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Racconti |
SARAJEVO
La piazza del mercato aveva un ingresso a piastrelle. Piastrelle slavate, un tempo bianche. Adesso le incrosta la melma e qualche brandello di muro.
Ci sono giorni in questa nuda campagna, in cui camminando ho un soprassalto: un tronco secco, una schiena di roccia, mi sembrano corpi distesi.
Sul colle e sul ponte di ferro fischiano spari. Colpi isolati come in tempo di caccia oppure rosari di raffiche.
I bambini sono angeli che piangono per strada sotto buffi cappelli. Portano al collo camere d’aria esplose e vanno per i cimiteri dei treni alla ricerca di locomotive su grovigli di ferro. Le bambine proiettano sui marciapiedi ombre più brevi dell’ombra della morte.
La nebbia ammanta le colline assiderando i piedi senza scarpe. Dalle finestre sfondate, senza infissi, non si distinguono più campi, case, argini e strade. Restano solo pezzi di legno, macerie, mattoni e lamiere ondulate. I tetti rovesciati e le assi annerite sono cicatrici sulla terra. Dappertutto una valanga di fango scorre verso il fiume. Non c’era niente prima, solo qualche capanna bagnata di calce con tende per porte, tettoie arrugginite e un po’ di stracci: adesso anche tutto questo è stato sfasciato.
Oggi il palazzo del governo si staglia ferito nel cielo e nel sole: è ancora vivo. Ora per ora le fondamenta piantate nelle rocce della terra mantengono saldo l’edificio. Le travi come costole uniscono ancora pareti di pietra e pavimenti. Sole e pioggia, aria e ruggine premono dentro e fuori e come missili logorano. Sono gli uomini che danno all’edificio un’anima di sogni, pensieri e memorie. Fili e fili si arrampicano in segreto, portano la luce, narrano paure, parole di donne in storie d’amore.
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