Il diario di
chi ha perso tutto
profughi Kosovari a Tirana
di Paolo Emilio
Landi
La casa è
nel centro di Tirana, completamente allagato, immerso nel fango.
Passiamo tra migliaia di macchine che sfrecciano seguendo un percorso non
segnato tra le buche e le pozzanghere. I pedoni attraversano diagonalmente
la piazza, senza seguire il ritmo dei semafori che sono una pura formalità.
In un vicolo la strada si ferma e scendiamo. La casa al numero 9 è
dignitosa, ci accolgono in tanti. Lingue sconosciute, solo un uomo molto
alto, dall’aspetto gentile, si sforza di parlare in inglese. Poi cede alla
tentazione ed è un fiume di parole in kosovaro, di cui per il momento
non capisco che poche terribili onomatopee. La sua storia di profugo è
la più fortunata tra tutte quelle che ho ascoltato direttamente.
E’ esemplare nella sua brutale semplicità. E’ il comun denominatore
di 270 mila (al momento in cui scrivo) profughi dalla ex Yugoslavia.
Hidaverdi ,
professore di pedagogia e filosofia al liceo di Peja (ci tiene che non
si dica Pech che è il nome in serbo), è arrivato con sua
moglie, 45 anni, assistente sociale, e i suoi tre figli, due maschi e una
femmina (nomina prima i maschi e poi la femmina anche se lei è la
più grande).
Ecco in breve
la loro fortunata storia: mentre lui era a casa con i figli, domenica 28
marzo, la moglie tornava dal mercato con sottobraccio il pane. Vede per
strada e nel fiume che costeggia la loro casa, alcuni cadaveri. Giovani,
riversi con la testa all’indietro, come se fossero seduti con le gambe
in acqua. Si affretta. Giusto in tempo per trovare la polizia. Mascherati
alcuni individui danno loro 10 minuti per andarsene. Il marito corre
dal vicino, un amico serbo, ma… ‘non posso garantirti niente’, gli risponde,
comprensibilmente. Intanto Sabiha, la moglie, mette quanto può
nelle valige, vestiti pesanti (fuori piove), oggetti, ricordi, documenti,
denaro. Carichi come muli obbediscono: vanno alla piazza principale.
E’ gremita di gente che si cerca, di poliziotti che urlano. In una macchina
un pacco di cartelli: ‘si vende’. Hidaverdi pensa a tenere tutta la famiglia
unita, a non disperdersi,. Si consulta con gli occhi con gli amici e i
parenti che incontra. Qualche colpo di pistola li convince a mettersi in
fila ordinatamente. Ci sono camion militari scoperti e pullman. Hidaverdi
è un uomo fortunato, sale sul pullman coperto. Insieme a lui trecento
persone una sull’altra (letteralmente). Tre persone anziane moriranno durante
il tragitto. Via verso il confine. 5 ore sul pullman, scortato da blindati
e carri armati. 5 ore senza fermarsi mai, senza potersi muovere.
Alle 7 di sera,
arrivano a 10 km dal confine con l’Albania, il famoso Morina, vicino a
Kukes, dove sono passati già centinaia di migliaia di kosovari.
I serbi li scaricano in mezzo alla strada. C’è da camminare. Hidaverdi
prende per mano la sua famiglia e parte. La moglie è malata di cuore,
ma loro sono fortunati. Sono insieme. I bambini sono piccoli, ma possono
camminare da soli. In una lunga colonna composta da vicini di casa e da
perfetti sconosciuti, seguono la strada tortuosa verso il confine.
A un certo punto
si fermano. Un gruppo paramilitare separa le donne dagli uomini.
Chiede agli uomini 100.000 marchi (circa cento milioni), se rivogliono
le loro donne. Gli uomini offrono tutto quello che hanno. I
paramilitari serbi accettano. Hidaverdi, vede gli uomini e le donne attraversare
di corsa la strada che li divide. E abbracciarsi. E piangere. Lui è
stato fortunato, sua figlia è bellissima, ma non ha ancora l’età
per diventare un oggetto sessuale.
Riprendono il
cammino. Sabiha, la moglie, qui prende l’iniziativa. Arrivati al confine,
ancora una fila. Devono consegnare i documenti (senza i quali non potranno
tornare, non potranno ritirare i loro soldi in banca). Sabiha nasconde
qualcosa dentro i pantaloni. Consegna i dinari che ha in tasca, qualche
marco (76 per la precisione) e riesce a passare. Ha in tasca tre
passaporti. E’ fortunata, perché può provare la sua identità,
potrà, un giorno, forse dimostrare di essere la proprietaria di
quella casa, ora in vendita (se non già fatta saltare) a Pea, in
Kosovo.
Dal confine
serbo c’è un pezzo in salita, prima di arrivare alla famosa
sbarra rossa del confine albanese. Lì ci sono le camere delle
televisioni di tutto il mondo. Non è l’arrivo di un profugo, è
l’arrivo di una star. La CNN trasmette in diretta mondiale il loro passaggio
del confine. Chi lo avrebbe detto, solo 10 ore prima?
E’ sera. Non
ci sono mezzi di trasporto e loro cinque continuano per altri due Km verso
Kukes, la cittadina più vicina, ma le gambe cedono dopo due km.
Li raccoglie l’esercito albanese. E li porta al cinema della città
trasformato in dormitorio. A quel punto Hidaverdi e Sabiha non parlano
più. Entrano in uno stato confusionale. I bambini tacciono, troppo
stanchi per piangere e dopo poco si addormentano. Attorno la disperazione,
non c’è acqua, non c’è cibo, non ci sono bagni, ne’ materassi.
Ma almeno sono al coperto. Fuori fa freddo, qui è montagna. Si siedono
sulle loro valige. Di quella notte non ricordano nulla.
E’ già
mattino. Le strade polverose di Kukes si animano di trattori e di profughi,
mezzi militari, le camionette delle NGO. Le associazioni umanitarie stanno
appena arrivando. C’è una distribuzione dei pacchi umanitari del
World Food Program. Una schifezza molto energetica. Lo shock è stato
talmente forte che c’è qualcuno che ride.
Sabiha ascolta
una conversazione e sente che arriveranno dei pullman che li porteranno
a Tirana al centro sportivo. Che fortuna! Prende le sue cose, trascina
marito e figli al pullman. Per fare i 208 km di curve e buche che
li separano dalla capitale albanese ci mettono 10 ore. Ma almeno nel pullman
sono (solo) in 50. Il centro sportivo è organizzato come centro
di smistamento: sul parquet da basket un’isola di tavoli dietro i quali
i volontari distribuiscono pasti caldi e coperte. Intorno, sulle sedie
fisse decine di migliaia di sfollati. Si siedono ancora una volta.
Aspettano. Cosa non lo sanno. Ma ancora una volta la loro buona stella
li aiuta. Un’ora prima una donna di 30 anni, Sasha, albanese e cristiana,
aveva litigato con il marito perché ‘voleva fare qualcosa per il
Signore’. Sorda alle caute proteste del marito autista, aveva preso l’autobus,
raggiunto il centro sportivo. Ha chiesto a una famiglia a caso se volevano
andare a casa sua, ma erano in 12 e troppo numerosi. Poi ha visto
Sabiha e i suoi figli. Loro erano confusi: hanno detto ‘dove abita?’.
‘Poco distante’.
Ora vivono da
lei. Loro musulmani. Lei protestante.
Chiedo a Hidaverdi,
cosa pensa. Mi dice: ‘sono stato fortunato. Ho perso tutto: la mia casa,
il mio lavoro, i miei amici, i miei libri. Ma ho un tetto e i documenti
e i miei figli vanno già a scuola qui ’. Lo guardo e mi sembra che
ancora non sappia, dentro di se, che le possibilità di rivedere
Pea, la sua città, sono molto, molto poche.
L'inchiesta
è andata in onda su Raidue - Protestantesimo - 1999
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