La presenza dell'oro nei torrenti
dell'Ovadese è nota da tempo, ed è certo che la sua raccolta è iniziata
nella più remota antichità. Particolarmente intenso è stato lo
sfruttamento dei terrazzi che si sviluppavano nei tratti finali dei
torrenti Stura, Gorzente e Piota, i quali sono
stati completamente rimossi e, al loro posto, restano ancora estesi
accumuli di ciottoli residui di lavaggi che la tradizione popolare fa
risalire ai Romani. I depositi di ciottoli sono in effetti del tutto
simili a quelli che si possono osservare in altre parti del bacino padano,
specie lungo il fronte esterno dell'anfiteatro morenico di Ivrea, che rappresentano
indubbiamente la testimonianza dello sfruttamento in epoca romana e
preromana di analoghi terrazzi auriferi, ma mentre questi si trovano
notevoli distanze dai probabili giacimenti primari, quelli dell'Ovadese,
formatisi in aree meno esposte ai fenomeni glaciali, sono in stretta
relazione con le manifestazioni aurifere primarie presenti nella fascia
collinare che si estende a sud di Ovada, ove affiorano rocce facenti parti
del complesso metaofiolitico-calcescistoso noto
col nome di Gruppo di Voltri.
Le manifestazioni aurifere
primarie si collocano in rocce ultramafiche tettonizzate e serpentinizzate,
derivate da originarie lherzoliti, all'interno di
dislocazioni tettoniche verticali con sviluppato scorrimento in direzione
nord-sud (shear zones)
che, in genere, mettono in contatto le lherzoliti
con altri tipi di rocce; localmente assumono invece giacitura suborizzontale, in corrispondenza di estese fasce
milonitiche che evidenziano fenomeni di scorrimento e brecciatura
delle masse lherzolitiche più superficiali.
Sono costituite da corpi lenticolari di breccia serpentinitica
alterata e cementata da reticolati di vene quarzoso-carbonatiche, solo
localmente da veri e propri filoni quarzosi compatti, e si estendono per
poche diecine di metri, raramente per qualche centinaio, con spessore
variabile dal decimetro a qualche metro, ma sono talora numerosi e
ravvicinati tanto da poter costituire giacimenti unitari. Nel
complesso costituiscono un particolare tipo di roccia, indicato nella
vecchia letteratura col nome di idrotermalite
ed oggi più internazionalmente noto come listwaenite,
derivato da carbonatizzazione e silicizzazione di
ultramafiti ad opera di fluidi idrotermali.
All'interno delle vene di quarzo, ma anche nel materiale serpentinitico alterato, si trovano minerali metallici,
per lo più di dimensioni microscopiche e in forma dispersa: soltanto
localmente si hanno piccole concentrazioni di pirite microgranulare
o grosse plaghe di altri solfuri. La paragenesi metallica è
costituita da oro, pirite, marcasite, calcopirite, pirrotite, blenda
(sfalerite) galena e tetraedrite, ai quali si associano minerali componenti
le serpentiniti; particolarmente abbondanti sono
i prodotti limonitici di alterazione di colore rossastro e, in alcune vene,
di microdiffusioni di un minerale verde cromifero (fuchsite). L'oro è prevalentemente
presente allo stato libero, sia nella ganga quarzosa che nel materiale
limonitico, in plaghette che in genere non
superano il millimetro; in alcune druse e geodi si possono comunque trovare
piccoli cristalli con abito ottaedrico e aggregati dendritici
centimetrici. Il contenuto è molto vario ed irregolare, anche
nell'ambito della stessa vena: nei filoni più ricchi si possono localmente
raggiungere e superare i 200 grammi per tonnellata di roccia, ma il tenore
medio, anche nel minerale scelto, è di pochi grammi. Il metallo è
costituito da una lega con contenuti medi dell'85% di oro, 15% di argento e
tracce di rame ed altri elementi.
Filoni e vene quarzose sono
tipicamente idrotermali e l'origine dell'oro va cercata nelle rocce
ultramafiche incassanti, che ne contengono sempre discrete anomalie.
La presenza dell'oro è stato infatti riconosciuta anche al di fuori delle
vene mineralizzate: nelle lherzoliti è presente
in tracce, mentre nei livelli dunitici può
arrivare fino a 1-2 g/T; contenuti maggiori (fino a 100 g/T e oltre) si
riscontra in bande milonitiche di frizione interessate da alterazione
talco-carbonatica ed accompagnata talora da grafite e da asbesto, nelle
quali possono notarsi localmente sottili scaglie d'oro striate sugli
specchi di faglia.
Le mineralizzazioni più
sviluppate affiorano nella zona collinare compresa tra i torrenti Piota e Gorzente, a monte del bacino artificiale dei Laghi
della Lavagnina, comuni di Mornese, Casaleggio Boiro e Lerma (AL), dove in
epoca recente sono esistite quattro concessioni minerarie: vi sono stati
coltivati filoni con tenori alti, anche se discontinui, e sono stati
riconosciuti locali arricchimenti di alterazione superficiale, costituiti
da livelli talora potenti alcuni metri di saprolite
lateritica. A poca distanza, nella Stura di Ovada, comuni di
Ovada e Belforte Monferrato, si trovano manifestazioni simili ma molto meno
sviluppate, che hanno comunque dato vita a due altre concessioni; manifestazioni
ancora di minore importanza, che sono state oggetto di ricerca in tempi
passati ma non sono sfociate in recenti concessioni minerarie, si trovano
nelle valli del Visone (Grognardo), del Gargassino
(Rossiglione) e del Rio Vezzullo (Masone).
Le ricerche più recenti ed
approfondite, eseguite negli anni ‘80 dal dottor G. Pipino in
collaborazione con compagnie minerarie canadesi, hanno evidenziato la
presenza di discreti giacimenti nell'area compresa fra i torrenti Piota e Gorzente, in particolare nelle zone di C. Ferriere sup., Nebbie ed Argion, dove
sono stati individuati corpi superficiali con cubature variabili dalle 500
alle 600.000 tonnellate di minerale con tenori d'oro variabili da 2 a 4
grammi.
Nonostante la plurisecolare
opera di livellamento e di asportazione dei ciottoli, lungo i bassi corsi
del Gorzente e del Piota la presenza dei cumuli è
ancora osservabile con una certa continuità, per uno sviluppo lineare di
circa 14 chilometri, mentre nella parte finale del torrente Stura se ne
osservano limitati lembi, in quanto i terrazzi alluvionali sono discontinui
e poco estesi. Nella bassa valle del Piota è anche possibile
osservare la presenza di cumuli residui non solo nel terrazzo più basso, ma
anche in alcuni di quelli sovrastanti. I cumuli poggiano direttamente
sul substrato roccioso che, procedendo verso nord, da monte a valle, è
costituito prima da ultramafiti e calcescisti del
Gruppo di Voltri, poi dai sedimenti basali del Bacino Terziario
Piemontese. A monte sono in gran parte privi di vegetazione e
possono raggiungere i 10 metri di altezza, mentre a valle sono meno elevati
e coperti da una fitta boscaglia: in tutti i casi è ancora possibile
osservare la disposizione in allineamenti paralleli, separati da
avvallamenti diretti verso il vicino corso d'acqua attuale. I
ciottoli sono molto grossolani e presentano vario grado di arrotondamento,
le dimensioni variano dai 10 ai 50 centimetri e più, con totale assenza di
elementi più minuti, e la composizione rispecchia quella del Gruppo di Voltri,
da cui provengono, con prevalenza di ultramafiti,
metagabbri, prasiniti, anfiboliti ed eclogiti: i ciottoli di quarzo, oggi discretamente
diffusi soltanto in profondità, erano certamente molto più abbondanti in
passato, prima che ne iniziasse la raccolta per la fabbricazione del vetro
e per l'utilizzo come fondente negli altoforni.
I cumuli di ciottoli sono i
residui del lavaggio in grande stile di originari terrazzi alluvionali
auriferi, lavaggi avvenuti in epoca incerta ma certamente antica e, data la
mancanza di qualsiasi cenno letterario, è ragionevole supporre che
l'attività vi sia stata svolta in tempi preromani o ai tempi delle prime
guerre ligustiche (197-172 a.C.). Non sono ovviamente da confondere,
come invece hanno fatto funzionari della Soprintentenza
Archeologica del Piemonte, con mucchi di inerti deposti in tempi recenti da
locali cavatori.
Il sistema di lavorazione, che i
Romani trovarono sul posto e incrementarono con la loro organizzazione
militare, consisteva nel lavare porzioni di terreno alluvionale in canali
all'uopo scavati: l'acqua vi veniva convogliata derivandola da torrenti
montani o da bacini artificiali precedentemente predisposti e il materiale
da lavare veniva versato nel canale abbattendolo direttamente dalle sponde:
i ciottoli più grossolani, che impedivano lo scorrimento, venivano di tanto
in tanto eliminati, a mano o con l'aiuto di forche, ed ammucchiato ai lati,
mentre sabbia e ghiaia venivano trascinati via dalla corrente, fino al
sottostante torrente: i minerali pesanti contenuti nel sedimento, in
particolare l'oro più grossolano, venivano intrappolati naturalmente dai
ciottoli, mentre per trattenere l'oro fine, almeno in parte, venivano
predisposti opportuni ostacoli sul fondo dei canali. Quando diventava
difficoltoso e poco pratico versare direttamente nel canale il materiale
dalle sponde, la corrente d'acqua veniva interrotta, i ciottoli residui
venivano completamente eliminati e veniva recuperato il concentrato di
minerali pesanti che, posto in sicurezza, veniva poi rifinito sotto
sorveglianza. Successivamente, o anche contemporaneamente, a seconda
della disponibilità di acqua e di mano d'opera, venivano scavati altri
fossati paralleli al primo e, dopo avervi convogliato l'acqua, si procedeva
con l'abbattimento delle sponde, e così via. Quando tutto il terrazzo
alluvionale era stato lavato restavano, al suo posto, potenti mucchi di
ciottoli allungati e paralleli, separati dai fossati serviti per il
lavaggio.
Come ampiamente osservato e
descritto in tempi recenti, con questo metodo di lavorazione un uomo Come
ampiamente osservato e descritto in tempi recenti, con questo metodo di
lavorazione un uomo poteva abbattere e versare nel canale da 5 a 10 metri
cubi di sedimento al giorno; il volume d'acqua necessaria variava da 2 a 10
volte quello del materiale da lavare, cioè da 10 a 100 metri cubi al giorno
per operaio, e la velocità di scorrimento doveva essere di almeno 2-3 metri
al secondo. L'oro recuperato si aggirava sul 60-80 % di quello
contenuto nel materiale lavato, e buona parte era costituito dai pezzi più
grossi, intrappolati nei ciottoli: la maggior parte dell'oro fine sfuggiva
al lavaggio e andava a depositarsi lungo il sottostante torrente, dove ha
consentito per secoli la modesta attività di “pesca”.
Abbattimento del terrazzo
aurifero e accumulo dei ciottoli, idealizzati nel corso di una intervista
al dottor Pipino (SCIENZA E VITA NUOVA, giugno 1990).
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