tecnico riceviamo la telefonata
del desk officer dell’UNDP, Svante Skoog, che ci sconsiglia caldamente
di arrivare nell’isola per via di scontri che si erano verificati al mattino.
Si temono vendette incrociate. Il nostro ‘contatto’, un ufficiale della
procura un cristiano battista, ci rassicura al telefono: va verrà
a prenderci con la sua scorta. L’aereo parte con un’ora di ritardo. Sullo
stesso volo un tipo ci guarda con insistenza. Indossa una maglietta di
Amnesty International. Scopriremo più tardi che non è proprio
un sincero pacifista.
Il colpo d’occhio
dall’aereo è splendido. L’isola è una meraviglia della natura.
Certo i navigatori portoghesi e quelli olandesi, che arrivarono qui nel
XV e XVI secolo in cerca di noce moscata e chiodi di garofano, saranno
rimasti affascinati dalla natura rigogliosa, dalle spiagge di sabbia fine,
dal fiordo che si incunea nell’isola, dividendola quasi in due. A Nord
c’è l’aeroporto, a sud, nella penisola più piccola, la città,
Kota Ambon, 300.000 abitanti prima del conflitto. Il nostro contatto
si presenta puntuale all’arrivo con una decina di pastori protestanti che
ci fanno festa. Della scorta armata neanche l’ombra.
Andare in città
per via di terra implica attraversare due zone, due enclave musulmane.
Meglio
prendere lo speed boat e attraversare la baia. Dopo un breve tragitto
in macchina, saliamo sullo speed boatt. Lo chiamano così non
tanto per la velocità che può raggiungere, ma perché
va sempre a manetta. La baia infatti è dominata da una collina,
dalla quale i musulmani, talvolta, fanno tiro al bersaglio. I 10 minuti
per attraversare questo braccio di mare paradisiaco si trasformano
in un inferno. Ripassiamo a mente la formazione della nazionale di calcio
italiana. Un carabiniere di stanza all’ambasciata di Giacarta ci
ha detto che è il miglior lasciapassare in caso di brutti incontri.
Le nuvole, presagio della fine della stagione delle piogge, si stagliano
sul braccio di mare e siamo festosamente accolti dai gestori dei traghetti
che, immancabilmente urlano ‘Italia! Alessandro del Piero!’. Siamo
nella zona cristiana. Il pulmino zigzaga tra i bidoni pieni di terra posti
in mezzo alle strade costeggiate da case distrutte, bruciate. Ce
ne sono almeno 50.000, in tutto il territorio delle Molucche sconvolto
da una guerra civile che ha prodotto 3500 morti in 2 anni. L’esercito presidia
ogni incrocio delle poche vie di comunicazione mentre l’autista ci indica
la zona musulmana, la moschea Al Fatah e il minareto in cemento armato.
Dei due milioni
di abitanti delle Molucche, il 50% è cristiano il 50% musulmano.
Le proporzioni si sono mantenute anche dopo il conflitto, quando almeno
mezzo milione di persone hanno lasciato le isole per rifugiarsi a Buton
e a Manado, nel Sulawesi. Il Governatore delle Molucche, Saleh Latuconsina,
non si stupisce di incontrarci. Ci accoglie nel suo ufficio circondato
dal suo staff che sonnacchioso presenzia a tutta l’intervista. Ci
tiene a declinare l’appartenenza religiosa dei suoi collaboratori. Il governo
locale è religiously correct, metà protestanti, metà
musulmani. Lamenta immediatamente la mancanza di forze militari sufficienti
(ci sono ‘solo’ 21 battaglioni) e l’assenza di una direzione politica precisa
da Giacarta. Non riusciamo a interporci efficacemente tra le parti in conflitto.
Il giorno dopo su tutti i giornali dell’isola compaiono i nostri nomi.
Il nostro tentativo di restare in incognito fa a farsi benedire. Gus Dur
è il nomignolo del nuovo presidente indonesiano, Adburahman Wahid,
insediatosi dopo le prime elezioni libere del 1999. E’ un musulmano
moderato, sincero sostenitore di quella religiosità islamica tollerante
che è stata la caratteristica di questo paese. E’ quasi cieco. L’Indonesia
è, con i suoi 206 milioni di abitanti, il più grande paese
musulmano del mondo. Nei cinque principi fondanti della repubblica (il
panciasila) la spiritualità (di qualsiasi tipo) è menzionata
come sostegno dell’unità della nazione. Ma il nuovo governo è
debole: da una parte i fondamentalisti islamici, dall’altra l’esercito
e l’ex presidente Suharto, cercano di minare il suo tentativo di stabilire
una vera democrazia nel paese. I militari e l’ex dittatore hanno in mano
un enorme potere economico che cercano di mantenere anche a costo di alimentare
il terrorismo e i conflitti regionali. Frans Seda, consigliere del presidente,
non usa mezze parole:sono loro che fomentano la guerra nelle Molucche,
sono loro a finanziare la Jihad islamica.
Quali che siano
i fattori nazionali che influenzano la situazione, mentre guardo il tramonto
scendere sul tetto della chiesa protestante (molto spiovente come fossimo
in Olanda) mi chiedo perché questo conflitto è diventato
religioso, e, se è vero come è vero, che le cause sono politiche
ed economiche, perché le fedi si sono fatte coinvolgere e compromettere
senza riuscire a porvi un argine.
La prima difficoltà
è capire come tutto è cominciato il conflitto. Sammy Titaley,
il nuovo moderatore delle chiese protestanti delle Molucche, racconta di
suo fratello più giovane tagliato a pezzi con il machete.
Poi dà la sua versione dei fatti: A gennaio 1999 ci fu una lite
tra un autista cristiano e un rapinatore musulmano. I due si sono battuti
e la sera stessa i musulmani hanno attaccato il villaggio di Bathumera.
La moschea si
trova 300 metri in linea d’aria dalla chiesa protestante. I nostri autisti
si rifiutano di accompagnarci. Si offre un giovane musulmano che per ‘solo’
100 dollari (l’equivalente di 150 kg di pesce, o se volete, 400 litri di
super) ci fa attraversare il check point, prendere un autobus pubblico
e ci scorta da Yusuf Ely, leader dei musulmani. L’uomo è anziano,
ha un fare molto aggressivo: il giorno dell’Udul Fitri, la festa per
fine del ramadan, il 19 gennaio 99, i cristiani hanno attaccato senza motivo
un villaggio musulmano.
Il centro di
informazione cattolico, guidato dal vescovo ausiliario Joseph Tethool,
ha documentato la presenza in quei giorni di numerosi provocatori che hanno
diffuso notizie false in entrambe le comunità, accusando gli
uni e gli altri di aver bruciato chiese e moschee che non erano state ancora
attaccate. Da allora le rappresaglie si sono ripetute senza sosta.
Eppure le Molucche
sono state anche il paradiso della tolleranza religiosa per 500 anni. Perché
si è rotto l’equilibrio e la tolleranza con cui le due comunità
hanno vissuto insieme? Ely attacca: i cristiani vogliono cacciare i
musulmani, che controllano il 65% del commercio dell’isola.
Titaley guarda
indietro alla storia: le Molucche sono state per secoli l’esempio di
una pacifica convivenza religiosa dovuta in gran parte al sistema del culto
degli antenati (ADAT). Musulmani e cristiani ritenevano che entrambe le
religioni fossero un modo di venerare lo stesso Dio, solo con riti diversi.
In indonesiano Dio si dice Allah, ma e’ pronunciato diversamente se e’
quello del corano o quello della Bibbia. I villaggi, indipendentemente
dalla loro identità religiosa, stabilivano dei patti (PELA) di reciproco
aiuto, basati su una effettiva fratellanza. Tanto che i membri dei due
villaggi non potevano sposarsi, ritenendo questa eventualità un
incesto. I pela erano rinnovati periodicamente da rituali che consistevano
nel bere alcool di palma misto a sangue nel quale erano state immerse le
armi. Questo sistema culturale, garantito dalla fede negli antenati, ha
reso possibile la convivenza per quasi 500 anni.
Vari fattori
hanno rotto questo equilibrio: la politica di immigrazione voluta negli
anni 70 dal padre padrone dell’Indonesia, Suharto, ha cambiato i rapporti
numerici tra le componenti religiose importando musulmani molto poveri
e fautori dell’ortodossia islamica. La ristrutturazione dello stato,
la sostituzione dei capi dei villaggi (raja) con politici fedeli a Giacarta,
ha causato la fine del culto degli antenati. L’aumento della popolazione
ha enfatizzato le differenze sociali: i cristiani infatti erano stati scelti
dai colonizzatori olandesi per l’amministrazione e solo a loro era garantita
l’educazione scolastica. I musulmani richiedono ora più
potere nel governo locale e maggiori opportunità economiche. I cristiani
si sentono accerchiati. E non hanno tutti i torti. Carta alla mano osservo
l’isola dalle colline. Le zone musulmane sono quelle strategicamente più
importanti. Oltre la collina che domina la baia, hanno conquistato la zona
intorno all’aeroporto e controllano le vie di comunicazione.
Ma almeno su
un fatto sia leader protestanti e musulmani hanno la stessa opinione: che
sia la gente delle Molucche a decidere, che siano eliminate le ‘influenze
esterne’. Il protestante aggiunge: per la nostra cultura siamo fratelli
e sorelle, veniamo dallo stesso grembo. Il problema è come faremo
a ricordarcelo dopo anni di guerra’
Un’ora prima
della nostra traversata, un barcone con 85 cristiani, per lo più
famiglie, è stato attaccato da alcuni speed boat. Bilancio: 2 morti
e 15 feriti. Mi rendo conto con un brivido che se l’aereo fosse stato in
orario ci saremmo trovati a passare tra le pallottole. I superstiti sono
all’ospedale della città, nella zona cristiana. Mentre ascoltiamo
i loro racconti arriva un pastore che intona con loro inni. Tornavamo
a casa, a Galale, quando abbiamo visto le barche avvicinarsi. L’obiettivo
era il capitano della nave. Gli abbiamo fatto scudo con i nostri corpi.
Siamo stati sotto il fuoco per 45 minuti.
Nelle stanze
attigue incontro un ragazzino di 14 anni che ha perso una gamba negli scontri.
Non sei troppo giovane per combattere? No. Perché no? Perché
loro usano tutte le loro armi e non riusciamo più a tenerli.
Di cosa hai bisogno? Per me di una gamba artificiale e, per i miei compagni,
di armi. A pochi metri un giovane uomo dall’età indefinibile
cerca di raccontarci la sua storia. Il traduttore ha difficoltà
a capire le sue parole: la bocca è gonfia, gli occhi emergono dalle
orbite. Del suo naso resta solo l’osso e le orecchie sono tagliate. E’
stato bruciato vivo durante un’azione difensiva quando da una parte
la Jihad, dall’altra l’esercito hanno attaccato il villaggio.
Chiedo conto
a Yusuf Ely dell’attacco al barcone. ‘E’ stata la reazione di difesa
musulmana per uno scontro che c’era stato nel mercato, al mattino’.
Obietto: ma quelle erano famiglie. ‘Non importa, se tu uccidi un musulmano
io uccido un cristiano’. Ma, insisto, se loro uccidono bambini e vecchi…’
Noi
facciamo lo stesso. Qualcuno dice che è conflitto sociale ma, sul
campo, è un conflitto religioso, una guerra di religione. Perché?
Arrivano e bruciano le moschee. Che male fanno le moschee ai cristiani?
Che
male fanno le chiese ai musulmani? chiedo. I musulmani si difendono
e bruciano le chiese. Per far terminare il conflitto basta che loro la
smettano di attaccare, perché noi, secondo la nostra religione,
non possiamo attaccare, abbiamo solo il diritto di difenderci.
Ely, sul finire
dell’intervista si quieta, il muezzin intona il suo richiamo per la preghiera,
e il vecchio mi spedisce da suo nipote, Thamrin Ely, il rappresentante
dei musulmani presso il presidente Wahid. . E’ un moderato, ma ci tiene
a mostrarmi il cimitero improvvisato nel quale sono seppellite le giovani
vittime degli scontri. La sua scorta è composta da giovani in tutto
simili a quelli che ho visto all’ospedale. Sulla maglietta di uno compare
la scritta: Vivere è bello, ma morire combattendo, è
meglio. Quali sono le soluzioni possibili? Ricollocazione, cioè
spostare i villaggi musulmani in zone musulmane, al nord (dove c’è
l’aeroporto, ndr), villaggi cristiani a sud (nella città).
L’ipotesi è
piuttosto curiosa perché nell’isola queste zone, prima del conflitto
non erano distinte. Villaggi cristiani e musulmani erano sparsi uniformemente,
gli uni attaccati agli altri. Chiedo degli sviluppi della battaglia nell’isola
di Saparua. E’ finita. si affretta a rispondere. Ma non fa in tempo
a bloccare uno della scorta che ridendo aggiunge: Non ancora.
Lo spazio di
manovra dei moderati musulmani è limitato dalla Jihad che li controlla.
In agosto uno di loro è stato impiccato nella moschea, accusato
di aver collaborato con i cristiani. Un chiaro avvertimento.
I cristiani
accusano gli islamisti di voler inserire la Sharia, la legge islamica,
nell’ordinamento indonesiano. Thamrin, aggiusta gli occhialetti da intellettuale
e chiede retoricamente: Perché mai?, Non ce n’è bisogno,
la maggioranza è musulmana’. Ma l’accusa cristiana non
è infondata. In Indonesia è in atto uno scontro tra musulmani
moderati e fondamentalisti. A gennaio 2000 un milione di persone
si sono riunite a Giacarta, nella piazza del Monas (l’enorme monumento
all’unità nazionale, costruito con marmi italiani e 36 chili d’oro)
che si trova davanti alla più grande moschea del Sud est asiatico.
In quell’occasione si è proclamata la guerra santa nelle Molucche
e si è formato il Laskar Jihad (un gruppo paramilitare) che è
sbarcato in forze ( undicimila unità) ad Ambon in aprile.
Alla Moschea ripetono stancamente che la Jihad è venuta per aiutare
i bambini a preparare i loro esami e per la pulizia delle strade. Non sanno
spiegare perché i ‘Bianchi’ hanno voluto portare anche 9 container
di armi. Secondo il governo si tratta di un’organizzazione militare finanziata
dalla cerchia di Suharto. E i risultati non sono mancati. La guerra ha
fatto un salto di qualità. Prima gli scontri coinvolgevano ragazzini
armati di frecce, lance e bombe fatte in casa con l’esplosivo recuperato
da ordigni bellici scaricati in mare dagli alleati alla fine della II guerra
mondiale. Ora i feriti e i morti portano i segni delle granate, degli SS20
e degli M16, i mitragliatori in dotazione all’esercito. La reazione del
governo alla tragedia delle Molucche, è stata lenta e incerta. Per
prima cosa ha inviato 21 battaglioni. Ma anche l’esercito è diviso
al suo interno. E invece di interporsi tra le forse in conflitto ha scelto
di mettersi dalla parte musulmana. Alcuni hanno disertato per aiutare i
cristiani.
Frans Seda,
il consigliere di Wahid spiega le difficoltà del governo: Il
presidente è contro la Jihad ma prende il cosiddetto atteggiamento
culturale. Essendo musulmano Gus Dur non li vuole affrontare, non vuole
ordinare loro di lasciare l’isola, glielo ‘consiglia’. E quelli fanno quello
che vogliono. E’ una lotta tra musulmani e musulmani.
Inatteso ospite
si presenta al nostro albergo Alex Manuputty, un ex fisico, protestante
circondato da quattro militanti che, lo scopriremo poi, sono i capi dei
paramilitari cristiani Questo combattente dalla barba sfatta è ritornato
dall’Olanda dove risiede il governo in esilio della Repubblica Del
Sud Delle Molucche. Presumibilmente per chiedere aiuti economici
e militari. Era lui il tipo con la maglietta di Amnesty international.
Intervento
delle Nazioni Unite o indipendenza delle Molucche, non ci sono alternative.
Non vogliamo restare indonesiani per essere uccisi dall’esercito.
A sostegno della sua tesi mi mostra una decine di granate inesplose del
tipo in dotazione all’esercito. Sono tenute in acqua per evitare danni.
Lo saluto frettolosamente.
Al campo profughi
di Passo ci immergiamo nella calca dei cristiani fuggiti da Whaii. Sono
arrivati in 3000, guidati da una pastora protestante. Per aggirare le strade
bloccate dai musulmani hanno attraversato le montagne. La pastora occupa
una piattaforma centrale nel grande capannone, circondata da bibbie. Ora
le famiglie sopravvivono grazie all’aiuto di Action Contre la Faim e Médecins
sans frontières. Le stesse organizzazioni che provvedono al cibo
e alle medicine nel campo profughi musulmano. Qui 250 persone stazionano
in una ex scuola. ‘Sono tutti sotto shock’. Con la perdita dei loro
familiari e delle case, hanno subito un trauma, dal quale si risolleveranno
solo con il lavoro, ci dice la responsabile del campo Siti Nurlaila.
Anche qui, come
in Ruanda e in Bosnia, l’identità religiosa si è sovrapposta
a un conflitto economico e politico. E’ una reazione alla globalizzazione,
un baluardo simbolico. Forse il risultato di una cristianizzazione superficiale.
Nonostante in entrambi i campi ci sia stata una forte secolarizzazione
ora le chiese e le moschee sono strapiene. Non posso non stupirmi quando,
al culto della domenica mattina, noto tante tute mimetiche alzarsi in piedi
per recitare il Padre Nostro.
Il giorno della
partenza la nebbia mattutina mi sembra più fitta mentre faccio
le valige. Mi rendo conto che non di nebbia si tratta ma di fumo. L’altra
parte della baia è in fiamme. I musulmani hanno sferrato l’ennesimo
attacco finale per conquistare la zona dell’aeroporto e ‘pulire’ tutto
il nord dell’isola. L’ufficio del governatore è deserto, la compagnia
aerea non risponde. Decidiamo di tentare la traversata comunque. L’ipotesi
di restare ancora in mezzo agli scontri non mi piace affatto e così
finisco per raccogliere lo zainetto e m’incammino per l’imbarcadero. Il
marinaio dello speed boat ci accoglie come fosse un giorno normale, nonostante
sia il solo a fare servizio. Contrattato il prezzo (5 volte superiore al
normale) si decide a portarci dall’altra parte della baia, vicino all’aeroporto.
Ci sarà l’aereo? Insciallah. All’approdo di Laha c’è
solo un’auto. Gli speed boat caricano oltre le loro possibilità
gli abitanti del villaggio in fuga. Un gruppo di giovani ci chiede di restare
per combattere con loro. Vi saremo più utili se porteremo le
notizie in occidente, abbozzo io, nascondendomi dietro una mezza verità.
Hanno armi che sembrano giocattoli, corrono su è giù gridando
per farsi coraggio. Famiglie in fila indiana costeggiano la strada, cariche
di fagotti mentre il nostro autista suona il claxon a ripetizione, come
fossimo un’ambulanza. L’aereo ci aspetta sulla pista. Siamo in pochissimi.
Curiosamente la metà dei passeggeri è composta di poliziotti
armati.
L'inchiesta
è andata in onda su Raidue - Protestantesimo nell'ottobre 2000
|