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Presentazione di Vittoriano Esposito

A quarant'anni esatti dalla sua prima poesia, dedicata al suo paese natio, San Benedetto dei Marsi, Duilio De Vincentis si è deciso finalmente a raccogliere gran parte della sua produzione in dialetto, finora conosciuta solo da pochi intimi. Ne è venuto fuori un volume abbastanza corposo, importante non solo perchè si si aggiunge un altro, documento alla mappa linguistica della regione, per un'area poco indagata come quella marsicana, ma anche perchè con esso si rivendicano in qualche modo i dirilti della poesia "spontanea", "ingenua", "popolare", in un momento in cui la crilica sembra tutta schierata dalla parte della cosiddetta poesia "colta".
Noi stessi, per la verila, in un lontano pomeriggio degli anni ' 70, a seguilo di un incontro col poeta, cortesemente sollecilato dal compianto Nello Di Domenico, lo esortammo ad aver maggior cura di quel che si dice ancora, orazianamente, "labor limae". E nel dedicargli una pagina del nostro Parnaso d'Abruzzo (Edizione dell' Urbe, 1980) gli riconoscemmo "tutta la verve incontrollabile a incandescente del cantastorie", il quale, se da un lato mancava di "rifinilura tecnica", dall'altro però abbondava "di colore a di calore, sia che trattasse di motivi ironico-giocosi, sia polilico-sociali". E conludevamo nel rilevare che, se egli fosse riuscilo ad "affinare un po gli strumenti espressivi,", avrebbe indubbiamente ottenuto "risultati piu apprezzabili".
Duilio De Vincentis, dobbiamo dirlo con molta franchezza, non fece gran conto dei suggerimenti del crilico amico, nella ferma convinzione che il dialetto debba essere riprodotto rigorosamente sul modello del "parlato". In fondo, e la stessa tesi di certi dialettologi "puristi", che si rifiutano di credere che la poesia dialettale possa essere "inquinata" da operazioni letterarie. Una precisa eco di questa convinzione si trova in una pagina della raccolta, dal tilolo esplicativo I prufessore i dijalette chi i scrive, in cui De Vincentis polemizza garbatamente con chi gli richiede di scrivere "più élégante, frase ricércate, parole più vicine all'ilagliane, concette piu `ntricate, cumplicate" e riassume il suo pensiero al riguardo in termini motto semplici:
" J' sò ngnurante, care prufessore,/ però te sacce dice sole queste:
/ J' scrive quacche ccòse che i core, / to pòzze assicura ca sò', oneste. / Ne nsacce fa' le còse contro vòjje, / le sente i lle rescrive sòpre i fòjje.l Pe mmi `n uccelle è `ne passarilte, / sente parla la ggente cumma parle; / n' npòzze dice: quijje e `nne cellilte, / ne a chi parle, guarde ca tu sparle! / Nisciune la sintasse la chenosce, / sole i ciavajje te' la erre mosce."
Come si vede vi si rilrovano gli estremi di una vera a propria dichiarazione di poetica, i cui fondamenii sono di antica a nobile ascendenza: la sincerilà d'ispirazione (` j' scrive che i core" ricorda l'ei ditta dentro di Dante), l'aderenza al sentire comune (rimanda al culto romantico della popularpoesie) e la immediatezza della parola (si pensi a Saba che, ai primi del `900, postula la necessila di una poesia onesta).
Ne deriva che Duilio De Vincentis, pur sprovvisto di conoscenze specialistiche in materia (autodidatta, non ha seguilo dei corsi regolari di studio), ha tuttavia degnamente risolto, a modo suo, il difficile problema del far poesia.
E che la sua sia poesia, francamente, non si può negare: una poesia, certo, in linea con la tradizione ottocentesca e primo-novecentesca, che non ama quindi rotture col passato per inseguire delle novità nei contenuti e nello stile. Le motivazioni piu ricorrenti in lui, infati, sono di tipo ironico-bozzettistico: la stessa poesia d'apertura. I paese nòstre, che è del dicembre '51, contiene gia tutti gli spunti dei futuri sviluppi in tale direzione. Molte sono, complessivamente, le pagine che vi si agganciano in un modo o nell'altro: ad es. Mamme i jj', Ne mm'i recorde bbòne, I ricòrde de za Antunielle, A zà Seccurze, E' Ile pane, SanBeneditte, La Bbefane de `nna vote a tante altre, fino all'ultima I ggiòche de `nna vote, che è del giugno 1991.
Ineludibile, ovviamente, il contrasto tra il mondo evocato in queste poesie a la realtà presente: I munne d' ògge, La radie, I , tempe moderne, Iere i ògge, I tempe nòstre, I vecchie de `sti tempe e altre ancora, nascono da riflessioni malinconiche sulla fugacità degli anni e sui piccoli, ma autentici beni perduti.
Legato al passato, con modi inestricabili, a anche il ricordo dei sacrifici a degli stenti patili, come appare da I fòche di puverejje, J' emigrante i j paese si, 'Ste munne putesse esse mejje. Sono pagine in cui il sociale, sia pure intravisto a filtrato attraverso l'esperiznza ristretta del mondo paesano, assume dimensioni e significati non marginali nella visione generale della vila, della natura, della storia.
Una visione alimentata da saggezza realistica (cfr. "alla mamme dacce retta), ispirata prevalentemente dalla fede e dal rispetto del prossimo (cfr. L'amecizie, La libbertà esiste?), e intesa ad esaltare il bene senza nascondersi il male (cfr. La vile, La mala sorte, Séme nù che jeme contre i munne), e che non si affida ciecamente alle "verità" della scienza (cfr. La Creazione, L' esperienze a mejje della scenze), si arrende cristianamente alla fatalità delle sciagure (cfr. I tridece de ggennare, Dentre i 'spidale, A j 'spidale), trova insostiluibili i valori dell'amore e della famiglia (cfr. Dope venticinqu'anne, J'anziane, A mojjema, A `nna famijja gnove, `Na storie fantasteche pe ddu spuse), si dispone al godimento delle bellezze naturali, da difendere ad ogni costo (cfr. A primavere, L' istate, L' autunne, L' immerne).
Pur sulla base di queste indicazioni molto schematiche (poche rispetto al gran numero, un centinaio, di poesie contenute nella raccolta), si puo dire che la struttura d'insieme sia abbastanza solida in quanto sostanziata di temi e problemi che riguardano l'uomo, visto nella intera parabola tra il nascere e il morire. Degne di apprezzamento sono anche le strutture formali che, pur nella osservanza costante dei principi sopraccennati, acquistano via via sempre più in scioltezza ritmica la padronanza espressiva. Talchè si puo concludere tranquillamente col dire che Duilio De Vincentis, dopo quarant'anni d'impegno rigoroso con se stesso, ha ragioni orrnai più che sufficienti per meritare il suo posto nel Parnaso abruzzese.

VITTORIANO ESPOSITO
Dicembre1991- fotostampa Dominici, Avezzano

Ne sambenedittése


Qualche lettore si chiederà se c'era bisogno di un nuovo libro di poesie epperdippiù in «vernacolo» marsicano. Ebbene la risposta del tutto affermativa ce la suggerisce l'umiltà con la quale l'Autore porge alla nostra attenzione gli innumerevoli aspetti della vita quotidiana dell'«uomo marsicano», descrivendola, in dialetto sambenedettese, nei suoi fatti, ricordi, personaggi, sensazioni, usanze, costumi, ambiente, storie vere, in una sorte di grande affresco storico della nostra terra, dal terremoto del 1915 ad oggi, con lo scopo principale dì salvare proprio il nostro dialetto marsicano, di cui quello sambenedettese non è che un rivolo. Il poeta è entrato nei nostri capannelli ( sua reale, innata abitudine, ben conosciuta dai paesani che a lui serve per memorizzare quei «quadretti» di vita vissuta, poi così spontaneamente riportati sulla carta), è entrato
nelle nostre case, nei nostri discorsi per non farci dimenticare o meglio per farci riscoprire (soprattutto per le nuove generazioni) il gusto di chia-
mare le cose con il nome... originale (il dialetto non è forse l'origine della lingua?): j'appiccarame, la mastre, la tíllucce, la cantuniére, i zuffelitte, i
capefche, i cuncare, i manére, i mmuttìjje, la ruélle, i sciacquature, i pretelune, i scallalétte, la vrasce, i tirature. Ecco perché quel titolo così
sommesso, ma così caro ai ... vecchi bambini di S. Benedetto: zitte, zitte (nonnò) ca mo te racconte.
Un'avvertenza linguistica, forse superflua per qualche cultore: nel nostro dialetto, per via di certe assonanze borboniche - inconsce reminiscenze di antichi Reami - la pronuncia (e, quindi la lettura) deve essere rapportata a certe regole della «chiara» lingua cartesiana, per cui - per esempio - la «e», se non accentata, è muta (alla francese, c'è, ma non si sente, o almeno così sembra), sia alla fine che nel corpo della parola; la «j» deve essere resa proprio con quel suono «moujlle» e si diverta, poi, il lettore nel ríscopríre lontane «parentele» linguistiche (la ruélle non è forse una piccola strada stretta, non è una piccola «rue» - via?).
Vatt'affide a i díjalétte! ! !


 

 

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