Progetti e studi di architettura | ||
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TEMPIO
Gli artisti
II piano iconografico del Tempio fu certamente stabilito dagli "intellettuali" di corte; ma a determinare l'assetto decorativo nel suo insieme fu preposto il veronese Matteo de' Pasti, che può essere considerato l'architetto (ma forse sarebbe meglio dire "l'arredatore") dell'interno, oltre che il "direttore dei lavori" di tutta la fabbrica. E il suo nome, con la qualifica appunto di architetto (MATTEI. VS. D.P. ILLUSTRIS. ARIMINI. NOBILISS. ARCHITECTI. OPUS.), era infatti scolpito nella trabeazione esistente fra la prima e la seconda cappella di sinistra, opposto a quello dello scultore Agostino di Duccio (OPUS. AUGUSTINI. FLORENTINI. LAPICIDIAE). Ma chissà per quali motivi (o forse solo per il capriccio o l'orgoglio di Sigismondo, che voleva unicamente il suo nome presente nell'edificio?) le due iscrizioni furono scalpellate, e non ne restano che deboli tracce. Anche gli ordini dell'Alberti dovettero essere determinanti per la decorazione, che in senso assoluto predilige alla pittura l'incrostazione marmorea e la scultura, proprio come è stabilito nel trattato sull'architettura. E' da notare inoltre che alcuni passi di un altro trattato dell'Alberti, quello sulla pittura, rivelano analogie strettissime con le sculture del Tempio Malatestiano: "Da una piega nascano molte pieghe ... e in queste medesimamente si vedano tutti i moti, tal che non vi sia alcuna piega di panno nella quale non si ritrovino tutti i detti moti. Ma siano tutti i moti ... moderati e dolci ... da la qual cosa ne verrà ancora quella grazia che quei lati dei corpi che saranno battuti dal vento appariranno quasi ignudi sotto il velamento del panno: e dalle altre parti i panni agitati dal vento faranno pieghe, inondando l'aria, bellissime". Queste parole dell'Alberti si adattano perfettamente, certo non a caso, a molti bassorilievi del Tempio scolpiti da Agostino negli ultimi anni della sua attività riminese. Attorno a Matteo De' Pasti e ad Agostino di Duccio ruotava tutta una schiera di capimastri e architetti, muratori e carpentieri, lapicidi e pittori. Per molti anni il Tempio Malatestiano è stato in un certo senso un grande cantiere collettivo, dove l'apporto di ciascuno era sottomesso alle direttive ed al controllo dei due maggiori responsabili - appunto Matteo ed Agostino - ed al giudizio ed all'approvazione del committente, Sigismondo. La presenza dei due artisti è documentata a Rimini dal 1449. Di solito si pensa che la loro attività riminese sia iniziata nel 1446, sulla scorta della data presente su diverse medaglie attribuibili con certezza a Matteo; ma tale data è puramente commemorativa e simbolica (come lo è d'altronde quella più volte scolpita all'esterno ed all'interno del Tempio: 1450,1'anno santo, l'anno del giubileo). Matteo De' Pasti ed Agostino di Duccio probabilmente giunsero a Rimini solo nel 1448 o all'inizio del 1449; poiché a quella data la struttura muraria delle prime due cappelle era già stata costruita (forse dalle stesse maestranze locali che stavano per concludere i lavori del castello di Sigismondo) i due artisti avrebbero dovuto occuparsi unicamente della sua decorazione. Decorazione che probabilmente ebbe una sua prima definizione ad opera del Pasti, il quale diresse anche la costruzione "in stile" delle cappelle necessarie a completare l'edificio, quando Sigismondo ne decise il rifacimento totale. Dopo l'arrivo del progetto albertiano il Pasti, che con il grande architetto dovette tenere una fitta corrispondenza, ne curò la realizzazione. Tutta l'organizzazione tecnica del cantiere dipendeva da lui, che dal 1452 si giovò della collaborazione di costruttori esperti come Matteo Nuti (l'architetto della biblioteca malatestiana di Cesena) e Cristoforo Foschi, e di abili carpentieri come Alvixe e Giovanni de'Cinquedenti. Il fiorentino Agostino di Duccio fu l'assoluto protagonista di tutta la vicenda scultorea del Tempio, almeno dal 1449 al 1457; ma alle sue dirette dipendenze aveva una folta schiera di sbozzatori e di scultori abbastanza esperti per tradurre nella pietra bozzetti e disegni; ad essi era affidata, oltre all'esecuzione anche l'invenzione di particolari decorativi secondari. Conosciamo i nomi di alcuni di questi aiutanti: come Giovanni di Francesco e Pellegrino di Giacomo, veneziani, Bartolomeo Camarotti, fiorentino, Agostino da Carona, bergamasco. Nel 1456 cominciò a lavorare nel Tempio anche un fratello minore di Agostino, Ottaviano, che rimase a Rimini al servizio di Sigismondo per quasi un decennio. Il grave impegno dell'invenzione, dell'esecuzione e della direzione dell'apparato scultoreo di tutto l'edificio non impedì ad Agostino di allontanarsi da Rimini per qualche viaggio o qualche impegno di lavoro. Nel 1454 era sicuramente a Cesena; poco dopo dovette lavorare per Santa Maria di Fornò, vicino a Forli. Intorno al 1450-51 è da porre un breve soggiorno fiorentino, importante per comprendere l'evoluzione del suo stile: è da notare che, essendo stato bandito da Firenze nel 1441 per un furto d'argento, il suo ritorno in patria sarà stato possibile solo grazie ad una potente protezione (senz'altro di Sigismondo), per mitigare, o far dimenticare la condanna. Può sembrare strano, ma le sculture del Tempio sono state riconosciute come opera di Agostino solo dalla fine dell'Ottocento: prima erano state attribuite ad artisti come Francesco Laurana e Luca della Robbia, Bernardo Ciuffagni e Simone Ferrucci. Ancor oggi ogni tanto si leva qualche voce a mettere in dubbio l'attribuzione di tutte le sculture riminesi ad Agostino, soprattutto per avanzare il nome di Matteo de' Pasti. Al quale, veramente, più che l'invenzione di qualche elemento plastico (i fastosi baldacchini sui sepolcri degli antenati e di Isotta, per esempio) e della struttura decorative generale (ma con qualche correzione dovuta all'Alberti), non sapremmo cosa attribuire; oltre alle famose medaglie malatestiane, naturalmente, che sono fra i massimi capolavori della medaglistica rinascimentale. Per quanto riguarda i pittori, il 7 aprile 1449 Sigismondo scriveva a Giovanni de' Medici: "Del maestro dipintore, perché ancora le cappelle sono pur fresche, non seria da depingerle per lo presente, perché seria opera buttata via; ma teen dico che mia intenzione è cosi: voglio in questo mezzo che le cappelle predicte seranno de depingerle, adoperarlo in depingere altro, che et a lui et a mi serà grandissimo piacere, et acciò che lui me possa servire, et poi ancho perché me scrivite gli bisogna denari, mia intenzione volerne comporre con lui, e dargli tanto l'anno, e farlo sicuro, dove gli piacerà, de avere quanto gli serà promesso, sicché piacciavi sapere la intenzione sua di quello che domanda, et avvisatemene perché mia intenzione è volerlo trattare bene, acciò venga a vivere et morire nelle terre mie; salvo che voi, compater, non lo destolite, et acciò intendiate, lo voglio torre a provisione, et affatigandose per suo piacere o non, non gli mancherà la provisione mai". Non sappiamo quale artista aveva proposto o presentato Giovanni de' Medici a Sigismondo. Ma pochi anni dopo troviamo a Rimini Piero della Francesca, che nel 1451 firmava l'affresco della sagrestia compresa fra le prime due cappelle del Tempio. Nel 1454 poi, tramite il fiorentino Agnolo della Stufa, Sigismondo commissionò a Filippo Lippi un dipinto raffigurante san Girolamo, per la terza cappella: dipinto che non pare sia mai stato eseguito, nonostante il regolare versamento della caparra. Dei pittori che realizzarono nel Tempio varie decorazioni (e specialmente le finte tappezzerie dietro al sepolcro d'Isotta e nelle lunette di quasi tutte le cappelle) non si conoscono i nomi; quelle decorazioni, ora pressoché scomparse, accentuavano lo sfarzo cortese dell'edificio e contribuivano a conferirgli un tono profano, con i loro arabeschi stilizzati derivati direttamente dai sontuosi broccati che ricoprivano le pareti delle dimore principesche. Naturalmente artisti come Leon Battista Alberti e Matteo de' Pasti, Piero della Francesca e Agostino di Duccio, Matteo Nuti e Filippo Lippi hanno ben poco in comune fra di loro. L'elemento di coesione di questo gruppo era costituito soprattutto da Sigismondo, con la sua personalità forte e volubile, con la sua curiosità di cose nuove e con il suo gusto per un'arte insieme fastosa e raffinata. Il principe veniva minutamente informato di tutto ciò che riguardava il Tempio - cioè dei progetti, delle varianti, delle discussioni, delle difficoltà e dei progressi anche quand'era lontano, come dimostra la parte superstite del suo carteggio.
S'intuisce facilmente che a lui spettava l'ultima parola, e che al suo giudizio era riservata ogni decisione di una qualche importanza. Questo fatto è da tenere ben presente quando si considera l'arte cosi raffinata ed intellettualistica, e cosi lontana dai problemi della realtà - del Tempio Malatestiano: che oltre tutto è una precisa e cosciente espressione politica, ed un potente strumento politico. Il principe, anche attraverso questa iniziativa "devota", tentava di legittimare ed aumentare il suo potere.
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