Storie
- Ricordi di guerra e di lavoro (di A. Pagliuca e F. D'Angelo)
Il deposito di San Vincenzo - I quattordici carabinieri - Un incontro con i Tedeschi - L'arrivo degli alleati - La faticosa lavorazione della canapa
- Medaglia d'Argento Michele Covino trucidato dai Tedeschi a Fertilia il 13 settembre 1943
Il deposito di San Vincenzo
I Tedeschi resistevano a Montecassino.
Erano settimane che non uscivamo di casa. Alla stazione di Gricignano,
S. Vincenzo, vi erano treni e stanze carichi di merce. La gente era affamata.
Mancava tutto: viveri, vestiti. Si era allo stremo. La gente del paese,
vincendo la paura, allora si avventurava, anche in pieno giorno, verso
quella località, per cercare di portare a casa qualcosa, a rischio
della vita.
Una volta anche io, dopo più di un mese che ero chiusa in casa,
decisi di andare con delle amiche, senza dire niente ai miei. Ma lì
incontrammo dei tedeschi e fummo costretti a scappare.Mi trovai un Tedesco
alle spalle che mi puntò la pistola alla schiena. Scappai e persi
di vista le mie amiche. Ma invece di andare verso Teverola scappai verso
Gricignano.
Poi tornai indietro decisa a portare qualcosa a casa. Nei treni e nelle
stanze vi era ogni ben di dio, grosse lattine di olio, pacchi di pasta,
forme di formaggio, stoffa per vestiti, coperte ecc. Mi intrufolai nella
prima stanza che incontrai e lì vidi una catasta enorme di pasta.
Mi caricai sulla testa un sacco da 50 chili e a piedi tornai a Teverola.
Nei pressi del paese, entrai in un pezzo di terra che la mia famiglia
coltivava e nascosi il sacco di pasta tra il granoturco. Arrivata a casa
dissi poi ai miei fratelli di andare a recuperare il prezioso carico che
sarebbe servito a sfamare la famiglia per un pò.
Anche i miei fratelli e mio padre avevano fatto dei viaggi verso la stazione,
portando a casa alcune pezze di formaggio e stoffa che servì ,visto
che eravamo rimasti quasi senza più vestiti, a farci gonne e pantaloni
.
Come noi tanti altri sfidarono la fortuna e rischiarono la pelle, presi
dalla disperazione e dalla fame. Non a tutti andò bene. Una donna
in particolare ricordo che fu sorpresa dai Tedeschi nell'atto di caricarsi
sulle spalle un sacco di farina ma fu abbattuta sul posto da una scarica
di mitragliatore.
L'uccisione dei quattordici carabinieri
Dell''uccisione dei quattordici carabinieri ricordo che erano stati portati nei pressi del cimitero. Poi i tedeschi dovettero avere un ripensamento e li condussero verso Aversa. Poco oltre il cimitero un contadino li vide e cercò di intercedere per loro chiedendo di non far loro del male. Per tutta risposta i tedeschi presero anche lui e lo fecero unire al gruppo di carabinieri. Un po' più avanti la scena si ripetè. Un altro contadino cercò di convincere i tedeschi a lasciar andare i malcapitati ma anche lui subì la stessa sorte. Arrivati nei pressi del ponte ferroviario, alle porte di Aversa, il gruppo si fermò. Ai carabinieri e ai due malcapitati fu fatta scavare una fossa. Sentii sparare e mi spaventai. Solo più tardi seppi quello che era successo. Una raffica di mitra aveva posto fine alle giovani vite dei militari e dei due contadini che per aver chiesto pietà per altri si erano trovati coinvolti nella loro tragedia.
Ero in campagna con altri ragazzi. Ad un certo punto ci trovammo circondati da alcuni soldati tedeschi che ci puntarono le armi addosso. A gesti ci fecero capire di spogliarci. Avevamo paura che quello fosse il preludio della nostra fine. Invece per fortuna, una volta spogliati, non si curarono più di noi, anzi ci intimarono di andare via e poi presero a vestirsi dei nostri poveri abiti. Scappammo senza sapere dove andare e cosa fare. Eravamo completamente nudi e ci vergognavamo a presentarci in paese in quello stato. Ricordo che mi ritrovai in un campo dove c'erano delle viti e così ne intrecciai delle foglie per coprirmi almeno le parti intime e mi avviai verso il paese. Da una parte mi vergognavo ma dall'altra mi rendevo conto di averla scampata per miracolo.
Durante i bombardamenti ci rifugiavamo nella cantina del
dottore che abitava vicino a noi. Mio papà si rifiutava di scendere
e preferiva stare davanti al focolare. Infatti diceva che tanto se si
doveva morire poteva succedere dappertutto e quindi a nulla valeva nascondersi
per fare magari la fine del topo. Mia mamma invece ci faceva andare in
luoghi diversi perché diceva che così almeno se fosse successo
qualcosa a qualcuno di noi, gli altri avrebbero potuto cercare di salvare
quelli più sfortunati.
Una volta ricordo che proprio non ci volevo stare nel rifugio e uscii
fuori. In lontananza vidi arrivare delle colonne di soldati, avevo paura
ma poi mi resi conto che non erano tedeschi. Erano infatti inglesi. Furono
i primi ad arrivare in paese, scendevano lungo via Garibaldi. Alle spalle
mi sentivo chiamare dai miei e dal dottore, preoccupati che potesse succedermi
qualcosa. Ma io oramai ero troppo eccitata e quando me li vidi vicino
cominciai a battere le mani e urlare. Con mia sorpresa invece questi mi
fecero segno di fare silenzio e proseguirono cercando di fare il minor
rumore possibile. Temevano infatti che ci fossero in giro ancora dei Tedeschi.
Davanti a me passarono soldati a piedi, poi jeep e camion pieni di soldati
e munizioni. Eravamo finalmente liberi.
La faticosa lavorazione della canapa
La canapa, una volta cresciuta, veniva sradicata e veniva
stesa per bene a terra e lì lasciata per alcuni giorni a seccare.
Quando le foglie erano secche, si ripuliva, e venivano tagliate le radici
e le punte. Fatte a fasci, venivano portati ai lagni, dove legati a fasci
venivano lasciati a maturare. Dopo alcuni giorni, i fasci venivano tirati
fuori e messi di nuovo a seccare. Nei giorni seguenti venivano rivoltati
perché tutte le parti si asciugassero e acquistassero quel bel
colore giallo dorato che distingueva la canapa di qualità migliore.
Si sperava ovviamente che non piovesse perché la pioggia ne avrebbe
rovinata irrimediabilmente la qualità. Veniva poi portata in paese
dove la canapa veniva battuta nelle maciullatrici ("macennela"),
pesanti attrezzi di legno azionati dalla sola forza delle braccia. Questa
operazione permetteva di separare la parte legnosa ("Cannavuccioli")
dalla parte filamentosa. Alla fine della lunga e faticosa lavorazione
le matasse erano pronte, belle come capelli fini e biondi di una bambina.
Il prodotto finito veniva portato al consorzio dove veniva fissato il
prezzo a seconda della bellezza del prodotto e dell'onestà dei
mediatori. Il lavoro era tremendo. Si era costretti a lavorare nell'afa
e in luoghi paludosi e malsani. Alla fine, se l'annata non era stata propizia,
si rischiava di ricavarne ben poco e di riuscire a malapena a rifarsi
un paio di scarpe nuove, anche perché ai padroni delle terre bisognava
sempre dare il prodotto migliore. Eravamo infatti affittuari. I padroni
delle terre erano a Napoli e noi eravamo tenuti per contratto a dar loro
il meglio di quello che producevamo e in più dovevamo, per consuetudine,
portare a Pasqua e Natale, un certo numero di galline, vino ed altro.
A questo proposito ricordo che una volta mio fratello aveva poratato delle
galline alla padrona di Napoli ma questa vedendo che una era zoppa si
rifiutò di prenderla. Al che mio fratello fece notare alla signora
che una volta in padella la gallina non avrebbe dovuto più camminare
e quindi poco importava se era zoppa. La signora si arrabbiò e
si offese talmente per la sfacciataggine di mio fratello che lo cacciò
fuori in malo modo, minacciando di farla pagare ai genitori.
Insomma il meglio del nostro lavoro andava a loro e a noi che ci ammazzavamo
di fatica rimaneva appena quel poco per sopravvivere.
Medaglia d'Argento Michele Covino
Medaglia
d'Argento dei Carabinieri nato a San Martino Valle Caudina il 29 settembre
1921 e trucidato dai Tedeschi a Fertilia, oggi Teverola (CE), il 13 settembre
1943
Nell'Aprile 1998 è stata intitolata la Caserma dei Carabinieri
di San Martino Valle Caudina in suo onore.
Michele Covino nacque a San Martino Valle Caudina il 29 settembre 1921
da Domenico Covino e Angelamaria Piantadosi. Abitava in via Borghe. A
22 anni muore ucciso dai soldati tedeschi che, nei giorni immediatamente
successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943, tentarono
di occupare i centri nevralgici della città di Napoli per mantenere
il controllo del Sud.
È un episodio eroico ma sconosciuto ai Sammartinesi; quasi quanto
la tragica vicenda dei tre fratellini Teti e di tanti altri cittadini
vittime della guerra. “la situazione bellica - scrive Gianni Raviere
ne Le Ore Nere 1943-46, ES.I., Napoli 1979 - porta gli italiani sull’orlo
di un irreversibile disastro morale e materiale e l’armistizio dell’8
settembre pone ai militari particolari problemi di coscienza; specie i
soldati imboniti dalla propaganda del regime, sono alle prese con un problema
che li sovrasta e li schiaccia: restare fedeli al giuramento pronunciato,
reso più impegnativo proprio perché prestato come “parola
d’onore”, oppure scegliere un nuovo indirizzo, ribaltare rapporti
d’amicizia, rivedere giudizi, legami, alleanze… La scelta
ha reciso, in alcuni casi, anche il vincolo di solidarietà tra
compaesani. Nei pressi di Cettigne, la capitale del Montenegro, militari
sammarinesi si sono trovati l’uno contro l’altro.
Quel giornoMichele Covino fa parte dei Carabinieri a piedi della stazione
Napoli - Porto e viene mandato, il giorno 11 settembre, insieme ad altri
commilitoni, in rinforzo dei Carabinieri che presidiano il Palazzo dei
Telefoni. I Carabinieri, a Napoli, in quei giorni avevano dato vita a
varie azioni militari contro i Tedeschi. Uno dei reparti, guidato dal
maresciallo Carlo Azan, aveva attaccato con successo il nucleo tedesco
che presidiava Palazzo Reale. La stessa fortuna non toccò ai reparti
impegnati presso il Palazzo dei Telefoni. Quando i primi Tedeschi si profilano,
i Carabinieri aprono il fuoco attaccando a colpi di bombe a mano. Gli
avversari, superiori in numero, cercano di contrattaccare. Ma non riescono
a penetrare nell’edificio: la reazione di fuoco dei nostri militari
è intensa. I combattenti si susseguono per quarantacinque minuti
fin quando una squadra di Carabinieri riesce a sorprendere il nemico sul
fianco, facendo saltare un autocarro ed una camionetta. Rimangono sul
terreno tre tedeschi. Gli altri sono costretti a desistere e a ritirarsi.
Tali fatti suscitano il fervore del comando germanico a Napoli che dispone
immediate rappresaglie. In particolare, il giorno dodici i tedeschi incendiano
l’Ateneo saccheggiando le abitazioni attigue e, sotto gli occhi
degli abitanti del rione Porto, fatti appositamente adunare, trucidano
un marinaio che ha lanciato bombe contro di loro, quindi attaccano la
stessa Caserma della stazione Porto. I quattordici Carabinieri della stazione,
incuranti della schiacciante superiorità avversaria e pur consci
di non poter ricevere alcun aiuto, reagiscono con bombe a mano e mitra.
I tedeschi rispondono al fuoco rabbiosamente. Lo scontro è violentissimo.
I Carabinieri, infine, esaurite le munizioni sono circondati e sopraffatti.
Verranno tutti fucilati il giorno seguente a Teverola. Essi sono il Brigadiere
Egidio Lombardi, l’appuntato Emilio Immaturo ed i Carabinieri Ciro
Alvino, Antonio Carbone, Giuseppe Covino, Michele Covino, Nicola Cusatis,
Domenico Dubini, Domenico Franco, Martino Giovanni Manzo, Giuseppe Pagliuca,
Giuseppe Ricca, Giovanni Russo, Emiddio Scola. “E’ un episodio
orrendo - scriverà il Risorgimento di Napoli - che va fissato a
caratteri indelebili nella cronaca di questo periodo. L’autocarro
che trasporta i quattordici militari dell’Arma sosta prima presso
un campo di concentramento nei pressi di Aversa; raggiunge poi, durante
la mattina del 13 settembre, la località Madama Vincenza, nel comune
di Teverola in provincia di Caserta. Di qui, alle ore 15, i Carabinieri
vengono condotti a piedi in un vallone, ai margini del quale sono piazzate
quattro armi automatiche. Due lunghe raffiche sono l’epilogo del
tragico episodio. Subito dopo, uno dei nazisti, armato di pistola mitragliatrice,
infierisce sui morti e sugli agonizzanti, sparando all’impazzata.
Alla memoria dei quattordici carabinieri verrà concessa la Medaglia
d’Argento al Valor Militare. Le spoglie dei valorosi militari riposano
ora a Teverola, in un’unica tomba, voluta, dopo la Liberazione,
dall’unanime consenso degli abitanti del piccolo centro (I Carabinieri
nella Resistenza e nella guerra di Liberazione, pp. 19-20)”. I fermenti,
le spinte sociali, gli acquisti di una uova coscienza civile e politica
che l’Italia andava maturando furono portati a compimento dalla
lotta generosa del popolo italiano. Trascorsi ormai cinquant’anni
da quegli episodi, si avverte la necessita di aprire la parte del terzo
millennio fatti di rinnovato desiderio di concordia e pace, che risulterà
vero nella misura in cui saremo capaci di rileggere la storia del ventesimo
secolo senza preconcetti ideologici e di parte e senza che ciascuno pretenda
di essere da solo la misura della giustizia e della verità storica.
È l’eredità vera che abbiamo il dovere di lasciare
ai giovani del 2000, per assicurare loro la possibilità di fruire
a lungo di tutto ciò che è vero, buono e giusto per ogni
uomo.
MEDAGLIA D’ARGENTO AL VALOR MILITARE
La motivazione
Al Carabiniere Michele Covino è stata dedicata, insieme ai compagni,
una lapide posta sulla facciata della Prefettura di Avellino. A lui il
18 marzo 1989, fu intitolata la Caserma ei Carabinieri di San Nicola La
Strada e un’aula delle scuole elementari di San Martino Valle Caudina
e nel 1998 la Caserma dei Carabinieri di San Martino Valle Caudina. Il
Capo Provvisorio dello Stato, con un decreto in data del 23 dicembre 1943,
concesse la Medaglia d’Argento al Valor Militare con la seguente
motivazione:
“In periodo di eccezionali eventi bellici seguiti dall’Armistizio,
preposto con gli altri militari della sua stazione alla difesa di un importante
centrale telefonica, assolveva coraggiosamente il suo dovere, opponendosi
al tentativo di occupazione e di devastazione da parte delle truppe tedesche.
Catturato per rappresaglia e condannato a morte con i compagni, affrontava
con ammirevole eroismo il plotone di esecuzione. Nobile esempio di virtù
militare e di consapevole sacrificio”
Dal sito di Pisano Domenico, webmaster del sito non ufficiale
di San Martino Valle Caudina (AV).
( http://digilander.libero.it/sanmartinovallecaudi/)
Fonte: Il Giornalibro della Domenica (aprile 1998): Eroi per la patria
SANTULLO FAMILY
My family originated from Vibo Valentia, in Calabria. From this
town Raffaele Santullo came in 1860 to follow Garibaldi in his fortunate
invasion of Southern Italy. |
La mia famiglia era originaria di Vibo Valentia, in Calabria. Da
quella città Raffaele Santullo seguì nel 1860 Garibaldi
nella sua invasione fortunata dell'Italia Meridionale. Dalla storia sappiamo che Garibaldi dormì due notti a Vibo Valentia, chiamata allora Monteleone Calabro, durante la sua spedizione, verso la fine dell' agosto 1860. Raffaele suonava la tromba nell'esercito e seguì Garibaldi fino alla battaglia del fiume Volturno, poi si stabilì a Teverola, non lontano dal campo di battaglia. Ebbe dei figli maschi ed almeno una figlia, Margherita che andò in sposa ad un ricco proprietario di mulini Aniello Tartarone (un palazzo con le iniziali di Tartarone, AT, sulla soglia di ingresso è ancora visibile in Aversa, Piazza Vittorio Emanuele). Il primo figlio di Raffaele fu Federico ( nato c. 1850 - m. 1925) e il secondo Enrico, un dottore che morì nel 1922. Gli altri figli furono Giuseppe (Peppino), che morì anche lui nel 1922, e Giovanni. Raffaele con due dei suoi figli, Federico e Giovanni, fondò una ditta di cioccolato e dolci , che fu portata avanti da prima del 1890 ai tardi anni Venti, collaborando con altre ditte molto popolari a quel tempo, come la Pelino-Sulmona ed Unica-Torino. Il figlio di Enrico, Carlo fu responsabile di una banca privata, il Banco di Sconto Santullo che chiuse nel 1933 quando gli effetti della crisi del '29 arrivarono in Italia. Il figlio di Federico Santullo, Raffaele (1880-1953), iniziò perciò a lavorare in una società di assicurazione (Lloyd Triestino) nello stesso anno1933. Raffaele era mio nonno: Io sono il figlio del suo terzo figlio, Vincenzo. I discendenti di mio nonno hanno il nome Santulli dal 1952. |
Dal sito di Carlo Santullo:
http://www.geocities.com/c_santulli/santullo.html
Vittorio
Nessuno
sapeva da dove veniva; nessuno sapeva chi era; nessuno sapeva chi era
stato.
Per tutti era semplicemente "Vittorio lo scemo".
Era stato sempre così o lo era diventato? Nessuno sapeva rispondere.
D'altra parte da lui non si riusciva a sapere molto. A fatica emetteva
qualche monosillabo tra il ciondolare perenne del capo e un sorriso .
Arrivava,come al solito, correndo. Si, perchè lui correva, non
camminava.
Per andare dove ? Non si sapeva.Forse
non lo sapeva neanche lui.
Forse non era 'verso' qualcosa che andava; piuttosto era 'da' qualcosa
o qualcuno che scappava.
Nel vederlo arrivare i bambini
gli si affiancavano e facevano un pezzo di strada insieme a lui.
Ad un certo punto si fermava e tutti gli si sedevano intorno.
Sapeva da chi fermarsi. Erano sempre le stesse persone che cercava e alle
quali chiedeva un pezzo di pane e formaggio.
Si sedeva per terra e appoggiava con cura le sue preziose scarpe accanto
a lui. Correva infatti a piedi nudi, mentre le scarpe, che avrebbero dovuto
proteggerli, erano legate tra loro e portate appese al collo .Troppo preziose
dovevano sembrargli per essere sciupate.
Oltre al poco che mangiava era infatti un paio di scarpe ancora in buone
condizioni che accettava volentieri con un sorriso che gli illuminava
il grosso faccione.
Il fisico lasciava ancora intravedere il passato vigore. Doveva essere
stato un uomo forte e ben piantato.
A tutti lanciava degli sguardi profondi che sembravano trapassarti.
Poi di scatto riprendeva a mangiare avidamente, rispondendo con un sorriso
alle domande dei bambini, che non lo lasciavano mai e ne imitavano ogni
espressione e movimento, interrogandosi sul mistero di quell'uomo.
Come era strano poi vederlo tornare un bambino impaurito al primo rumore
improvviso.Veniva scosso da un tremito che in un attimo si impossessava
di tutto il suo corpo.
Allora si alzava, si rimetteva le scarpe in spalla e ,con grande disappunto
di grandi e piccini , si rimetteva a correre e riprendeva la sua strada.
Finalmente
il grande giorno era arrivato! Adesso anche noi potevamo trascorrere delle
domeniche diverse.
Che meraviglia!Le luci si abbassavano, il fascio luminoso si faceva largo
nell'oscurità sempre più intensa. Il silenzio carico di
attesa riempiva la sala. Si aspettava il miracolo.
Ed ecco la magia. La luce si faceva alberi, prati, case, persone.
Tutto era così bello. Case da sogno, mobili di ogni stile e forma
ma soprattutto attori tanto belli da sembrare angeli, sempre pronti a
qualsiasi sacrificio, anche a dare la propria vita per la donna amata
o per la patria in pericolo.
Era solo una finzione. Ma come sapevano morire bene. Riuscivano sempre
a dire qualcosa di grande, di importante prima di esalare l'ultimo respiro
e stramazzare al suolo tra le braccia dell'amata.
Era inutile far finta di niente! Le lacrime, inutilmente nascoste, scendevano
copiose ma non facevano rumore, quasi per non disturbare.
E che scandalo quei baci!
Il parroco ci aveva detto di coprirci gli occhi e di non guardare certe
scene perché si commetteva peccato e poi bisognava confessarlo.
Ma come si fa ? La mano arrivava sempre tardi. E poi c'erano sempre quelli
che ti prendevano in giro e il giorno dopo raccontavano nei minimi particolari
gli episodi più scabrosi, sentendosi così già grandi
ed esperti.
Per fortuna c'era l'intervallo a stemperare le tensioni.
Ma che confusione! Tutti che saltavano e correvano tra le fila di sedie.
Chi fischiava, chi chiamava l'amico intravisto all'altro capo della sala,
chi lanciava pezzi di pane, bucce varie o peggio mozziconi di sigarette.
Ogni tanto infatti, tra il terrore di chi sedeva nelle prime file, un
puntino luminoso solcava l'oscurità per piombare sul malcapitato
il quale si metteva ovviamente a strillare trafitto dal dolore intenso
della scottatura e poi si lanciava in imprecazioni irripetibili. Il malcapitato,a
sua volta trasformatosi in disturbatore, veniva zittito dalle urla inferocite
di chi pretendeva di godersi il film in santa pace.
Intanto gli autori dell'impresa si godevano nel silenzio il loro trionfo.
E le merende che portavamo!
Eh si, perché non si andava semplicemente per vedere il film, bensì
per trascorrere il pomeriggio. Perciò ci portavamo all'ingresso
prima dell'apertura del cancello, provvisti di grosse fette di pane e
companatico, noccioline, semini e altro con un pensiero all'avventura
ed uno allo stomaco.
Poi finito il film, si ritornava a casa!? Ma neanche per sogno!
Il prezzo del biglietto ci dava il diritto di restare quanto si voleva.
Perciò il film lo si rivedeva varie volte, potendo anticipare e
partecipare con maggior trasporto alle scene più entusiasmanti
o più drammatiche, con grande disappunto di chi vedeva il film
per la prima volta e si vedeva defraudato del suo diritto alla sorpresa.
Quando poi arrivavano i "nostri" la partecipazione era totale
ed allora erano urla, battimani, fischi.
Che sollievo la sconfitta dei nemici!
E' ovvio che eravamo tutti dalla parte del protagonista , i suoi amici
erano i nostri amici così come i suoi nemici erano anche i nostri.
Alla fine si usciva o si veniva cacciati, avendo imparato a memoria ogni
sequenza e ogni battuta.
A casa poi cominciava il secondo atto. Bisognava, ma lo facevamo volentieri
perché adesso ci sentivamo noi i protagonisti, raccontare nei minimi
particolari il film alla mamma, ai nonni, agli zii, cercando di riscaldarsi
al tenue tepore di un braciere, che ti scottava i piedi e ti lasciva fredda
ogni altra parte del corpo. Quante volte tra quei tizzoni ardenti ci sembrava
di rivedere quei personaggi terribili, senza cuore. Il nostro terrore
era un tizio pelato, sempre feroce e spietato sia che fosse un tartaro,
un gladiatore, un pirata o un cowboy.
L'evento aveva poi il suo epilogo naturale tra le calde lenzuola, dove
addormentandoci ci facevamo trasportare dalla fantasia verso le avventure
più straordinarie, i viaggi più fantastici e le imprese
più ardite.
(Ad Armando e il suo Cinema Capri)