Il mio paese   -   La mia comunità


GUERRA DI CAMPANILI

La chiesa sussidiaria di Peia si separa
dalla chiesa matrice di Gandino il 13 maggio 1561


Il paese di Peia, che — come scrive il BONZANO - “giace sulla falda occidentale del monte Pizzo”, era anticamente una contrada di Gandino.
La prima notizia, atta a corroborare tale affermazione, risale al secolo XIII e si collega ad un importante avvenimento della nostra storia: la determinazione dei confini fra i comuni, da poco indipendenti, di Gandino, Leffe, Casnigo e Barzizza-Cazzano.
L’istrumento, rogato il 2 giugno 1234 dal notaio Giovanni da San Giovanni Bianco, parla espressamente di “Peya Lefasca” e “Pellia Gandinasca”.
Ciò dimostra la dipendenza di Peia dal comune di Gandino fin dall’epoca della nostra emancipazione.

Il territorio della contrada doveva essere in gran parte coperto da boschi, che l’opera dell’uomo trasformò ben presto in prati e in campi per la semina dei cereali.
Sorsero così gli sparsi casali, cui diedero il nome le famiglie che per prime vi si insediarono: Biadoni, Basi, Predali. Rottigni. Bosio, Bettera, Brignoli, Zenucchi, Savi, Franza.
Col tempo la popolazione crebbe di numero, trasformando Peia in una vera e propria borgata, più popolosa della vetusta Cirano.
“Gli Statuti di Gandino” del 1445, prendendo atto della nuova situazione venutasi a creare, prescrivono che, dei “dodici Consiglieri componenti la Credenza o Consiglio minuto”, due dovessero appartenere alla “Contrada di Peia e altrettanti a quella di Cirano”.
Analogamente i sei candidati al Consolato venivano scelti in modo da assicurare un rappresentante a ciascuna delle due contrade.
Tuttavia, per evitare brutte sorprese, i due Consoli non potevano svolgere insieme il loro mandato bimestrale. Tutto questo, però, non valse a scongiurare il sorgere di istanze separatistiche.
Se Cirano, per quanti sforzi facesse, non riuscì mai ad ottenere la completa autonomia da Gandino, Peia, che aveva ormai raggiunto una notevole consistenza demografica, divenne comune indipendente il 1 giugno 1542, con le stesse leggi municipali, prerogative, diritti e privilegi goduti dal capoluogo.
Tuttavia, l’avvenuta separazione riguarda soltanto l’amministrazione civile; quanto al culto, Peia restava ancora soggetta alla chiesa matrice di Santa Maria Assunta di Gandino.
Tale stato di cose, per ovvie ragioni, non poteva durare a lungo.
Fin dal 1429, gli abitanti della “contrada di Peia” avevano costruito, col permesso del Vescovo di Bergamo, Francesco Aregazzi (Regazzi), una piccola chiesa, dedicata a Sant’Antonio da Padova. Non tardarono, perciò, a pretendere anche un prete.
Gli Amministratori del comune di Gandino avevano cercato di accontentarli, stipendiando un sacerdote, perchè celebrasse una messa la settimana, esclusi i giorni festivi, nella loro chiesetta. Ma era troppo poco. Fu così che nel 1479 gli uomini della vicinia di Peia, attesa la distanza dalla chiesa matrice, fecero pressione presso don Andrea Alessandri di Pisogne, allora prevosto di Gandino. affinché concedesse loro la licenza di celebrar messa ogni domenica nella chiesa di Sant’Antonio e di amministrarvi i sacramenti in caso di necessità.
Il permesso fu pienamente accordato, con la riserva per le festività più solenni.
Più tardi, nel 1519, don Bernardo de Ianuicis ottenne dal Prevosto Federico Morandi e dal secondo curato Antonio Mazoli l’autorizzazione ad amministrare la Confessione e gli altri sacramenti, eccetto il Battesimo, nella chiesa di Peia.
Era il primo passo verso l’autonomia, alla quale spingevano anche certi interessi meschini, completamente estranei al culto e al bene delle anime.
Già nel 1482 era sorta una furiosa lite con il Prevosto di Gandino, Giovanni de Marendis, nati di Terzo e primo Vicario Foraneo, per via delle offerte fatte dai fedeli alla chiesa di Sant’Antonio.
Da quella controversia il già vivo desiderio della separazione usciva rafforzato, tanto più dopo la conquista dell’indipendenza amministrativa (avvenuta il 1 giugno 1542).
Essendo ormai divenuto Comune Autonomo, Peia non poteva tollerare più oltre la dipendenza nel culto dalla chiesa di Santa Maria Assunta.
Interessi pratici e orgoglio campanilistico accendevano gli animi, rendendoli pronti a qualsiasi sacrificio per raggiungere lo scopo.
Nel 1546, quattro anni dopo l’indipendenza civile, gli uomini di Peia costituirono un sindacato per avanzare e sostenere l’istanza di separazione della loro chiesa da quella di Gandino. L’impresa era molto ardua, ma essi erano decisi ad andare sino in fondo, senza badare a spese. Ne nacque una lunga lite, che durò circa quindici anni e mise a dura prova le finanze e le capacità di resistenza delle parti in causa.
Nel 1455 la Comunità di Gandino era stata insignita del “Giuspatronato” dal vescovo di Bergamo, Giovanni Barozzi (1449-l464). In virtù di tale privilegio essa aveva il diritto di designare i Rettori (Prevosto e Secondo Curato) della chiesa di Santa Maria Assunta, nonché di eleggere i fabbricieri.
Era, inoltre, suo preciso dovere provvedere al decoro della casa di Dio, dotandola convenientemente di paramenti e arredi sacri, curandone i necessari restauri e assumendosi l’onere di ogni opera, qualora non bastassero le offerte e le donazioni dei fedeli.
Sempre in forza del “Diritto di Patronato”, la Comunità era tenuta a sostenere le ragioni della suddetta chiesa affinché non ne venisse menomata la dignità e la superiorità sull’intera Pieve. Perciò, nella causa di separazione intentata dagli uomini di Peia, il comune di Gandino scese in campo a sostenere i diritti acquisiti dalla chiesa di Santa Maria Assunta.
Era, per così dire, la lotta di Davide contro Golia.
La potenza economica del capoluogo soverchiava le capacità finanziarie dell’ex contrada.
Senza contare le relazioni e le conoscenze che i Magnati Gandinesi potevano vantare in alto loco, a Venezia e a Roma.
Il denaro -si sa- apre ogni porta e rende possibile anche l’impossibile, eppure la caparbia e la tenacia degli antichi Peiesi non venne mai meno, nemmeno di fronte agli insuccessi, e li sostenne sino in fondo nella loro battaglia.
Il 24 ottobre (1455) a Gandino i Consoli, i Credendieri e i membri dell’Arengo riuniti in consiglio, alla presenza del Vicario della Valle, Cipriano da Cologno, deliberarono di eleggere dei deputati, affinché consultassero un esperto dottore in Diritto Canonico circa la lite mossa dagli uomini di Peia e, in base alla risposta e alle indicazioni ricevute, adissero le vie legali. Furono eletti dal “Consiglio di Credenza” espressamente delegato: Alessandro Radici, Battista Castelli, Alessandro Giovanelli e Gabriele Iorio.
Ma non tutte le famiglie gandinesi erano d’accordo nel sostenere una causa che si prevedeva molto dispendiosa, tanto più che, a ben riflettere, le aspirazioni degli uomini di Peia apparivano abbastanza legittime.
Fu così che venti giorni dopo, il 13 novembre, venne consegnata al “Console Bernardo Alessandrini” una protesta sottoscritta da un gruppo di Gandinesi, appartenenti alle famiglie dei “Castelli, Scarpa, Belotti, Brignoli, Fabi e Iorio”.
Gli autori si dichiaravano contrari alla lite contro il Comune di Peia, avvertendo nel contempo gli Amministratori che in nessun modo intendevano partecipare alle spese inerenti.
Era un’aperta ribellione alle decisioni prese dall’Assemblea del 24 ottobre dai legittimi rappresentanti del popolo. Perciò i dissidenti furono deferiti all’autorità del “Chiarissimo Signor Pietro Samido, Podestà di Bergamo”.

Il processo, durato dal 4 novembre 1547 al 29 maggio dell’anno successivo, con strascichi fino al 14 luglio, per appello interposto contro la sentenza, si concluse con la piena condanna dei “ribelli”.
Veniva così ad incrinarsi il blocco monolitico che serrava i cittadini di Gandino nella causa comune per la difesa dei diritti e della dignità della loro chiesa, in compenso anche fra gli abitanti di Peia erano sorti dei contrasti.
La contrada dei Savi si era schierata dalla parte di Gandino, dichiarando per bocca dei suoi rappresentanti, di voler restare con la Chiesa Matrice.
Intanto la causa della separazione veniva perorata, in prima istanza, davanti alla “Corte Episcopale di Bergamo”.
Il Vescovo, preoccupato dei riflessi negativi che tale controversia poteva avere sulle anime dei fedeli, in quanto generava odi e discordie, cercò la via del compromesso.
Verso la fine del 1546, “il nobile Lorenzo Basso”, cittadino di Trento, ma oriundo di Gandino, trovandosi a Bergamo per affari, si era recato a far visita al vescovo Vittore Soranzo, allora coadiutore con diritto di successione del titolare cardinal Pietro Bembo, che non fu mai in sede.
Dopo i soliti convenevoli, il discorso era caduto sulla lite vertente fra la Chiesa di Gandino e quella di Peia. Il Soranzo aveva allora espresso il desiderio di poter giungere ad un accomodamento pacifico, ponendosi arbitro fra le parti, sempre che si avesse fiducia nella sua persona.
Perciò, il nobile Lorenzo Basso si era offerto di parlare a certi uomini di Peia, sindaci in quella causa, i quali si trovavano a Bergamo, e li aveva condotti dal Vescovo.
Erano: Simone Biadoni, Bettino Fredi e Gerolamo Belotti.
Costoro e il Basso, rispettivamente a nome dei comuni di Peia e di Gandino, avevano allora garantito che le parti in causa si sarebbero senz’altro affidate a Mons. Vittore Soranzo per una soluzione di compromesso. Così avvenne: nella seduta consigliare del 2 gennaio 1547, i rappresentanti del comune di Gandino deliberarono di accettare l’arbitrato del Vescovo, eleggendo, da parte loro, quali procuratori speciali, Scipione Gratarolo, cittadino di Bergamo, il già noto Lorenzo Basso e Battista Castelli.
Ma la buona volontà di tutte quelle nobili persone non riuscì ad impedire che trionfasse lo spirito maligno della discordia. La lite proseguì più accanita che mai, si ricorse in appello a Milano ed infine a Roma.
Gli animi erano tanto accesi che, il 1° marzo 1547, il Consiglio Comunale di Gandino deliberò di scrivere al Ministro dell’Ordine dei Riformati di san Francesco, pregandolo di inviare a Gandino “Frati pacifici et maxime frati che cercheno a pacificare la lite mossa per la separazione della chiesa”.
Fatica sprecata. La causa, come s’è detto, fu portata in appello a Milano. Si ritenne, perciò, opportuno aumentare il numero dei deputati, con l’aggiunta di “Antonio Scarpa, Gandino Agogeri e Battista Giovanelli”. Le nostre sorti erano affidate all’abilità del dottore in diritto canonico e civile, Andrea Vallotto.
Le spese della lite gravavano totalmente sulla Comunità, la quale vi provvedeva sia imponendo ai cittadini delle taglie proporzionate al censo, sia alienando parte dei suoi beni.
Ad esempio, nel 1551. il comune di Gandino fu costretto a vendere a Gerolamo de Cazis il mulino detto “della Mola”, per pagare avvocati e funzionari che, come un pozzo senza fondo, ingoiavano una notevole quantità di denaro e, intanto, mandavano per le lunghe, lieti dell’insperata manna.
Ma Gandino non poteva cedere: era in gioco il suo prestigio, la sua dignità di capoluogo della Valle. Piegarsi a Peia, ad un piccolo paese di non grandi risorse, sarebbe stato un disonore, al quale l’orgoglio dei Gandinesi non sapeva piegarsi.
La causa fu rimessa, in ultima istanza, alle decisioni della Santa Sede.
In data 6 dicembre 1547 si scriveva ad un certo Gian Pietro Signori di Roma, autorizzandolo a spendere, a sua discrezione, qualsiasi somma di denaro per il buon esito della lite contro Peia, con l’assicurazione che gli sarebbe stato restituito fino all’ultimo soldo.
Le cose sembravano giunte ad un punto morto. A Roma tutto procedeva molto lentamente per le remore imposte da una pletorica burocrazia e la causa poteva durare all’infinito, fino al collasso delle parti.
Finalmente, nel 1561, Cristoforo Marinetto, Console e Giovan Antonio Zenucchi, Sindaco, rispettivamente a nome del comune e della chiesa di Peia, presentarono al Vescovo di Bergamo, Mons. Federico Cornaro, lettere del Cardinal Pietro Francesco Fererio, Legato Apostolico in tutto il Dominio Veneto, per l’erezione a parrocchia della chiesa di Sant’Antonio, chiedendo nel contempo la soluzione della lunga vertenza.
Perciò, con istrumento del 13 maggio 1561, Gerolamo del Monte, Protonotario Apostolico e Vicario Generale nella Curia Vescovile di Bergamo, tenuto conto che la popolazione di Peia era abbastanza numerosa, che la lontananza del capoluogo creava disagi e pericoli, soprattutto in caso di maltempo, perchè la strada veniva spesso inondata dalle acque, infine che la Comunità assicurava al sacerdote mezzi sufficienti per vivere avendogli costituita una rendita annua di 126 Lire Imperiali, decretò la separazione definitiva della suddetta chiesa di Sant’Antonio da quella di Santa Maria Assunta di Gandino. Tuttavia, in segno dell’antica sudditanza, ogni anno, nel giorno dell’Assunzione della Beata Vergine, dovevano essere consegnate al Prevosto della chiesa matrice quattro libbre di cera e una quantità sufficiente di olio santo.
A questo proposito va notato che a Peia esisteva una fiorente cereria comunale. Essa cominciò a decadere irreparabilmente dopo il rigorosissimo inverno del 1709, nel corso del quale la maggior parte degli alveari andò distrutta. Le usurpazioni dei privati ai danni dell’azienda pubblica fecero il resto.
Il primo rettore della chiesa di Sant’Antonio fu don Ottaviano Caziolo di Romanengo Cremonese, eletto dalla Comunità che godeva del Diritto di Patronato.
Dopo quindici anni di processi e di appelli, di denunce e di aspre polemiche, la lite era giunta alla sua conclusione naturale. A conti fatti, la lunga vertenza era venuta a costare un patrimonio.
Si potrebbero avanzare serie riserve sull’opportunità di tale sperpero di denaro pubblico.
A noi riesce difficile comprendere la follia collettiva che spinse i nostri avi a sostenere una lotta così contraria ad ogni buon senso.
Nell’animo umano si celano sentimenti e passioni che sfuggono all’indagine dello storico.
In tempi in cui buona parte della popolazione si dibatteva ai limiti della sopravvivenza, la comunità di Gandino impegnava i suoi beni nel nome di un discutibile senso dell’onore.
La ragione è che al timone della cosa pubblica sedevano persone che non rappresentavano affatto i reali interessi del popolo.
Al popolo tutt’al più pensavano “in articulo mortis” con qualche lascito pio.
Perciò, la causa della chiesa di Gandino era, in ultima analisi, la causa delle famiglie magnatizie, le quali portavano anche sul terreno religioso le loro ambizioni, convinte di interpretare le istanze di tutta la Comunità.

Testo e ricerche storiche: Prof. Pietro Gelmi,
mons. Antonio Giuliani


Tratto da “La Voce di Peia” gennaio – aprile 2011