Martin
Heidegger nasce a Messkirch, nel Baden, in Germania. Si laurea in filosofia a Friburgo nel 1913 con una tesi su La teoria del giudizio nello psicologismo, dopo avere seguito corsi di filosofia e teologia. Nel 1915 ottiene la libera docenza grazie a una dissertazione su La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto. Nel 1916 diventa assistente di Husserl fino al 1923, anno in cui ottiene una cattedra a Marburgo, dove insegna fino al 1927, anno della pubblicazione della sua prima opera importante, Essere e Tempo. L'anno successivo viene chiamato a Friburgo per prendere il posto di Husserl, il quale aveva lasciato l'insegnamento. Nel 1933, in seguito alla sua nomina a rettore dell'Università di Friburgo, aderisce al nazismo, ma l'anno successivo rinuncia all'incarico e si chiama fuori da qualsiasi coinvolgimento politico. Heidegger si ritirerà dalla vita pubblica fino alla caduta del regime, pur continuando ad insegnare fino al 1944, anno in cui la Germania viene occupata dagli alleati e gli viene interdetta la possibilità di insegnare da parte degli americani. A partire dal 1951, aiutato a reintrodursi nel mondo accademico dall'amico Karl Jaspers (che aveva rotto i rapporti con lui al tempo dell'adesione al nazismo), Heidegger ritorna progressivamente ad insegnare, prima tenendo seminari privati, poi corsi di insegnamento ufficiali. Nel 1955 si ritira definitivamente dall'insegnamento e vive in una baita immersa nella Foresta Nera, a Todtnauberg, dove vive fino alla morte. Controversa
la vicenda della sua adesione al nazismo: si è scritto molto
su questo, le tesi sono contrastanti, sta di fatto che Heidegger si
allontanò dopo un anno di frequentazione dagli ambienti politici
per dissensi sul biologismo razziale. Va però ricordato che durante
il periodo dell'adesione chiese di destituire dalla carica di insegnante
il futuro premio Nobel per la chimica H. Staudinger, perché,
a suo dire, inaffidabile per il nazismo, vista la sua posizione pacifista
durante la I° guerra mondiale. Al di la di queste considerazioni, il suo pensiero riveste comunque una fondamentale importanza per le vicende della filosofia contemporanea e non è implicato direttamente ai travagli pubblici e politici del suo autore. Opere principali: Essere e tempo (1927); Che cos'è metafisica? (1929); Kant e il problema della metafisica (1929); L'essenza del fondamento (1929); La dottrina platonica della verità (1942); Lettera sull'"umanismo" (1947); Saggi e discorsi (1954); In cammino verso il linguaggio (1959); La tecnica e la svolta (1962); La questione del pensiero (1969); Segnavia (1976). E anche Kant e il problema della metafisica, L'essenza del fondamento, Introduzione alla metafisica, Sentieri interrotti, Nietzsche. * Sommario 1. Premessa: alla ricerca dell'essere 3. La differenza ontologica: l'essere come mostrarsi dell'ente 5. Esistenza autentica e inautentica 6. L'angoscia: ovvero, come la finitezza dà un senso alla vita 7. L'essere non ha fondamento, la tecnica non può intaccare l'essere 8. La verità come disvelamento
Quella di Heidegger è una filosofia rivolta a carpire l'autentico significato dell'essere, lo stesso Heidegger definisce la sua ricerca filosofica ontologia (=scienza dell'essere), ma non un'ontologia metafisica, bensì un'ontologia fenomenica. Quello della ricerca dell'essere è un tema classico della filosofia: identificare la vera essenza dell'essere (ovvero, ciò che esiste per necessità e che non abbisogna di nessun altro ente per esistere, nell'accezione comunemente formulata da Parmenide) significherebbe conoscere una volta per tutte la reale natura della nostra esistenza (in quanto noi, uomini esistenti, abbiamo pur sempre un qualche genere di rapporto con l'essere). Tuttavia le posizioni di Heidegger porteranno, come vedremo, a una rottura con tutta la tradizione ontologica precedente. Heidegger, per individuare l'autentico senso dell'essere, parte da posizioni fenomenologiche (il suo maestro fu Husserl). L'essere che intende indagare Heidegger non ha alcunché di metafisico, esso è la manifestazione reale di uno stato di esistenza che si mostra nella vita per come viene vissuta e percepita. L'ontologia di Heidegger non è quindi metafisica ma studio dell'essere come si manifesta nell'esistenza che appare all'uomo, ente privilegiato in quanto vivente sulla propria pelle la stessa condizione dell'esserci ("dasein"; si vedrà più avanti il significato di questa affermazione). ""Fenomenologia", rivela Heidegger, è il lasciar vedere il fenomeno, ossia ciò che si manifesta in sé stesso e da sé stesso. E ciò che si manifesta non è una "semplice apparenza" di una "cosa in sé" inconoscibile, ma è ente." (E. Severino, La filosofia contemporanea). Mentre l'ontologia metafisica del passato intendeva dunque l'essere come ciò che non muta ed è eterno, e proprio per questo si impone come presenza eterna e immutabile al di là dell'apparenza diveniente della realtà, per Heidegger l'essere dedotto fenomenologicamente non può che acquisire le caratteristiche proprie della realtà, e quindi essere soggetto alla temporalità propria degli enti per come si mostrano. In "Essere e tempo", Heidegger indaga la problematica dell'essere, cercando di carpirne la vera natura. Egli nota come per l'intera ontologia tradizionale del passato l'essere è qualcosa che si da per scontato che esista, al di là dell'apparenza del mondo, per cui l'essere è una presenza che mai si mostra ma che si intende fondare come qualcosa di necessario in modo da impedire una caduta nel niente degli enti, i quali, secondo una distinzione platonica, sono corruttibili nel mondo fisico mentre sono incorruttibili (una loro parte essenziale) in un mondo metafisico al di là dell'apparenza. Questo
atteggiamento tradizionale nei confronti dell'essere va ripensato, secondo
Heidegger. Secondo
il filosofo tedesco non si può pensare un qualsiasi essere metafisico
senza ricondurlo alla condizione propria dell'esserci ("dasein").
L'esserci è la condizione dell'uomo che vive una condizione
di esistenza determinata e situata, ovvero il suo vivere ed essere un
uomo, condizione originaria a qualsiasi pensiero o considerazione. Ma
che cos'è, in concreto, l'esserci, ovvero l'esistenza
stessa degli uomini? Per
Heidegger il significato della vita degli uomini è quella di
prestarsi alla possibilità e al progetto. Esistere significa
infatti per Heidegger "ex-sistere", ovvero non essere
più "un permanere", ma costantemente andare oltre questo
permanere, verso la possibilità aperta, verso la novità
degli accadimenti che permettono all'esistenza di mutare nel corso del
tempo (esistere è divenire).
Esistere, per l'uomo, significa quindi tendere
sempre verso una nuova sistemazione della realtà. La condizione esistenziale, l'esserci, è quindi mutamento. Heidegger afferma che il senso autentico dell'essere è fondamentalmente il senso stesso dell'esserci. Come si è visto l'essere non può essere posto come qualcosa di indipendente dall'esistenza dell'uomo, poiché questo rappresenta una forzatura, un arbitrio che pone l'essere come presenza immutabile al di là dell'esistenza dell'uomo. Da questo ne deriva che, per Heidegger, l'essere deve essere il significato stesso dell'esistenza umana per essere davvero autentico. Quindi l'essere è tempo, ovvero l'essere ha i caratteri dell'esistenza stessa degli uomini: l'essere è mutabile, temporale, soggetto al divenire, l'essere è quindi il gioco stesso degli enti che si mostrano nel mondo, l'essere è questo lasciarsi mostrare degli enti e degli avvenimenti. Essere e Tempo è un libro incompiuto ed è in compiuto perché, a detta dello stesso Heidegger, ad un tratto il linguaggio che aveva a disposizione non permetteva più alcun approfondimento significativo del concetto di essere, le parole e il loro significato non bastavano più a chiarirne la natura, poiché tutto il linguaggio umano risente della concezione dell'essere come "permanenza trascendentale" e immutabile, atemporale. Se l'essere è il lasciarsi mostrare degli enti, allora significa che l'essere non è la stessa cosa degli enti. Vi
è una differenza ontologica, ovvero una differenza propria nell'essenza
stessa, tra l'essere e l'ente: i singoli enti (le singole cose che
esistono) non hanno alcun legame diretto con l'essere, l'essere è
altro dall'ente, l'essere non è l'esistere delle cose (degli
enti), l'essere è in realtà l'orizzonte entro il quale
gli enti si manifestano. Nell'ontologia
di Heidegger l'evidenza del mutamento è talmente palese (fondata su
principi fenomenologici) che occorre necessariamente affermare il divenire
di ogni cosa, anche di quell'essere che era stato sempre inteso come
ciò che vi è di immutabile nel mutamento. Dunque l'essere è l'orizzonte entro il quale gli enti si manifestano e acquisiscono così la qualità di esistere (ovvero il loro semplice manifestarsi come enti). L'essere diventa così un evento fenomenologico e l'ente che per eccellenza sente ed è in grado di percepire e di avere coscienza dell'essere come fenomeno è l'uomo, poiché solo l'uomo è in grado di percepire coscientemente la sua esistenza, attraverso la quale si manifesta l'intero percorso dell'essere (ovvero del mostrarsi delle condizioni di mutamento che caratterizzano l'esistenza). Solo l'ente (soggetto esistente) che si pone la domanda sull'essere può dare una risposta soddisfacente alla questione: l'ente che si pone la domanda è l'uomo, cosciente di essere esistente e di vivere la condizione dell'esserci ("da-sein"=essere qui). Tale concetto è prettamente esistenziale, in quanto Heidegger afferma che la condizione imprescindibile dell'uomo è quella di essere necessariamente situato nel mondo, senza possibilità di scelta (l'uomo non può scegliere, dal momento della nascita la vita ha scelto per lui la condizione di "essere-nel-mondo"). L'uomo non vive allo stesso modo di un pezzo di metallo. Il metallo è già compiuto in sé, è una semplice "presenza", come già visto, invece, l'uomo trascende sempre se stesso (ex-siste), è continuamente proteso a ciò che non è e potrebbe essere: l'uomo, dotato di coscienza, progetta continuamente la sua vita rapportandola al futuro, è questo slancio in avanti che rende l'uomo non una semplice "presenza", ma un' "esistenza", sottoposta alla storia e al tempo, in altre parole, al divenire. L'esistenza dell'uomo può autenticamente svilupparsi entro la possibilità della libera scelta solo se comprende il senso dell'essere come orizzonte entro qui è possibile il libero "gioco" del divenire. La libertà che è concessa agli enti dal nuovo senso dell'essere è ciò che libera anche l'uomo da ogni necessità e lo rende capace di scegliere da sé e in assoluta libertà quale percorso vivere. Nella condizione dell'esserci, l'uomo sperimenta dunque il senso più autentico dell'essere, ed è da questa analitica esistenziale che è possibile, secondo Heidegger, mostrare il vero significato dell'essere.
Nie capitoli precedenti si è parlato della condizione dell'uomo come "esser-ci" (da-sein). Tale condizione è la condizione naturale e imprescindibile in cui l'uomo viene a trovarsi, senza possibilità di scelta, situato nel mondo. Tale condizione esistenziale ha due modalità, due possibili modi di essere vissuta: quella autentica e quella inautentica.
L'esistenza
autentica è quella per cui l'uomo sceglie di vivere coscientemente
il suo carattere di ente che progetta e tende al futuro, un ente che
esce da sé continuamente, in grado di slanciarsi verso ciò
che potrebbe essere. L'esistenza autentica è quindi quella che
accetta il suo carattere diveniente, che comprende, inevitabilmente,
la possibilità della nullificazione (della morte e del termine
della propria attività di "ex-sistere"). L'esistenza
inautentica, per contro, è l'esistenza condotta dall'uomo
che rifiuta il proprio carattere diveniente e l'apertura libera da ogni
immutabile che l'essere gli mette a disposizione: l'uomo che vive
l'esistenza inautentica rinuncia alle scelte relative al proprio tendere
in avanti, rinuncia al futuro e a qualsiasi progetto, rifugiandosi
nei rimedi metafisici che hanno lo scopo di renderlo immortale (le metafisiche
e le teologie classiche). Questo atteggiamento
è chiamato da Heidegger "deiezione", ovvero diventare
una cosa come le altre, ente tra gli enti. L'uomo vive inautenticamente
dimenticandosi della propria condizione esistenziale di essere mortale
e soggetto al divenire, vivendo come un oggetto che si crede immortale,
per convenienza. Tali tematiche sono tipicamente esistenziali, tanto che l'esistenzialismo trarrà molti concetti dal pensiero di Heidegger (si veda ad esempio il concetto di esistenza come contingenza di Sartre), tuttavia Heidegger rifiuterà sempre ogni coinvolgimento con l'esistenzialismo, considerando la sua opera un indagine principalmente ontologica, e non esistenziale (il rifiuto della lettura esistenzialista della sua opera è contenuto in "Lettera sull'umanismo"). Dunque, come già detto, l'esistenza autentica è un "vivere-per-la-morte". Per Heidegger (e qui vi si possono leggere forti analogie con Kierkegaard) l'angoscia è la paura che nasce dalla consapevolezza che con la morte tutto si annulla. Mentre per Platone il saggio vive accettando la morte come possibilità di arricchimento, nella consapevolezza che il corpo è un ostacolo alla conoscenza, Heidegger ammette senz'altro che con la morte giunge l'annullamento. Come rendere positiva una vita che si progetta in tale prospettiva? Heidegger afferma che la nostra vita può svolgersi entro un orizzonte autentico solamente se le nostre scelte sono rapportate alla nostra finitezza. Se le nostre scelte fossero svolte entro un ambito di vita eterna, perderebbero di significato, perché non comporterebbero alcuna assunzione di responsabilità, in quanto ogni evento e ogni scelta potrebbe essere ripetuta all'infinito, ogni strada potrebbe essere battuta, superando quel principio di esclusione (l'aut-aut kierkegaardiano) per cui una decisione comporta alcune conseguenze e non altre: una vera condanna all'eternità, nella quale ogni scelta ci risulterebbe indifferente, e la vita stessa perderebbe di significato, cedendo all'apatia e all'indifferenza. In sostanza Heidegger pone la "vita-per-la-morte" come concetto positivo: solo la consapevolezza della nostra finitezza è in grado di produrre quel significato e quell'attenzione per le cose del mondo che non potremmo avere se, perduti nell'eternità, avessimo la consapevolezza di potere goderne in eterno. L'angoscia
che deriva quindi dalla consapevolezza della nostra finitezza, oltre
ad essere uno stato emotivo indissolubilmente legato all'esistenza autentica
è
anche un sentimento positivo, necessario a dare significato autentico
alla nostra vita (chi vive nell'esistenza
inautentica tende invece a dimenticare la morte e ad allontanare l'angoscia,
quasi analogamente alle meccaniche pascaliane del "divertissement"). La civiltà della tecnica che domina il mondo contemporaneo è un'estremizzazione del pensiero metafisico classico, in cui vi è un soggetto (l'uomo) che intende dominare, con la sua volontà di potenza sulle cose, degli oggetti che sono altro da sé. L'essere degli enti si identifica allora con il ruolo e la funzione che vengono loro assegnati all'interno del sistema della tecnica. "Heidegger vede nell'organizzazione totale della tecnica la forma più radicale dell'episteme metafisica, e cioè dell'apparato che rende impossibile il divenire storico dell'esistenza. L'oblio dell'essere, così, è divenuto totale. E al posto dell'impotenza, finitezza, effettività dell'essere e del progetto che lo assume come sfondo, compaiono tutte le forme di assicurazione, controllo, organizzazione dell'ente all'interno dell'esistenza scientifico-tecnologica." (E. Severino, La filosofia contemporanea). L'essere si svela e rende possibile la manifestazione degli enti secondo proprie logiche oscure e inconoscibili. E' infatti impossibile sapere il modo in cui, all'interno dell'orizzonte che lascia manifestare gli enti, questi enti si producano e a quale legge si conformino. L'essere è quindi senza alcun fondamento, esso non può avere alcun fondamento perché si configura come il semplice lasciarsi mostrare da parte degli enti. Nessuna legge metafisica può allora prevedere come gli enti si manifesteranno nel futuro, poiché l'essere è conseguenza dell'esistenza e non viceversa. La tecnica moderna si configura invece come dominio dell'uomo sulle cose, l'uomo crede che l'essere delle cose sia soggetto al suo dominio, in realtà l'uomo non è il padrone dell'essere, l'uomo è tutt'al più il "pastore" dell'essere, ovvero il custode di quella dimensione che rende possibile agli enti di manifestarsi, custoditi nell'esistenza stessa dell'uomo, la quale si manifesta proprio entro l'orizzonte aperto dall'essere. L'essere sopravvive al tentativo di dominio della tecnica perché non è un ente concreto, l'essere è solamente la condizione in cui gli enti si manifestano, e la tecnica può solo occuparsi degli enti concreti (quindi non dell'essere).
Heidegger nota come nella filosofia presocratica sia stata concepita un'idea di verità che, relativamente alla sua etimologia, si addice più che mai al senso dell'essere da lui proposto: per i greci la verità è aletheia, ovvero "ciò che non è nascosto, che si manifesta" (a- come privativo di lethe "nascosto"). La verità è quindi l'essere stesso, ovvero ciò che permette agli enti di manifestarsi e di rendersi visibili e concreti alla percezione degli uomini e all'orizzonte del mondo. Tuttavia questo senso della verità si è spento con l'avvento della metafisica, in cui l'essere ha acquistato le caratteristiche dell'ente immutabile. "E' a quella esperienza originaria dell'aletheia che Heidegger riconduce il senso non metafisico dell'essere. L'essere è l'emergere dal nascondimento: [...] nel senso che la luce, l'apparire in cui l'essere consiste, proprio perché illumina e lascia apparire, illumina e lascia apparire gli enti e quindi attira ogni attenzione sull'ente, si che proprio la luce che illumina si sottrae alla dimensione che essa rende visibile." (E. Severino, La filosofia contemporanea). L'essere,
quindi, rende possibile la manifestazione degli enti poiché consiste
nel loro manifestarsi, e proprio per questo l'essere concede la sua
luce all'ente "ritirandosi dal palcoscenico", ovvero perdendo
quelle caratteristiche di presenza proprie dell'ente illuminato,
illuminato dallo stesso essere che non concerne all'ente (in virtù
della differenza ontologica).
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di Synt - ultimo aggiornamento 06-02-2005
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