I venti di guerra in Medio Oriente continuano a soffiare con crescente ed alterna intensità. Questa atmosfera non poteva non condizionare un appuntamento tradizionale, quale è ormai, dal 1968, la Marcia per la Pace, organizzata congiuntamente dalla Commissione CEI "Giustizia e pace" e dal movimento "Pax Christi", e svoltasi questo capodanno, a Cremona.
La "Pacem in terris" rivisitata
E' dalla "Pacem in terris" giovannea
che è venuta la Marcia per la Pace. Del celebre documento di Papa
Roncalli, "vero crinale nella storia della Chiesa e del mondo" (come lo
ha definito Mons. Bettazzi), ricorrono quest'anno i quarant'anni dalla
pubblicazione.
Al mondo, allora polarizzato fra
area capitalista ed area comunista, Papa Roncalli propose - secondo Bettazzi
- una "costruzione" della pace più ampia di quella corrente: ispirata
allo shalom biblico, essa poggiava su quattro "pilastri": la verità,
la giustizia, la libertà e l'amore. Una verità "non solo
speculativa - sono ancora parole di Bettazzi, nella dichiarazione resa
in occasione della Marcia -, ma verità dell'uomo, di ogni persona",
una giustizia che si identifica con "la solidarietà", una libertà
che va affrancata da una visione individualistica ed asservita ai più
forti ("la libertà di una volpe in un pollaio", ama ripetere Bettazzi),
un amore non solo impulso 'facoltativo', ma collegato alle esigenze della
giustizia. Le vicende di questi anni hanno mostrato quanto queste istanze
siano state disattese o comunque sottovalutate; è cresciuta, per
Bettazzi, la divisione fra popoli ricchi e poveri: gli uni attrezzati economicamente
e militarmente e pronti a trarre i massimi benefici dalla globalizzazione,
gli altri discriminati ed addirittura "strangolati" nella loro condizione
di dipendenza.
Non c'è dunque pace senza
giustizia, ama ripetere il Papa Giovanni Paolo II, mettendo a frutto la
lezione dell'altro Giovanni. Laddove "giustizia" non è solo dovere,
o impulso individuale - di chi si sente 'giusto' - ma si apparenta allo
"jus", al "diritto" - come ha ricordato il vescovo di Cremona Mons. Dante
Lafranconi, durante l'omelia della messa conclusiva - la cui necessità
è sempre più avvertita ed invocata a livello di rapporti
internazionali. E le conseguenze drammatiche della carenza di una giustizia
cosiffatta le ha proposte padre Zanotelli, nella testimonianza più
forte e più incisiva della serata. Al punto che i partecipanti avrebbero
voluto prolungarla, a costo di ridurre danze e coreografie, programmate
per esigenze televisive.
In marcia,
a stomaco vuoto
Hanno digiunato e marciato (ad un certo punto è diventata una vera corsa, hanno riferito alcuni partecipanti) in cinquemila, nella notte di Capodanno, fra i botti e le luminarie di Cremona. Già, il digiuno, nel cuore dei bagordi e dei brindisi di Capodanno. Non si digiuna solo per desiderio penitenziale (in quel momento, poi!), ma per condividere, almeno per un giorno, la condizione anche fisica di chi digiuna non per scelta ma per necessità (e non solo a Capodanno!). Che è poi la condizione dominante nei 4/5 dell'umanità, di quelli - un miliardo e trecento milioni di persone - costretti a cavarsela quotidianamente con meno di due dollari. Su questi problemi si misura, dunque, l'istanza della pace. E ci si accorge subito di quanto permanga fragile, in assetti internazionali, in cui non si vuole o non si osa affrontare alla radice quei problemi.
Un problema
ecclesiale
C'è un'altra ricaduta dell'Enciclica giovannea, questa volta, in ambito ecclesiale. Come ancora ha osservato Mons. Bettazzi, la "Pacem in terris" spingeva la Chiesa (ed, in particolare, il Concilio ecumenico allora radunato) nella direzione della lettura/decifrazione dei "segni dei tempi", un terreno meno 'sicuro' delle enunciazioni dogmatiche, da proclamare e ripetere tali e quali, ma tale da prefigurare nuove dimensioni e nuovi scenari della missione ecclesiale. E' l'attenzione alle persone a passare in primo piano, alle loro situazioni e ai loro problemi, fino alla celebre distinzione roncalliana fra "errore ed errante". Un messaggio, conclude Bettazzi, attuale, "un programma efficace e sincero di pace", che vincola la stessa Chiesa ad un effettivo "rispetto di ciascuno", al suo interno, ad una maggiore attenzione "ai poveri e ai meno provveduti", "ad un incoraggiamento alla libertà, con tutti i rischi".
Un Papa
"unilaterale"?
Sul tema della pace i pronunciamenti
pontifici, dopo la "Pacem in terris" sono praticamente innumerevoli. Soprattutto
nel pontificato di Giovanni Paolo II. Sul recente appello del Papa alla
pace interviene, sulle colonne del Corriere della Sera, Ernesto Galli della
Loggia. All'illustre commentatore l'intervento papale appare segnato da
un "carattere radicale", ulteriormente accentuato dalle tante voci ecclesiali
che l'hanno chiosato e rilanciato. "Radicale, dunque unilaterale", conclude
Galli della Loggia, a cui viene il sospetto che "la pronuncia pacifista
papale raggiunga il suo diapason quando c'è di mezzo l'Occidente".
Ancora una volta la lettura che
si dà del magistero pontificio, nell'attuale agorà culturale,
non riesce ad uscire dagli schemi e dal metro politico, quando, in realtà
quell'insegnamento vola molto più alto, ad un livello etico-sociale.
Laddove, se non erro, un valore, invocato e sostenuto, non è
barattabile con qualche vantaggio, sia pure rilevante, nell'ordine politico.
La pace, sostiene il Papa, vale di per sé, non è negoziabile
con qualcosa d'altro, anche se la sua ricerca e la sua attuazione
esigono mediazioni ed accordi nella sfera politica. La trascendenza della
pace quale valore etico sulla politica non esclude anzi richiede le necessarie
mediazioni fra interessi in conflitto. Ed il segnale di qual valore assoluto
sta nel fatto che la sua violazione - la guerra - arreca un tale cumulo
di distruzioni e di morte, da non potersi compensare con alcun vantaggio
raggiunto. Foss'anche il poter mettere le mani sui giacimenti petroliferi
dell'Iraq.
d.p.a.