Il mio paese - La mia comunità
Domenica 19/1/2020
II TO
Colore liturgico
Liturgia delle Ore:
II Sett
Giovanotto,
abbiamo bisogno di braccia per un lavoro eccezionale:
portare Cristo nel mondo.
Non avrai vita comoda in poltrona
o con le pantofole ai piedi,
un letto molleggiato,
non cibi conditi
né scarpe di camoscio.
Non ti preoccuperanno le ore di riposo, né il tempo che farà
ma soltanto il lavoro di avvicinare chiunque non conosce Cristo e dirgli:
Egli è morto per te.
Se tutto questo non ti va
continua per la tua strada...
Hai invece il coraggio?
Vieni con noi.
(Eraldo)
La lanterna che reggi
non è tua,
la canzone che canti
non è stata composta
nel tuo cuore:
benché porti la luce,
non sei la luce,
e anche se sei un liuto
non sei il suonatore di liuto.
(Kahlil Gibran, Le parole non dette)
Vi auguro di essere eretici.
Eresia viene dal greco e vuol dire scelta.
Eretico è la persona che sceglie e, in questo senso è colui che più della verità ama la ricerca della verità.
E allora io ve lo auguro di cuore questo coraggio dell'eresia.
Vi auguro l'eresia dei fatti prima che delle parole, l'eresia che sta nell'etica prima che nei discorsi.
Vi auguro l'eresia della coerenza, del coraggio, della gratuità, della responsabilità e dell'impegno.
Oggi è eretico chi mette la propria libertà al servizio degli altri.
Chi impegna la propria libertà per chi ancora libero non è.
Eretico è chi non si accontenta dei saperi di seconda mano, chi studia, chi approfondisce, chi si mette in gioco in quello che fa.
Eretico è chi si ribella al sonno delle coscienze, chi non si rassegna alle ingiustizie.
Chi non pensa che la povertà sia una fatalità.
Eretico è chi non cede alla tentazione del cinismo e dell'indifferenza.
Chi crede che solo nel noi, l'io possa trovare una realizzazione.
Eretico è chi ha il coraggio di avere più coraggio.
(don Luigi Ciotti)
Nel linguaggio comune spesso si usano paragoni con animali per elogiare o insultare qualcuno: leone, aquila o volpe hanno ben altro significato che coniglio o cane. L’agnellino per noi è sinonimo di persona mite, ma per gli Ebrei aveva un significato più profondo. Non dobbiamo dimenticare che ogni anno a Pasqua l’agnello era sacrificato e consumato per rivivere la liberazione dalla schiavitù in Egitto ad opera del Dio d’Israele.
Giovanni il Battista, vedendo venire Gesù verso di lui, riconosceva che Dio aveva consegnato il proprio agnello affinché il mondo fosse liberato dal peccato. Non si limitava a chiedere l’impegno nella fedeltà alla sua Legge; a partire da quel momento Dio si metteva in gioco in prima persona, facendo l’ultimo dono d’amore per la salvezza dell’umanità.
Tutto era messo nelle mani di Gesù, dalla cui fedeltà sarebbe dipesa la sorte dell’umanità. Nella lingua di Gesù e Giovanni, l’aramaico, la parola talya (agnello) significa anche “servo”, “giovane”, “pezzo di pane”. Così come “toglie il peccato” può essere anche tradotto con “prende su di sé il peccato”.
Gesù è quindi quel giovane uomo che non fa di tutto per conquistare un posto al sole o per proteggersi dagli uomini potenti, ma si mette a servizio della verità e della giustizia, fino a farsi mangiare dagli altri senza paura, nutrendo con la sua vita la speranza e la felicità di chi incontra. Il peccato, quello che ci fa vivere fraintendimenti, steccati, rotture in noi stessi, con gli altri e con Dio, è preso su di sé per dimostrarci che c’è una via diversa che possiamo percorrere. Se sapremo seguire il percorso di quel mite agnello benedetto da Dio.
Ti ho mai detto, Gesù,
che ti voglio bene?
Tu, mite e umile agnello,
dallo sguardo profondo di compassione,
dai gesti di tenerezza e di affetto,
dalle parole di misericordia e di bontà.
Ti voglio bene, Signore Gesù.
Ti ho mai detto, Gesù,
che sono pieno di riconoscenza per te?
Tu, che cammini diritto,
che perseveri nel rimanere in Dio,
lontano dalla ribalta del potere e del successo,
ma così innamorato delle persone
da prenderti sulle spalle il mondo intero,
riempiendo la parte che ti è stata assegnata
di pace, di salvezza, di speranza.
Grazie mille, Signore Gesù.
Ti ho mai detto, Gesù,
che non ti conoscevo, veramente?
Io ti confondevo con un semplice brav’uomo
o con un essere soprannaturale, di un altro pianeta,
fino a quando ho saputo
delle tue pene, delle tue lacrime,
dello sforzo e della pazienza per diventare quello che sei:
capace di irradiare lo Spirito di Dio con l’amore e il perdono.
Sono felice di averti conosciuto, Signore Gesù.
Ti ho mai detto, Gesù,
che voglio essere tuo testimone?
Racconterò a tutti che uno come te
non può che essere Figlio di Dio,
perché ha restituito all’umanità la sua dignità,
l’immagine più bella del Creatore,
i frutti più degni di un paradiso.
Voglio raccontarti a tutti, Signore Gesù,
ma soprattutto ti chiedo umilmente
che siano i miei gesti quotidiani a parlare di te.
In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: "Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me". Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell'acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».
Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell'acqua mi disse: "Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo". E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».
Gv 1, 29-34
C'era una volta un grande e bravissimo poeta che nessuno conosceva perché nessuno aveva mai letto le sue poesie.
Il poeta, fin da piccolo, si era affezionato ad una sola ed unica penna e non ne aveva mai utilizzate altre.
Questa penna, però, si era sempre rifiutata di scrivere per paura di finire il suo inchiostro: perciò nessuno conosceva le bellissime poesie del poeta.
Un giorno il poeta si recò presso una biblioteca e portò con sé anche la sua penna.
Fu lì che la penna conobbe tante altre penne come lei e vide che tutte scrivevano, senza farsi troppi problemi.
C'era lì anche una penna appoggiata su una scrivania che sembrava molto anziana, perché aveva quasi terminato tutto il suo inchiostro.
Dopo averle rivolto il saluto, la penna del poeta le parlò delle sue resistenze a scrivere. Ma l'anziana penna, che aveva scritto tanto, le disse:
«Guarda intorno quanti libri. Tanta gente può venire qui a leggere ed imparare cose nuove proprio perché delle penne come noi sono state utili ai loro padroni. Non serve a nulla e a nessuno tenere per sé ciò che loro ci dicono. Noi abbiamo il grande compito di manifestare agli altri il loro pensiero, le loro idee, cioè di scrivere ciò che di più profondo c'è in loro utilizzando ciò che di più profondo c'è in noi, cioè l'inchiostro. Questo ci rende utili e fa crescere la gente».
La penna del poeta ringraziò di cuore l'anziana penna e da quel giorno iniziò a scrivere tutte le poesie che il poeta recitava.
Il poeta fu apprezzato e conosciuto da molti perché da quel giorno tanta gente poté leggere le sue splendide poesie.
Anche noi siamo come quella penna, non siamo utili a nessuno e non serve a nessuno se incontriamo Gesù Cristo e non raccontiamo agli altri questa splendida avventura.
Come per la penna costa inchiostro scrivere, anche per noi costa coraggio testimoniare.
Se lo faremo, però, saremo strumenti contenti ed efficaci nelle mani del Signore, perché lo aiuteremo a non restare anonimo e sconosciuto, ma lo manifesteremo a chi ancora fa fatica a riconoscerlo.
(Angelo Valente, Nove Vie in Betlemme)
Fonte: Qumran2.net