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FORMARE UNA FAMIGLIA

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Estratto da "Essere padri in Italia", studio ISTAT 2005

bullet 1. Diventare adulti
bullet 1.1 Tra vincoli ed opportunità
bullet 1.2 Tempi e motivi di uscita dalla famiglia di origine
bullet1.2.2. Motivi
bullet1.2.3. Il ritorno nella famiglia di origine
bullet 1.3 Le generazioni più giovani
bullet 1.4 In sintesi
bullet 2. Sposarsi
bullet 2.1 Il processo di selezione del partner
bullet 2.2 Le prime nozze
bullet 2.3 Le seconde nozze
bullet 2.4 Le unioni libere
bullet 2.5 I “matrimoni misti”
bullet 2.6 In sintesi
bullet Approfondimento 1 - La lunga permanenza nella famiglia di origine: differenze di genere e di status socio culturale
bullet A1. L’importanza della famiglia di origine
bullet A1.2 Un percorso a tappe
bullet A1.3 Differenze di genere e di status socio-culturale
bullet A1.4 In sintesi
bullet Appendice: l'indice di status socio-culturale della famiglia di origine
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1.1 - Tra vincoli ed opportunità

Negli ultimi trent’anni nei paesi occidentali si è assistito a cambiamenti rilevanti nei tempi e modi del diventare adulti e di formare una propria famiglia. I fenomeni più importanti sono stati la dilatazione dei tempi di sperimentazione delle varie tappe di uscita dalla condizione giovanile e la flessibilizzazione dei percorsi di entrata in unione.
Elemento chiave di tali profonde trasformazioni è l’indebolimento dell’istituzione matrimoniale. Quali ne siano le cause, una delle conseguenze più importanti della crisi dell’istituzione del matrimonio (ed in particolare della diffusione delle unioni informali e dell’aumento dell’instabilità coniugale) è il fatto che la paternità diventa sempre meno una condizione stabile nella vita degli uomini, non solo rispetto al passato, ma soprattutto rispetto a quanto vale per il ruolo materno nelle biografie femminili. Il legame tra uomini e figli diventa sempre più sfumato e complesso. Rispetto al privilegiato rapporto madre-figlio, è soprattutto la natura e la forza della paternità a risentire del minor impegno e della maggior provvisorietà delle forme di unione non coniugale. Allo stesso modo è soprattutto il ruolo paterno a doversi ripensare e riadattare nel rapporto con i figli avuti da precedenti matrimoni e con i figli acquisiti in matrimoni ricostituiti.

1. Diventare adulti

Per quanto riguarda l’Italia la letteratura scientifica ha finora in larga parte sostenuto che più che attraverso la diffusione delle unioni informali, l’aumento da un lato della minore propensione ad assumere impegni troppo formalizzati8 e dall’altro della precarietà occupazionale, si sia tradotta in una posticipazione del matrimonio ed una prolungata permanenza nella famiglia di origine. Tutto ciò continua ad essere vero o vi sono invece segnali di diffusione anche in Italia di forme di unione alternative al matrimonio? Con quali implicazioni sui percorsi maschili e femminili? I dati utilizzati sono quelli dell’indagine campionaria Multiscopo “Famiglie, soggetti sociali e condizioni dell’infanzia” condotta nel 1998. Oltre a dati su caratteristiche individuali e su tempi e motivazioni di uscita dalla famiglia di origine, l’indagine fornisce informazioni sul livello di istruzione e sulla condizione professionale dei genitori quando il figlio aveva 14 anni. Inoltre per chi è ancora in famiglia al momento dell’indagine si hanno informazioni su come vive il giovane la sua permanenza e i suoi rapporti con genitori e fratelli. L’ampia numerosità campionaria e la caratteristica dell’indagine di coinvolgere tutte le età, consente di analizzare in modo consistente l’evoluzione del fenomeno lungo un ampio spettro di generazioni. Viene quindi adottata un’ottica longitudinale che consente, rispetto alle classiche analisi cross-section, di cogliere adeguatamente la dinamica dei processi in atto anche in funzione di corrette misure per politiche sociali.
Nel confrontare le differenze di genere relativamente ai modi di uscita dalla casa dei genitori teniamo conto oltre che dell’evoluzione per generazioni anche delle differenze tra Italia settentrionale e meridionale. Come è noto, le due ripartizioni geografiche presentano differenze molto rilevanti sia dal punto di vista culturale che economico, che si riflettono profondamente sui percorsi di acquisizione dei ruoli adulti.

1.2 - Tempi e motivi di uscita dalla famiglia di origine

1.2.1. Tempi

Sfruttando l’ampio spettro di generazioni raggiunte dall’indagine “Famiglie, soggetti sociali e condizioni dell’infanzia” descriviamo il processo di permanenza nella casa dei genitori per le coorti nate dal 1930 al 1974, distintamente per sesso. Sintetizziamo il processo osservando la situazione in corrispondenza dei 30 e dei 35 anni. I valori riportati in fig. 1.1 indicano un aumento della quota di usciti prima dei 30 (ed in certa misura anche prima dei 35 anni) che tocca l’apice per le coorti nate nei primi anni del secondo dopoguerra. Dopodiché il processo si inverte e si assiste ad una continua posticipazione, a cui corrisponde una riduzione soprattutto delle uscite maschili prima dei 30 anni. Per i nati nella prima metà degli anni ’60 la quota di giovani uomini che arrivano a compiere i 30 anni ancora nella casa dei genitori si avvicina al 40%. Tale processo di posticipazione ha portato l’Italia ad acquisire il primato del ritardo nei tempi di formazione della famiglia. L’età maschile di entrata nella prima unione per le coorti dei nati all’inizio degli anni ’60 si
avvicina ai 29 anni solamente in Italia. Il primato vale anche sul versante femminile, anche se in modo meno accentuato (Tab. 1.1).
I fattori riconosciuti alla base di tale fenomeno sono molteplici. L’accesso di massa all’università, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’70, e lo sviluppo capillare sul territorio del sistema universitario, hanno incentivato una coresidenza con i genitori prolungata per gran parte del terzo decennio di vita. All’importanza attribuita alla disponibilità di una solida posizione occupazionale e all’acquisto dell’abitazione come precondizioni per sposarsi e formare una famiglia, si associa una rilevante disoccupazione giovanile, una offerta di lavoro di tipo precario, atipico, poco qualificante, scarse agevolazioni per l’acquisto della prima casa ed elevati costi degli affitti. Tutto ciò costituisce per i giovani italiani un forte disincentivo all’autonomia residenziale rispetto alla famiglia d’origine (Saraceno 1994). Sul versane dei fattori culturali si deve inoltre aggiungere l’accondiscendenza dei genitori verso la protratta permanenza dei figli nella casa dei genitori. Secondo chiavi di lettura di tipo familista (Dalla Zuanna 2000), i genitori italiani tenderebbero a considerare i figli come proprio prolungamento, ad investire molto su di loro, e a vivere come proprie sconfitte gli insuccessi dei figli. Ciò porterebbe i genitori più che spingere i giovani figli a guadagnare quanto prima una propria autonomia, ad ospitarli invece a lungo nella loro casa sia per motivi affettivi sia per dar loro la possibilità di uscire solo quando sono pienamente realizzate le aspettative di un adeguato lavoro e di una adeguata sistemazione abitativa. Tale atteggiamento dei genitori mediterranei sarebbe il frutto di una propensione a privilegiare la dimensione affettiva e solidale nel rapporto con i figli, spesso a scapito della maturazione nei giovani del senso di autonomia (in particolare verso le figlie femmine) e di responsabilità (soprattutto riguardo ai figli maschi). Analoga la condizione di altri paesi cattolici mediterranei (in particolare la Spagna). La conseguenza è una particolarmente lunga fase di incubazione tra la conclusione del periodo formativo e acquisizione piena dei ruoli adulti (Fig. 1.2).

1.2.2. Motivi

Passiamo a considerare i motivi di uscita concentrando l’analisi sulle generazioni che al momento dell’indagine avevano già sostanzialmente concluso il processo di transizione allo stato adulto (torneremo in un prossimo paragrafo a trattare le generazioni più giovani). Arriviamo quindi a considerare le coorti dei nati fino al 1957 per gli uomini (oltre i 40 anni al momento dell’indagine) e fino alle nate nel 1962 per le donne (oltre i 35 anni). Quello che si ottiene è l’apparente immagine di una grande staticità. Domina in assoluto - per entrambi i generi, sia al Sud che al Nord, e per tutte le generazioni - il matrimonio come motivo di uscita dalla casa dei genitori (Fig. 1.3). Il ruolo centrale che continua tradizionalmente a rivestire il vincolo coniugale nel processo di transizione allo stato adulto, è soprattutto caratteristico dei paesi cattolici e dei paesi dell’Europa mediterranea, e tocca il suo apice nell’intersezione di tali due insiemi, ovvero in Spagna ed in Italia. In molti altri paesi occidentali l’uscita dalla casa dei genitori per matrimonio è un comportamento largamente minoritario (Kiernan 2002). Rispetto al dominio quasi incontrastato del matrimonio alcune sensibili differenze. si possono comunque cogliere all’interno delle tre dimensioni considerate (genere, generazione, geografica). Le differenze maggiori si collocano sostanzialmente lungo un asse che vede come estremi i maschi settentrionali da una parte e le donne meridionali dall’altra. Per queste ultime l’unione coniugale sembra essere praticamente l’unico modo per lasciare la casa dei genitori. Inoltre la diminuzione di uscite per matrimonio nell’ultima generazione più che lasciare spazio ad altre forme di uscita sembra soprattutto legata ad un aumento di donne che rimangono nella famiglia di origine. Le donne settentrionali presentano invece un’incidenza un po’ più elevata di uscita per lavoro ed autonomia, e la diminuzione nelle generazioni più recenti del matrimonio sembra soprattutto legata ad un aumento delle convivenze.
Gli uomini meridionali presentano proporzioni rilevanti di uscita per lavoro, soprattutto in corrispondenza delle generazioni protagoniste delle emigrazioni degli anni ’60 verso le industrie del Nord. La diminuzione di tale motivo di uscita nelle generazioni più recenti viene compensato prevalentemente da esigenze di autonomia e altri motivi. L’uscita per matrimonio rimane comunque su livelli costanti. Gli uomini settentrionali sono invece la categoria per cui vale meno la sincronizzazione tra il momento di distacco dalla famiglia di origine e la formazione di un’unione coniugale. Acquistano di rilevanza tutti gli altri motivi di uscita. Come per le donne settentrionali, la diminuzione del matrimonio nelle generazioni più giovani sembra compensata soprattutto da un aumento delle convivenze. Da segnalare la bassissima, quasi trascurabile, incidenza che in Italia ha l’uscita per studio, conseguenza della sempre più capillare diffusione delle università nel territorio.
Se dalla quota di persone non uscite dalla famiglia di origine scorporiamo quella di chi si è comunque sposato otteniamo i valori riportati nella figura 1.4. In verità l’unica categoria per la qualche assume una certa rilevanza l’installarsi nella casa dei genitori dopo essersi sposati è quella degli uomini settentrionali delle generazioni più anziane (Rosina et a. 2003). E’ interessante però notare che al declino di tale comportamento ha corrisposto un aumento degli uomini settentrionali che rimangono a vivere con i genitori nello stato di celibi. Tale categoria è infatti l’unica che evidenzia un chiaro andamento crescente (fig. 2.4). Per i maschi meridionali si osservano invece valori pressoché costanti. Mentre per le donne si nota un effetto ad U, con una sorta di contrazione per le nate tra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50. Possiamo quindi affermare che risulta storicamente elevata la quota di chi rimane a vivere con i genitori soprattutto per i maschi del Nord-centro e per le femmine del Sud-Isole. Il cambiamento più rilevante riguarda però gli uomini centro-settentrionali, la cui permanenza nella casa dei genitori avveniva nel passato soprattutto nello stato di coniugati9 mentre nelle generazioni più recenti nello stato di celibi. Per le donne del Sud-isole, invece, rimanere nubili e rimanere nella famiglia di origine sembrano essere sempre state due facce della stessa medaglia. La maggior permanenza meridionale femminile nella casa dei genitori potrebbe essere attribuita sia a motivi economici che culturali. In particolare le maggiori difficoltà di trovare lavoro e il più forte contesto tradizionale sembrano essere particolarmente esplicativi di tale comportamento.
E’ interessante osservare che risultati di un’analisi multivariata evidenziano un’azione indiretta della disoccupazione al Sud. Ovvero la rinuncia a formare una propria famiglia da parte delle figlie sembra essere fortemente legata alla non occupazione del padre e all’impiego lavorativo della madre (usualmente precario). Ciò è ulteriormente accentuato sia dall’avere raggiunto un elevato titolo di studio quando il padre ha un livello basso, sia dall’avere un elevato numero di fratelli. Viceversa per i maschi settentrionali il rimanere a vivere con i genitori è invece inversamente associato sia al proprio titolo di studio sia al numero di fratelli (Rosina et al 2003). L’elevata quota di permanenza nella casa dei genitori evidenziata da tali due categorie di persone sembra quindi prodursi come esito di
due condizioni molto diverse: quella di giovane donna come risorsa per la famiglia di origine nel Sud, e quella di famiglia di origine come risorsa per il giovane uomo del Nord (Rosina et al. 2003). 9 Nel Centro-nord dominava, del resto, storicamente il modello di famiglia-ceppo (Micheli 1999).
Una conferma delle considerazioni appena svolte si può ottenere da una domanda posta direttamente ai giovani sull’autopercezione della propria condizione. Ai giovani fino ai 34 anni, coabitanti con i genitori, veniva chiesto nell’indagine come vivevano tale situazione. Limitiamo lo studio alla classe di età 30-34 (nati tra il 1963 ed il 1967). A dire di trovarsi bene e a godere di tutta la libertà desiderata è oltre il 18% degli uomini del Nord-centro e solo il 5% delle donne del Sud-isole (Tab.1.2). Ovvero circa il 60% dei maschi ed il 33% delle femmine tra i giovani ancora nella famiglia di origine.
E’ interessante sottolineare come questi risultati sembrino apparentemente contraddire quelli di altri studi, nei quali si ottiene una più lunga permanenza nella casa dei genitori da parte di chi ha uno status socio-culturale più elevato (Barbagli, Castiglioni, Dalla Zuanna 2003). La contraddizione in realtà è solo apparente, perché noi stiamo qui considerando la permanenza definitiva. Mentre infatti i giovani maschi con status elevato posticipano (sia per motivi di studio sia per mettere le basi di una solida carriera) ma poi - quando hanno raggiunto tutte le condizioni ritenute necessarie - escono, viceversa coloro che hanno un titolo di studio basso o escono relativamente presto oppure rimangono a vivere pressoché definitivamente con i genitori.

1.2.3. Il ritorno nella famiglia di origine

Oltre ad una posticipazione dell’uscita dalla famiglia di origine (soprattutto in Italia) e un aumento di forme più flessibili di formazione delle unioni e della famiglia (soprattutto nei paesi del Nord Europa) – si fa strada anche una tendenza a considerare reversibili i percorsi attuati. Avviene così sempre più spesso non solo che le persone decidano di sciogliere un’unione considerata insoddisfacente ma anche che tornino,
nella veste di un moderno “figliol prodigo”, nella famiglia di origine. Tra gli under 40 che nel momento dell’indagine del 1998 avevano alle spalle un fallimento matrimoniale erano oltre il 15% quelli che risultavano essere tornati nella famiglia di origine. Come descritto del resto nella famosa parabola, chi torna alla casa dei genitori si trova in genere in condizioni socio-economiche non favorevoli (prevalgono disoccupati e occupazioni medio-basse). Si tratta comunque molto spesso di una situazione temporanea in corrispondenza di una prima fase immediatamente successiva alla rottura coniugale. Ad invertire così drasticamente il processo di transizione allo stato adulto, fino a tornare alle cure della mamma, sarebbero in grande prevalenza gli uomini. A trovarsi al momento dell’indagine in tale situazione erano infatti oltre un maschio su cinque (20,4%) a fronte di un 13,2% tra le donne. Meno frequente è invece il ritorno dai genitori se si hanno figli. Il coniuge a cui sono affidati i figli rimane infatti in genere nell’abitazione coniugale (Istat 2000).

1.3 - Le generazioni più giovani

Il processo di posticipazione degli eventi di transizione allo stato adulto di cui abbiano dato conto nei paragrafi precedenti sembra continuare anche nelle generazioni più giovani. I nati alla fine degli anni ’60 avevano meno di 30 anni al momento dell’indagine. Possiamo comunque valutare l’evoluzione generazionale della quota di usciti prima dei 20 e dei 25 anni (Fig. 1.5). Per i nati nella seconda metà degli anni ’60 meno del 50% delle giovani donne e meno del 25% dei giovani uomini è già uscito dalla casa dei genitori prima dei 25 anni. L’andamento sembra inoltre indicare un’ulteriore riduzione nelle generazioni successive.

Nelle più giovani generazioni, il processo di continua posticipazione potrebbe essere arginato da una flessibilizzazione dei percorsi di transizione allo stato adulto che consenta di allentare la sincronizzazione tra uscita dalla famiglia di origine e matrimonio. In particolare la diffusione delle convivenze informali potrebbe, come avvenuto in molti altri paesi occidentali, favorire un’anticipazione del distacco dalla famiglia di origine prima ancora che tutte le condizioni ritenute necessarie per il matrimonio siano verificate (Rosina, Billari 2003). Dopo essere rimaste in Italia a lungo un comportamento marginale, a partire soprattutto dalle generazioni maschili di fine anni ’50 il processo di diffusione delle convivenze informali sembra uscire dal suo stato latente (Fig. 1.6).

Il fenomeno comincia ad acquisire visibilità sociale durante gli anni ’90 del XX secolo anche fuori dai centri metropolitani settentrionali (Rosina, Fraboni 2004).
E’ comunque interessante notare che già negli anni ’80 vi era tra i giovani una larghissima maggioranza di favorevoli alla scelta di convivere (Sabbadini 1997; Barbagli et al. 2003). Nel corso dell’ultimo decennio del XX secolo l’apertura culturale verso tale scelta innovativa di formazione della prima unione aumenta ulteriormente fino a raggiungere i livelli di ammissibilità dei rapporti sessuali prematrimoniali (questi ultimi, come noto, già da tempo ampiamente diffusi tra i giovani italiani10), e decisamente superiori ad un altro
fenomeno in recente ascesa in Italia quale il divorzio (Fig. 1.7).

E’ altresì importante notare l’elevata importanza che continua ad avere la famiglia, soprattutto quella fondata sul matrimonio. Solo una ridotta minoranza dei giovani lo considera superato come istituzione11. L’insieme di tali risultati, assieme ai dati empirici sulle convivenze attuali, fa quindi pensare che, almeno nei prossimi anni, l’accelerata
diffusione delle unioni informali sarà largamente costituita da convivenze prematrimoniali. Ovvero si tratterà verosimilmente di periodi di relativamente breve durata, limitati ad una prima fase della vita di coppia, e destinati ad esitare in matrimonio non appena il rapporto di coppia, la condizione lavorativa, la collocazione abitativa saranno diventati sufficientemente stabili, e si sarà pronti per una progettualità procreativa. I dati sui comportamenti attuali e il forte connubio anche tra i giovani italiani del binomio famiglia-matrimonio, rende infatti molto presumibile attendersi che all’aumentare delle convivenze non corrisponderà un equivalente incremento delle nascite fuori dal matrimonio.

1.4 - In sintesi

Nella letteratura scientifica che studia le trasformazioni recenti della famiglia nei paesi occidentali da qualche anno si individua come una delle conseguenze più importanti della crisi dell’istituzione del matrimonio il fatto che la paternità stia diventando sempre meno una condizione stabile nella vita degli uomini. Rispetto al privilegiato rapporto madre-figlio, sarebbe soprattutto la natura e la forza della paternità a risentire della minore solidità che caratterizza le forme di unione non coniugale. Per quando riguarda l’Italia, vari studi hanno
sottolineato come, più che attraverso la diffusione delle unioni informali, la minore propensione, da un lato, nell’assunzione di impegni troppo formalizzati e, dall’altro, della precarietà occupazionale, si siano tradotte soprattutto in una posticipazione dei tempi di entrata in unione. Tale posticipazione consentirebbe di rispondere ai rilevanti cambiamenti culturali, economici ed istituzionali nella vita dei giovani, mantenendo la tradizionale accentuata sincronizzazione tra uscita dalla casa dei genitori e matrimonio nel processo di transizione allo stato adulto. Tutto ciò ha portato però i giovani maschi italiani ad essere tra i più tardivi in Europa nell’uscire dalla casa dei genitori e nel formare una propria famiglia. Se tale fenomeno non è completamente nuovo nella realtà italiana, assume nelle generazioni più recenti connotati ed implicazioni diverse rispetto a quanto avveniva in passato. Abbiamo ad esempio visto come nelle generazioni più anziane del centro-nord (dove dominava storicamente la famiglia-ceppo) una quota rilevante di uomini
rimaneva nella casa dei genitori nella condizione di coniugato mentre nelle generazioni più recenti i giovani che rimangono con i genitori sono in larga maggioranza celibi. Inoltre il passaggio, in larga misura simultaneo, dalle cure della madre a quelle della moglie, senza fasi intermedie di vita da single o condivisione con coetanei di un appartamento non favorisce negli uomini italiani la maturazione di un atteggiamento collaborativo nei riguardi degli impegni domestici. Il permanere di una forte asimmetria dei ruoli di genere anche nelle più giovani generazioni ha poi implicazioni negative sulla possibilità di conciliazione dell’investimento professionale femminile con la fecondità e l’accudimento dei figli. Se a differenza di molti altri paesi occidentali la resistenza dell’istituto del matrimonio e dell’importanza assegnata alla famiglia ed ai legami familiari (Dalla Zuanna, Micheli 2004), sembra poter consentire agli uomini italiani di mantenere solidi e duraturi rapporti con i figli, il numero dei figli si pone però a livelli tra i più bassi nel mondo, riducendosi in molti casi ad un unico discendente. Questo scenario sembra non poter essere intaccato in modo rilevante nel prossimo futuro dalla diffusione delle convivenze come forma di prima unione. In Italia le convivenze sembrano infatti continuare ad essere limitate ad una prima fase della vita di coppia. Pertanto, verosimilmente, non ci sarebbe da aspettarsi, quantomeno nel breve periodo, una convergenza delle nascite fuori dal matrimonio sugli elevati livelli sperimentati nei paesi Nord-europei. E’ verosimile invece attendersi, come accaduto nel resto d’Europa, che anche in Italia le convivenze pre-matrimoniali possano consentire ai giovani di uscire in età meno tardiva dalla famiglia di origine e favorire nei giovani uomini uno stile più collaborativo negli impegni domestici.

2.1 - Il processo di selezione del partner

La formazione di nuove unioni da sempre rappresenta un terreno di studio molto fertile tra i ricercatori delle discipline socio-economiche e demografiche che hanno messo in evidenza la tendenza a scegliere partner socialmente prossimi, cioè omogami (Bozon 1991). Il livello di omogamia rappresenta il risultato d’insieme di un processo secondo il quale i simili si associano più frequentemente tra di loro. Infatti, all’interno del processo di formazione delle coppie esistono delle correnti di scambio privilegiato, tra gruppi diversi ma prossimi all’interno dello spazio sociale, e delle correnti di repulsione che fanno sì che alcune traiettorie dei percorsi di mobilità sociale non si incontrino mai. Da precedenti studi sembrerebbe che il modello di libera scelta del partner sia una conquista relativamente recente. Per molto tempo infatti, e in maniera diversificata per i vari ceti sociali, è stata forte l’intromissione e il controllo sui nubendi da parte di altre persone su chi potesse accedere a nozze, con chi si dovesse sposare, a che età e con quali modalità (Barbagli 1984). In questo ambito, il ruolo femminile è risultato costantemente minoritario e condizionato a quello dell’uomo e del resto della famiglia. Solo con un lento processo di modificazioni, iniziato con la rivoluzione industriale e le sue conseguenze sul mondo rurale e contadino, e sostenuto dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione, dalla generalizzazione e dal prolungamento della scolarizzazione cambiano profondamente le modalità di riproduzione sociale nel XIX e nel XX secolo (Van Poppel e Nelissen 1999). Anche la mobilità geografica o spaziale facilita questo processo e diventa una componente fondamentale della mobilità sociale.
In generale, nel corso dei secoli si è assistito ad una riduzione dell’omogamia basata sulle caratteristiche ascritte degli individui (come lo status della famiglia di origine o la religione) e, parallelamente, ad un aumento dell’omogamia basata sulle caratteristiche acquisite dagli individui nel corso della loro vita (come l’istruzione o la posizione occupazionale raggiunta). È vero tuttavia che i meccanismi di selezione del coniuge continuano a dipendere da molteplici fattori sociali, variabili nelle diverse culture. Una delle dimensioni più studiate, soprattutto per le conseguenze importanti sulla fecondità e quindi, in generale, sul rinnovamento delle popolazioni (Girard 1981), è l’età alla quale si producono con maggiore frequenza i matrimoni. Da uno studio condotto su 28 paesi in via di sviluppo emerge che la varianza dell’età al matrimonio del marito è ben più ampia di quella delle donne e che pertanto l’età al matrimonio dell’uomo contribuisce più di quella della donna alla variazione nelle differenze d’età (da un paio di anni a circa 10 anni) (Casterline et al. 1986). La maggiore variazione dell’età al matrimonio dell’uomo implica che in particolari società il calendario dei matrimoni degli uomini è soggetto ad un più ampio insieme di influenze rispetto a quello femminile che è invece più rigidamente determinato da vincoli biologici, sociali o culturali. In ambito sociologico sono state sviluppate diverse spiegazioni del processo che porta a determinare lo scarto d’età tra partner. Secondo la teoria economica della famiglia (Becker 1981) la suddivisione dei ruoli dell’uomo e della donna tra l’ambito lavorativo retribuito e quello domestico-familiare di tipo non retribuito può massimizzare l’utilità congiunta della famiglia. Da questo punto di vista le relazioni di genere che si instaurano all’interno delle mura domestiche risultano fortemente asimmetriche, anche per quanto riguarda le età dei due partner.
Altri studiosi sottolineano invece l’importanza della negoziazione matrimoniale in presenza di un’asimmetria dei capitali maschile e femminile: così ad esempio, nell’ambito della scelta del partner può aver luogo uno scambio tra risorse economiche (ad es. status e reddito) offerte dagli uomini e risorse di altro tipo (ad es. giovinezza e bellezza) offerte dalle donne (Collins 1988). Poiché le risorse economiche sono positivamente correlate con l’età mentre le virtù femminili lo sono negativamente, ecco che sul ‘mercato matrimoniale’ gli uomini sono più frequentemente attratti da donne più giovani di loro e viceversa (Goode 1982).
Ciò viene contrastato dalla crescente acquisizione di risorse economiche, tramite il raggiungimento di un livello di istruzione via via più elevato, che rende le donne istruite economicamente attraenti per gli uomini. Questo favorirebbe una diminuzione della competizione degli uomini per le donne più giovani e l’instaurarsi di relazioni più simmetriche, almeno dal punto di vista dell’età dei partner (Kalmijn 1994). Inoltre la preferenza sul piano culturale, che caratterizza molti aspetti dello stile di vita degli individui in termini di valori, opinioni, gusti, visione del mondo e che facilita la comunicazione e favorisce la mutua comprensione tra partner, tende ad esercitare una maggiore forza di attrazione tra individui prossimi per età (Oppenheimer 1988, Di Maggio e Mohr 1985, Kalmijn 1998).
Infine la maggiore omogamia per età è anche il frutto dell’aumento delle frequentazioni tra pari, spinte e sostenute dall’accresciuta permanenza all’interno del sistema scolastico che, per sua natura, risulta fortemente gerarchizzato in livelli di formazione distinti tra loro ed omogenei per età al loro interno (Mare 1991, Blossfeld e Timm 2004, Fraboni 2004).
Tra tutte le dimensioni, come la professione, lo stato civile, lo status economico o il livello di istruzione che interagiscono nel configurare un certo modello di assortimento matrimoniale, in questo lavoro viene privilegiato lo studio delle differenze d’età e di istruzione tra partner. L’obiettivo è dunque studiare la formazione delle coppie secondo queste due dimensioni, strettamente legate tra loro, sia in una prospettiva temporale che legata ai possibili percorsi di vita. Per far questo, viene studiato l’assortimento per età e livello di istruzione secondo le caratteristiche delle coppie e cioè secondo la precocità dell’ingresso in unione, il tipo di unione (coniugale o consensuale), l’ordine dell’unione (prime nozze, seconde nozze a seguito di divorzio o vedovanza), il livello di eterogamia (matrimoni misti per luogo di origine). Di seguito viene presentata una panoramica di ciascun modello di assortimento matrimoniale succitato, privilegiando l’osservazione sul versante del comportamento maschile, tra 15 e 49 anni, ricordando che sui vari modelli di assortimento si osserva poi una variabilità temporale (nel corso delle generazioni) e spaziale (legata ai diversi modelli familiari presenti sul territorio).
Per l’analisi del processo di selezione del partner da parte degli uomini utilizzeremo dati provenienti da diverse rilevazioni. Da un lato i dati provenienti dalla rilevazione dei matrimoni in Italia, per studiare l’evoluzione nel corso degli anni nelle caratteristiche dei due partner al momento del matrimonio (in particolare ci soffermeremo su alcuni anni: 1969, 1979 e 1998). Dall’altro i dati provenienti dall’indagine campionaria Istat “Famiglia, soggetti sociali e condizione dell’infanzia” (1998) per quanto riguarda le caratteristiche dei partner che vivono in diverse tipologie di unione (ad es. unioni consensuali e coniugali) per
durata dell’unione e per età all’unione.

2.2 - Le prime nozze

Fondamentalmente lo scarto d’età tra uomini e donne può essere letto come una discordanza tra il calendario maschile e quello femminile di ingresso nella vita di coppia (Figura 2.1). Infatti a 23 anni circa 3 donne su 5 (59,8 per cento) hanno contratto una prima unione contro appena un uomo su quattro (23,5 per cento). La distribuzione delle età di ingresso in unione per sesso mostra molto bene le differenti esperienze di uomini e donne nelle varie fasi della vita. Tuttavia, il confronto tra la distribuzione per età della donna delle età medie del coniuge all’inizio dell’unione e viceversa mette in luce ancora meglio le diverse scelte per età maschili e femminili.
Esaminiamo l’età di ingresso in unione dei partner. Si può vedere che, per le donne, la differenza d’età col partner è inizialmente molto marcata tra le giovani, ma questa distanza si attenua via via nel corso degli anni, pur rimanendo a vantaggio degli uomini, fino a circa i 30 anni delle donne (età in cui esse raggiungono l’equilibrio). Oltre tale età si osserva una vera e propria inversione di tendenza: superati i 30 anni, le donne si sposano in media con uomini più giovani di un paio di anni. L’ingresso maschile in un’unione di tipo coniugale è senz’altro più tardivo di quello femminile e gode via via di uno scarto d’età maggiore con le consorti: al crescere dell’età al matrimonio, gli uomini sposano donne sensibilmente più
giovani.

È interessante notare come le unioni precoci degli uomini si caratterizzino per un età più egalitaria: coloro che contraggono precocemente matrimonio sono più frequentemente omogami per età. Infatti dalla Figura 2.3 è possibile osservare come gli uomini, al crescere dell’età, attingano ad un bacino di spose via via più ampio e diversificato sulla base dell’età. Mentre infatti un uomo ventenne sposa donne che hanno un’età compresa in un intorno molto ristretto della propria, a 30-34 anni gli uomini sposano donne in pressoché tutte le fasce d’età.
Pur mantenendo il vantaggio maschile, in media lo scarto d’età con la sposa che riguarda uomini in prime nozze è andato riducendosi nel corso degli anni (Tavola 2.1): nel 1969 i celibi risultavano di quasi 4 anni più grandi delle spose, nel 1979 si è passati ad una differenza d’età di 3 anni e mezzo ed infine nel 1998 si è attestato su quasi 3 anni. Il Mezzogiorno, nonostante la riduzione dello scarto d’età, rimane l’area con il maggiore divario d’età tra partner (da 4,2 anni nel 1969 a 3,2 anni dopo 30 anni).

I profondi cambiamenti culturali a cui si è assistito nel corso del dopoguerra hanno reso possibile il raggiungimento di livelli di istruzione via via più elevati ad una sempre crescente quota di uomini e, soprattutto di donne. Ciò non solo ha in parte determinato un posponimento dell’età al matrimonio conseguente alla maggiore scolarizzazione, ma può anche aver contribuito alla formazione di coppie più omogame per età e istruzione, conseguenza dell’organizzazione gerarchica del sistema scolastico che tenderebbe a favorire le frequentazioni e l’instaurarsi di legami affettivi tra coetanei.
Il modello di assortimento matrimoniale per titolo di studio ha subito un profondo cambiamento (Tavola 2.2): pur rimanendo maggioritarie le coppie con pari livello di istruzione sono andate riducendosi nel corso degli anni (passando dal 72,3 per cento al 64,5 per cento) a vantaggio di una crescente quota di nozze di donne con istruzione superiore a quella dello sposo (raddoppiate passando da circa il 10 per cento nel 1969 al
21,6 per cento nel 1998). La riduzione del livello di omogamia per istruzione si osserva soprattutto nel centro-nord, dove le coppie in cui lui sposa una donna più istruita sono in netta crescita. Ciò va anche ricondotto ad una più prolungata formazione scolastica osservata tra le donne delle generazioni più recenti (Fraboni 2004).

Se si considera il livello di istruzione dello sposo si osserva anche che nel corso degli anni chi possedeva titoli di istruzione medio alti è andato riducendo il gap culturale con la propria sposa, dal momento che aumenta la quota di matrimoni tra sposi parimenti istruiti. Infatti, su 100 sposi che hanno conseguito il diploma delle superiori o la laurea, si osserva una riduzione progressiva della quota di matrimoni in cui lui è più istruito, a vantaggio di una crescita delle prime nozze celebrate con spose con lo stesso livello di istruzione (Tabella 2.3). Si osserva inoltre che, tra gli sposi con basso titolo di studio, la quota di matrimoni contratti con donne più istruite cresce rispetto alla quota di coppie omogame. I luoghi che hanno favorito l’incontro delle coppie hanno giocato un ruolo diverso nelle varie coorti di matrimonio. Complessivamente si osserva un cambiamento nella frequentazione dei luoghi che hanno favorito la formazione di nuove coppie. La maggiore contrazione è quella subita dai luoghi di incontro ‘pubblici’, ad es. in occasione di ricorrenze pubbliche (come le feste di paese e i balli di piazza), e attraverso i legami di vicinato e per mezzo di incontri a casa di parenti e amici. Aumenta invece il ruolo rivestito da luoghi privati di incontro (come le feste tra amici, le discoteche e i locali notturni, le località di vacanza, la scuola o l’università). L’ambiente di lavoro mantiene invece un ruolo stabile e abbastanza modesto tra le coorti di sposi, nella formazione delle coppie che approdano alle nozze in anni diversi (Figura 2.4).

2.3 - Le seconde nozze

Nonostante un costante aumento nel corso degli anni, le seconde nozze in Italia rappresentano ancora una quota limitata del totale dei matrimoni (circa il 5 per cento nel 1998 per quanto riguarda le seconde nozze contratte da uomini) (Tavola 2.4). La struttura dei secondi matrimoni è cambiata rapidamente a partire dagli anni Settanta, con l’introduzione del divorzio in Italia: a partire dal quel momento infatti le seconde nozze sono passate dall’essere unioni prevalentemente di vedove e vedovi (in particolare al Sud) a unioni prevalentemente di divorziati e divorziate (soprattutto nel Nord). Complessivamente, nel 1998 si osserva che le seconde nozze sono più frequentemente costituite da unioni di nubili e divorziati (37,9 per cento), seguiti in seconda battuta dalla tipologia di celibi e divorziate (26,8 per cento). Da studi condotti in altri paesi emerge che proprio nell’ambito di questo tipo di unioni si fa più marcato il vantaggio maschile sul mercato matrimoniale (Bozon 1990). Infatti, successivamente allo scioglimento della prima unione, gli uomini hanno una probabilità di contrarre nuove nozze molto superiore rispetto a quella delle donne, soprattutto quando queste ultime hanno dei figli. Nel 1998 risulta che tra le persone con esperienza di divorzio alle spalle, il 49,1 per cento degli uomini ha contratto anche le seconde nozze, contro il 39,5 per cento delle donne (Tavola 2.5). Le condizioni del mercato matrimoniale più favorevoli agli uomini, permettono di contrarre nuove nozze in misura maggiore al Sud e nelle Isole rispetto al resto del Paese. Nel Mezzogiorno infatti, a causa di una più elevata migratorietà maschile, il nubilato femminile rappresenta un ampio bacino di disponibilità per le seconde nozze degli uomini.

Inoltre, poiché gli uomini alle seconde nozze accedono molto spesso a donne senza una precedente storia matrimoniale e senza figli, lo scarto d’età con la nuova compagna diventa molto accentuato (5,5 anni in media). Ne risulta che il mercato matrimoniale delle seconde unioni è nettamente vantaggioso per gli uomini. Infatti, quando un uomo si risposa a seguito di un divorzio, la nuova compagna sarà mediamente piuttosto giovane se nubile (27,6 anni nel 1969, 37,7 nel 1979 e 34,2 nel 1998), mentre l’età media della sposa cresce nel caso sia anche lei in seconde nozze: le divorziate hanno in media un po’ più di 40 anni nel 1979 e 1998, mentre le vedove passano da 69 anni in media nel 1969 a 51,8 anni nel 1979 e 46,2 anni nel 1998. (Tavola 2.6). Di conseguenza lo scarto d’età alle seconde nozze di un uomo divorziato con la propria partner risente anche della precedente esperienza di lei: esso risulterà più accentuato nel caso di spose nubili (soprattutto nel Sud e nelle Isole) e più contenuto se anche la sposa è in seconde nozze a seguito di divorzio o vedovanza. Dal punto di vista territoriale, nel Mezzogiorno l’età media delle nubili che vanno in spose a dei divorziati è variata molto nel periodo preso in esame. Sono più giovani rispetto alla media nazionale di oltre 5 anni nel 1969, ma già dal 1979 l’età media delle nubili si riallinea sui valori medi dell’Italia. Infatti, con il passare degli anni, la differenza nell’età media in cui donne divorziate o nubili sposano uomini in seconde nozze si attenua un po’ per effetto di un aumento dell’età media delle nubili al Mezzogiorno (da 23,3 anni nel 1969 a 34,3 anni nel 1998), e si uniforma a quella registrata nel resto del paese, pur mantenendosi di circa 10 anni più giovani delle divorziate che sposano un divorziato.


Si può osservare che l’assortimento matrimoniale tra uomini divorziati e donne nubili mantiene una rimarchevole differenza d’età tra i due coniugi (8,6 anni nel 1998), che tuttavia si è andata riducendo nel corso degli anni (era pari a 9,1 anni nel 1969), rispetto al
caso in cui entrambi hanno contratto una precedente unione (6,3 o 5,4 anni). La disparità è tanto più elevata quanto più lo sposo risiede nel Mezzogiorno (10 anni di differenza tra marito e moglie), confermando dunque, come nel caso delle primi unioni, una forte asimmetria per età tra coniugi. Nel corso degli anni sembra esserci stata dapprima una tendenza ad una riduzione delle differenze d’età con una ripresa nell’ultimo anno di osservazione. Ciò tuttavia, oltre che a segnalare una preferenza per un modello di coppia più tradizionale e asimmetrico per età va anche legato alle condizioni del mercato matrimoniale che possono favorire il connubio con giovani donne nubili. Le seconde nozze per gli uomini si caratterizzano per dei livelli di omogamia per istruzione più bassi di quelli osservati in prime nozze (Tavola 2.7): nel 1998 poco più della metà dei matrimoni con un uomo vedovo o divorziato si celebravano con spose dello stesso livello di istruzione, ed un matrimonio su quattro vedeva la sposa più istruita del suo sposo. È comunque importante sottolineare anche nel caso delle seconde nozze la crescita della tipologia di assortimento matrimoniale meno tradizionale: accanto alla contrazione delle coppie strettamente omogame per livello di istruzione e delle coppie in cui il marito è più istruito, crescono anche le coppie in cui è la sposa ad avere un titolo di studio superiore al proprio consorte. Ancora una volta è in Italia centrale che prevalgono le coppie meno tradizionali (il 26,4 per cento dei matrimoni di uomini divorziati avviene con donne più istruite, contro il 24,3 per cento dell’Italia settentrionale e il 21,4 per cento nel Mezzogiorno).

2.4 - Le unioni libere

Questo tipo di unione si caratterizza per una notevole simmetria nelle età dei due partner. Ciò probabilmente è anche dovuto al fatto che tali unioni iniziano precocemente rispetto ai matrimoni. Nel 1998 ammontano a 340 mila le unioni libere in Italia, erano 227 mila nel 1993-94: più della metà di esse (56,6 per cento) sono famiglie Si fa presente che non è possibile, con i dati attualmente a disposizione, valutare se lo scarto d’età con la partner per un uomo che ha avuto più di una unione, sia cambiato tra unioni successive. Per tale scopo occorrerebbero infatti informazioni sulle età di tutti i partner avuti, anche quelli di cui si è sciolta l’unione.

Naturalmente nel primo caso si tratta di coppie più mature (lui ha in media 48,2 anni), con una differenza d’età tra i partner che, in media, sfiora i 4 anni, mentre nel secondo caso si tratta di persone giovani che sperimentano questo nuovo approccio alla formazione della famiglia che, in molti casi, in seguito approderà ad un’unione sancita dal vincolo matrimoniale (Tavola 2.8). Si tratta di coppie mediamente giovani in cui l’età di lui è di circa 34 anni e in cui lo scarto d’età tra partner è di più di 2 anni e mezzo, notevolmente al di sotto di quanto registrato per le ricostituite (non coniugate – 3,7 anni - e soprattutto coniugate – ben 5,6 anni) e per le altre coppie coniugate (3,5 anni).

Anche dall’esame delle tipologie di coppie per istruzione dei due partner emerge che, libere unioni di celibi e nubili e famiglie ricostituite non coniugate presentano dei modelli di assortimento culturale differente rispetto a quanto osservato nelle coppie coniugate (Tavola 2.9). Famiglie ricostituite non coniugate e libere unioni di celibi e nubili si caratterizzano per la presenza di una maggior quota di coppie in cui la donna è più istruita del proprio partner (rispettivamente nel 30,1 per cento e nel 28,8 per cento dei casi), a fronte del 18,9 per cento di donne più istruite nelle coppie coniugate intatte.

Infine la condizione lavorativa risente, oltre che di un modello culturale proprio, anche della diversa composizione per età che caratterizza le famiglie esaminate. Entrambi i coniugi si configurano come percettori di reddito nel 29,3 per cento delle coppie non ricostituite, mentre tale quota diventa più che doppia nelle coppie di libere unioni (64 per cento) e nelle ricostituite non coniugate (45,7 per cento). Per le coppie ricostituite non coniugate il luogo di incontro del nuovo partner si colloca soprattutto nell’ambiente lavorativo (30 per cento dei casi) e successivamente sono efficaci gli altri luoghi di aggregazione rappresentati da case di amici e parenti e da discoteche e locali notturni. Per le coppie in libera unione invece sono importanti le occasioni di incontro presso amici e parenti, i locali privati (discoteche e locali notturni) ma anche la strada, il vicinato (Figura 2.5).

2.5 - I “matrimoni misti”

Per quanto possano sembrare frequenti, i matrimoni misti rappresentano comunque delle eccezioni rispetto a matrimoni omogami che tendono a perpetuare i gruppi sociali, religiosi o etnici e che tendono a mantenere la loro coesione nel corso del tempo.

Per quanto riguarda i matrimoni di partner di nazionalità diversa in Italia occorre innanzitutto fare una premessa. La rilevazione della cittadinanza degli sposi è presente nel modello D3 preposto alla rilevazione dei matrimoni e delle caratteristiche degli sposi, solo a partire dal 1995. Per stimare la quota di matrimoni misti celebrati nel nostro paese da cittadini stranieri, sono stati presi in esame i matrimoni che hanno coinvolto partner residenti all’estero. In particolare si è scelto di limitare tale ambito di osservazione ai matrimoni di sposi italiani con donne residenti all’estero. Rispetto al totale dei matrimoni, quelli misti, riguardanti dunque le nozze di italiani con donne straniere, hanno rappresentato una quota abbastanza esigua, circa un migliaio (pari a circa lo 0,5 per cento), per gli anni 1969 e 1979, mentre nell’ultimo anno preso in esame, il 1998, si arriva al 2,3 per cento (cioè circa 6mila matrimoni). Nei matrimoni misti le differenze d’età all’interno della coppia sono più contenute nel caso in cui lo sposo sia in prime nozze, piuttosto che divorziato o vedovo (Tavola 2.10). Complessivamente, in un quarto dei matrimoni misti di celibi la sposa straniera ha la stessa età o è più grande: si tratta del 23,8 per cento dei matrimoni di celibi nel 1969, del 27,4 per cento nel 1979 e del 20,3 per cento nel 1998. Ciò è indubbiamente legato anche all’età media al matrimonio: quando lo sposo è molto giovane le differenze d’età con la sposa sono contenute e addirittura la sposa è più matura del marito, mentre al crescere dell’età alle nozze (che è strettamente legata anche alle vicende di scioglimento di precedenti unioni per divorzio o vedovanza) aumenta la quota di matrimoni misti in cui lo sposo è più grande d’età. In questo caso dunque si conferma il modello di assortimento matrimoniale già visto per i primi matrimoni
degli uomini. Sembrerebbe, cioè, che l’età alle nozze risenta della passata storia matrimoniale (scioglimento per divorzio o vedovanza) e incida sulle caratteristiche della coppia, in termini di scarto d’età, anche nel caso di matrimoni misti.
Dal punto di vista del livello di istruzione non emergono profondi cambiamenti nel corso degli anni anche se va considerato che il livello di omogamia è comunque basso già in partenza: la quota di matrimoni misti tra partner con pari livello di istruzione diminuisce lentamente a favore di una crescita della quota di coppie con spose più istruite (Tavola 2.11).

2.6 - In sintesi


I meccanismi di selezione del partner sono cruciali per le importanti conseguenze sulla fecondità e sul generale rinnovamento della popolazione. Essi risentono dell’effetto dei cambiamenti strutturali osservati nella popolazione e di fattori culturali. L’osservazione dal punto di vista maschile delle modalità di formazione e assortimento delle coppie aggiunge alla conoscenza importanti elementi, come ad es. la forte disparità di genere nella formazione di nuove unioni, a seguito dello scioglimento di un matrimonio. Complessivamente, come emerge anche da studi diretti a valutare il grado di preferenza verso le caratteristiche del partner, il modello di assortimento più diffuso è senza dubbio quello in cui l’uomo è più maturo e più istruito della donna. Tuttavia alcune diversità si osservano a seconda che si prenda in esame la prima unione o una di ordine successivo. Sia sulle prime che sulle seconde nozze si assiste via via ad una contrazione dello scarto d’età e del gap culturale tra partner, con l’instaurazione di un modello di coppia più simmetrico, almeno dal punto di vista dell’età e dell’istruzione dei due partner. Ovunque quando si prendono in esame uomini celibi in prime nozze, le coppie che si formano risultano più simmetriche, mentre tra i divorziati e i vedovi, che si apprestano a contrarre nuove nozze o semplicemente a formare una famiglia ricostituita, si osservano degli scarti d’età e titolo di studio molto accentuati, soprattutto se coinvolgono donne nubili. Rispetto alle prime nozze, nelle seconde nozze la quota di coppie eterogame è superiore e indica un vantaggio degli uomini, mediamente più adulti e istruiti. Viceversa anche nelle unioni libere la quota di coppie eterogame è superiore che nelle prime nozze, ma in questo caso a vantaggio delle donne che posseggono un titolo di studio più elevato. È plausibile pensare che i processi cui si è brevemente accennato in questo lavoro continueranno a manifestarsi nei prossimi anni di pari passo con la crescita della formazione scolastica oltre l’obbligo, della partecipazione delle donne al mercato del lavoro, della mobilità sul territorio, della presenza straniera, dell’instabilità coniugale. Ciò determinerà dei cambiamenti nella formazione delle coppie che non si limiteranno ad investire la quota di coppie di tipo meno tradizionali (come ad es. libere unioni, famiglie ricostituite, secondi matrimoni, coppie miste) ma che riguarderanno tutte le tipologie di coppie (anche e soprattutto quelle in prime nozze). Rimane da capire se ad una riduzione del gap culturale e per età tra partner, corrisponda anche all’interno della coppia una maggiore eguaglianza dei rapporti di genere, con una condivisione nelle attività di cura, nella gestione delle questioni familiari, nel tempo libero e in quello dedicato a se stessi.

A1.1 - L’importanza della famiglia di origine

Da vari decenni è in atto un processo di frammentazione della transizione all'età adulta in una serie di transizioni parziali attraverso un sempre più ampio lasso di tempo. Il risultato è un allungamento della fase giovanile, di quella fase cioè che collega l’adolescenza alla vita adulta e che Cordon (1997: 576) definisce una costruzione sociale e culturale: “what distinguishes it most from other ages is that it bridges two stages in life: childhood dependence and adult independence, which are well defined but have fluid boundaries”. Questo ponte si caratterizza per una serie di tappe-eventi che scandiscono l'entrata nella vita adulta, il cui calendario, dalla seconda metà del XX secolo, è radicalmente cambiato.
Gli aspetti salienti di questo cambiamento sono il posticipo sempre più avanti negli anni degli eventi, il disordine tra di essi e l'ampliamento del tempo che intercorre tra un evento ed un altro (Corijn e Klijzing, 2001). Nel contesto italiano, a differenza che in altri paesi europei, la famiglia rappresenta ancora l’attore principale che organizza tempi e modi del passaggio alla maturità. All’interno del nucleo d’origine un numero crescente di giovani italiani completano gli studi, attendono l’ingresso stabile nella vita professionale, pongono le basi per la vita coniugale successiva, sperimentano le nuove forme di indipendenza e di
precarietà derivanti dal prolungamento della fase della giovinezza.

Approfondimento 1 - La lunga permanenza nella famiglia di origine: differenze di genere e di status sociale

Il dibattito sulle cause dei profondi cambiamenti che stanno caratterizzando il mondo giovanile si è sviluppato tenendo conto di due grandi sfere in cui avviene la transizione: quella pubblica-istituzionale (scuola, formazione, lavoro, politica) e quella privata (menage, famiglia, sessualità, stili di vita) (Chisholm, 1996).
In un primo momento l’attenzione del mondo scientifico si è concentrata esclusivamente sulla sfera pubblica, ovvero sui vincoli del modello economico-istituzionale che si contrappongono all’elaborazione/attuazione di strategie precoci di indipendenza: tassi elevati di disoccupazione1 giovanile, estensione delle forme di impiego precario, flessibile o temporaneo (con conseguente impatto negativo sulla capacità progettuale a lungo termine dei giovani: Reyneri, 1996), assenza di sussidi per i giovani in cerca di prima occupazione o di politiche per l’abitazione rivolte alle giovani coppie (Esping-Andersen, 1995; Castles e Ferrera, 1996), eccessiva frammentazione dell’università sul territorio. Dopo questa prima fase, l’attenzione si è maggiormente concentrata sulla sfera privata e sulle scelte operate dai giovani secondo approcci che nel corso degli anni sono diventati sempre più multidimensionali. Oggi infatti molti studiosi evitano di imputare il fenomeno ad un solo fattore e si appellano ad una pluralità di cause: scolarizzazione e incertezze occupazionali vengono ora chiamate in causa insieme a fattori culturali specifici di ogni paese. D’altra parte il modello economico-istituzionale non riesce a spiegare perché paradossalmente è tra gli occupati che si riscontrano i maggiori incrementi di giovani che vivono in famiglia. Così, accanto ai più comuni fattori di disagio, le indagini italiane più recenti hanno segnalato altri fattori per spiegare la crescita dei giovani che scelgono di restare in famiglia: giovani “radicati” in un contesto familiare favorevole alla permanenza, che consente di mantenere un tenore di vita elevato e garantisce ampia autonomia tanto negli stili di vita quanto nelle scelte importanti, senza richiedere, di contro, grandi responsabilità (Cristofori, 1990; De Sandre, 1997). 

A questo proposito Wills scriveva che il salario è la chiave fondamentale per il futuro e che la disoccupazione impedisce ai giovani inglesi di assumere ruoli adulti, lasciandoli in parte amorfi. “Per comprendere la disoccupazione, occorre capire ciò che manca - il salario… il salario rappresenta la chiave d’oro per l’accesso ad una sistemazione abitativa indipendente lontana dai genitori e lontana dal capo… (poiché permette di ottenere prestiti, pagare affitti e fatture). Mancanza di salario significa mancanza delle chiave per il futuro”. (Wills P. “Youth Unemployment: a new social state”. New Society, 29: 475-477; citato in Coffield, 1996).

Altri studi, di taglio più psico-sociale, hanno messo in evidenza l’ampia diffusione di situazioni di vita familiare soddisfacenti e poco conflittuali, di relazioni più aperte che in passato, flessibili, scarsamente autoritarie, centrate sulla tolleranza e sulla partecipazione dei figli (Donati, 1995; Farina, 1997; Scabini e Rossi, 1997). Emerge così il quadro di una famiglia “elastica” che si è evoluta nel tempo, negoziando nuove e più flessibili forme di convivenza. Una famiglia al cui interno si discute, si negozia, ognuno contratta la propria autonomia e dove i genitori diventano “complici” nel ritardare l’uscita. Dall’indagine dell’Irp (1999) è emerso, infatti, come molti genitori italiani non avvertano vantaggi nell’uscita da casa dei figli e questi vantaggi, quando segnalati, sono prevalentemente di tipo materiale; tra gli svantaggi il 50 per cento dei genitori indica la perdita affettiva e il 34 per cento la solitudine e la malinconia. Al contrario non vengono rilevati, per i genitori, benefici in termini di maggiore tempo libero e di maggiore privacy. È un quadro molto differente da quello dipinto in altri paesi occidentali. Ad esempio in Olanda né i giovani né i genitori vivono l’uscita dei figli come “un’esperienza stressante…e vi è un numero crescente di madri che sono contente della prospettiva di disporre di più tempo per le proprie attività e per coltivare interessi personali” (Bois- Reymond, 1996: 112). In Germania, dal punto di vista delle madri, la permanenza dei figli in famiglia costituisce un onere lavorativo e finanziario, che limita la loro libertà.
Studi relativi al caso italiano hanno messo in evidenza come, pur all’interno di un modello generalizzato di rinvio delle transizioni, il passaggio alla vita adulta sia fortemente differenziato, oltre che per genere e titolo di studio, anche rispetto alla classe sociale di appartenenza, rispetto alla quale la separazione dei percorsi è particolarmente evidente. “I giovani appartenenti agli strati inferiori frequentano in genere percorsi scolastici più brevi, non possono aspettare a lungo prima di inserirsi in un’attività lavorativa retribuita e, soprattutto le ragazze tendono a sposarsi presto e a mettere al mondo precocemente i figli. Per certi versi si può dire che il prolungamento della gioventù è un privilegio dei figli e delle figlie degli strati sociali medi e superiori, la cui incidenza quantitativa peraltro, nelle società moderne, è in continua crescita. Il fenomeno compare tuttavia anche ai livelli sociali inferiori, sia pure più per necessità che per scelta, là dove il basso livello di scolarità e le condizioni del mercato del lavoro producono alti tassi di disoccupazione giovanile” (Cavalli, 1993: 331). La situazione appare invece diversa in altri paesi. Varie ricerche (Kerckhoff e Macrae, 1992; Galland, 1995; Jones, 1995) hanno mostrato come i giovani provenienti da background familiari privilegiati lasciano precocemente la casa per studio o per coabitazione (vivendo spesso in situazioni di semi-dipendenza o dipendenza economica dalla famiglia), restano a lungo nel sistema formativo e si sposano più tardi, mentre i giovani della working class, in assenza di risorse familiari da investire per l’uscita, vivono un lasso di tempo più esteso tra la fine degli studi e l’accesso ad una residenza indipendente ed escono definitivamente da casa in presenza di un lavoro e prevalentemente per sposarsi. Questa tendenza assumerebbe forme ancora più accentuate in presenza di bassi livelli di istruzione (Chisholm e Hurrelmann, 1995; Galland, 1995; Jones, 1995). Quello che qui proponiamo è un approfondimento della relazione tra genere e status socio-culturale e tempi e modi di transizione allo stato adulto. La nostra analisi sarà in particolare focalizzata sulle condizioni di autonomia abitativa ed indipendenza economica dei giovani che al momento dell’intervista avevano tra i 30 ed i 34 anni (nati tra il 1964 e il 1968). A tal fine sarà costruito un indice di status
socio-culturale della famiglia di origine che tenga conto non solo del livello di istruzione dei genitori ma anche della condizione professionale e della posizione nella professione degli stessi. Inoltre l’indice verrà successivamente segmentato rispetto al titolo di studio dei giovani.
Tutto ciò al fine di valutare se e quanto il livello di istruzione personale può compensare gli svantaggi di partenza, influenzando i tempi e i modi della transizione, e come ciò interagisce con il genere del giovane. Coerentemente con le considerazioni sopra sviluppate formuliamo le seguenti ipotesi.

Tempi di uscita. Ipotizziamo che coloro che rimangono molto a lungo nella casa dei genitori appartengano a famiglie caratterizzate

a) da elevate risorse socio-culturali e

b) da elevato investimento sui figli.

Nel primo caso prevarrebbe la preoccupazione di non perdere troppo precocemente i vantaggi quotidiani materiali ed immateriali della famiglia di origine. Nel secondo verrebbe evitata una assunzione troppo precoce di oneri e vincoli di autonomia e responsabilità che potrebbero compromettere gli elevati obiettivi di formazione personale e di carriera lavorativa. Ciò potrebbe essere tanto più vero quanto più sono scarse le risorse di partenza a parità di obiettivi da raggiungere.

Motivi di uscita. Dato che i genitori con status sociale basso sono tendenzialmente meno aperti culturalmente a forme non tradizionali di living arrangements (Rosina e Fraboni, 2004), ci aspettiamo una minore sperimentazione di motivi di uscita diversi dal matrimonio da parte dei giovani provenienti da tali famiglie rispetto a chi proviene da famiglie con status socio-culturale elevato. I dati utilizzati sono quelli dell’indagine campionaria Multiscopo “Famiglia, soggetti sociali e condizione dell’infanzia”, condotta dall’Istat nel 1998. Oltre a dati su caratteristiche individuali e su tempi e motivazioni di uscita dalla famiglia di origine, l’indagine fornisce informazioni sul livello di istruzione, sulla condizione professionale e sulla posizione nella professione dei genitori quando il figlio aveva 14 anni.

A1. 2 - Un percorso a tappe

Il nostro obiettivo è quello di valutare la relazione tra lo status socio-culturale della famiglia di origine e la lunga permanenza nella casa dei genitori. Come già premesso, la popolazione analizzata è costituita dai giovani che al momento dell’indagine avevano tra i 30 ed i 34 anni. Costruiamo quindi prima di tutto una variabile che ci dice se essi si trovano o meno ancora nella casa dei genitori. Oltre al fatto di essere o meno usciti teniamo poi conto sia dell’indipendenza economica, ed in particolare della disponibilità di un lavoro stabile, sia della formazione di una unione. Questo ci consente di costruire una variabile che rappresenta la situazione del giovane rispetto al percorso di transizione allo stato adulto. La transizione allo stato adulto può infatti essere vista come un processo, caratterizzato da eventi (di natura demografica, economica e sociale) che possono essere situati lungo un continuum che va dalla dipendenza alla piena autonomia e responsabilità (Righi e Sabbadini 1994; Billari, Crippa e Ongaro, 1997; Cordon, 1997; Ongaro, 2001).
Secondo questa impostazione, i giovani passano da una situazione di ridotta autonomia dalla propria famiglia di origine e di limitate responsabilità verso la società e gli altri individui, ad una situazione di autonomia rispetto alla propria famiglia di origine e di assunzione di responsabilità verso la loro nuova famiglia e più in generale verso la società. Questo passaggio, dalla condizione adolescenziale di dipendenza economica e psicologica dalla famiglia di origine, alla piena maturità è scandito da una serie di eventi, che non necessariamente vengono tutti sperimentati e non necessariamente vengono vissuti da tutti nella stessa sequenza. Dal punto di vista più strettamente demografico, cinque sono le tappe principali che segnano questo processo: la fine degli studi, l’entrata
nel mondo del lavoro, l’uscita dall’abitazione dei genitori, l’inizio della prima unione (matrimoniale e non), la nascita del primo figlio.

La variabile costruita per rappresentare la situazione del giovane (rispetto all’autonomia abitativa, alla disponibilità di un lavoro stabile, alla formazione di una unione, alla maternità/paternità) può quindi essere vista come una sintesi (trasversale) delle tappe principali della transizione del giovane alla vita adulta. Nel dettaglio le modalità considerate sono le seguenti. Per i giovani coabitanti con i genitori distinguiamo tra: studenti; in cerca di occupazione; casalinghe; in occupazione stabile; in occupazione precaria; altro. Per i giovani usciti dalla casa dei genitori distinguiamo tra: occupati single; occupati in coppia senza figli; occupati in coppia con figli; casalinghe in coppia senza figli; casalinghe in coppia con figli; altro in coppia senza figli; altro in coppia con figli.

In realtà esistono anche altre transizioni che costituiscono importanti indicatori del passaggio dall’adolescenza all’età adulta e che influenzano il comportamento demografico. Ad esempio il matrimonio potrebbe essere considerato separatamente dalla prima unione non matrimoniale e il primo rapporto sessuale potrebbe essere visto come l’evento che per primo pone i giovani “a rischio” di diventare genitori.

A1.3 - Differenze di genere e di status socio-culturale

Analizziamo in maniera distinta la collocazione familiare/professionale degli uomini e delle donne. Tra i maschi, quelli ancora nella famiglia d’origine sono il 31,2 per cento. La percentuale è più elevata nel caso dei giovani di status alto (38,8 per cento), a fronte, rispettivamente, del 29,3 per cento di quelli di status basso e del 29,8 per cento dei giovani di status medio. Se però si tiene conto del livello di istruzione del giovane – distinguendo semplicemente tra titolo basso (fino alla scuola dell’obbligo) e titolo medio-alto (dal diploma superiore in poi) – la lettura dei risultati diviene più articolata.
 

È soprattutto interessante notare come i giovani uomini con status basso e titolo medio-alto tendano a rimanere nella famiglia di origine in misura comparabile a quella dei giovani con genitori di status elevato e in misura maggiore rispetto ai figli di genitori con status medio. Vale a dire che l’interpretazione che si trova usualmente in letteratura, che attribuisce soprattutto ai giovani italiani appartenenti a famiglie benestanti la scelta di rimanere a lungo nella famiglia di origine, è molto parziale.

Una lunga permanenza sembra quindi non solo essere un comportamento adottato come resistenza a perdere troppo precocemente le risorse materiali ed immateriali quotidiane fornite da genitori molto benestanti, ma derivare altresì da una strategia messa in atto da chi proviene da uno status modesto ed ha obiettivi ed aspettative molto elevate sul proprio percorso formativo e professionale. La preoccupazione di entrambe tali categorie di giovani sarebbe comunque quella che un’uscita precoce determinerebbe troppe perdite nel contesto italiano (caratterizzato da un welfare poco generoso con i giovani). I giovani di status di provenienza elevato potrebbero infatti rischiare di peggiorare in modo rilevante il proprio stile di vita, mentre i giovani di status di provenienza basso ma con elevate aspirazioni potrebbero rischiare di sacrificare troppo delle proprie aspettative di mobilità sociale. Per questa seconda categoria di giovani il protratto stanziamento nella casa dei genitori consente infatti ad essi di concentrarsi totalmente nell’investimento nella formazione e nel consolidamento della propria carriera professionale senza costi di vita autonoma e senza vincoli di responsabilità familiare. Matrimonio e paternità verrebbero infatti rinviati in una fase successiva, condizionatamente all’aver raggiunto gli obiettivi professionali minimi attesi3. Sul versante femminile non sembra invece emergere una strategia analoga. La permanenza nella casa dei genitori risulta infatti molto più strettamente legata allo status di partenza e meno al proprio titolo di studio.

Se andiamo a valutare in modo dettagliato la condizione professionale dei giovani uomini ancora nella famiglia di origine, si conferma come la larga maggioranza possieda un’occupazione stabile (Tavola A1.1). Ciò suggerisce che le condizione minime materiali per uscire potrebbero già esserci. L’uscita viene quindi posticipata verosimilmente perché si ambisce a spiccare il volo quando non solo il lavoro è stabile, ma si è raggiunto anche uno stipendio e/o una posizione ritenuta soddisfacente, si ha anche la possibilità di acquistare una casa anziché semplicemente vivere in affitto e ci si sente magari pronti per il matrimonio, anziché vivere da soli o convivere. Tutte queste ragioni verosimilmente sono mescolate, anche nelle intenzioni dei giovani stessi. Il fatto però che, quando poi escono, siano soprattutto i figli di genitori con elevate risorse socio-culturali a scegliere percorsi meno tradizionali suggerisce come possa contare in modo rilevante il condizionamento della famiglia di origine sulle scelte dei figli (si veda in particolare la quota di single). È interessante infatti osservare che anche chi ha raggiunto un’istruzione elevata partendo da status basso evidenzi poi, in termini di formazione della famiglia, comportamenti molto simili a chi è rimasto negli strati sociali bassi. Per ciò che riguarda le giovani donne, la propensione a vivere a 30- 34 anni ancora con i genitori è molto inferiore a quella dei maschi (Figura A1.1); è altresì sensibilmente inferiore la quota di stabilmente occupate (Tavola A1.2). Tra quelle già uscite è interessante notare come la quota di casalinghe dipenda sì (e molto fortemente) dallo status di partenza, ma in modo rilevante anche dal titolo di studio acquisito. Più elevata è la mobilità sociale e più si riduce il rischio di dedicarsi completamente alla cura della famiglia (sia di origine che di destinazione).

A1.4 - In sintesi

L’analisi condotta aveva come obiettivo lo studio della lunga permanenza dei giovani italiani nella famiglia di origine e delle loro condizioni all’uscita in funzione del genere, dello status socio-culturale di origine, del livello di istruzione raggiunto e dell’interazione tra tali variabili. I risultati gettano nuova luce, articolando ulteriormente il quadro fornito in letteratura, sulla transizione allo stato adulto. Generalmente infatti si sostiene che, a differenza di quanto avviene in altri paesi europei, in Italia a rimanere più a lungo in famiglia siano i giovani degli strati sociali medi ed alti ed eventualmente tra quelli degli strati inferiori coloro che hanno difficoltà a trovare lavoro. Il risultato principale dello studio qui condotto evidenzia come tra i giovani maschi si distingua un’altra rilevante categoria caratterizzata da una prolungata stanzialità nella famiglia dei genitori. Si tratta dei giovani provenienti da famiglie di basso status sociale, sui quali però tali famiglie hanno investito molto, portandoli ad elevati livelli di istruzione. Per questi giovani la dilazione dell’uscita, tipicamente per matrimonio, consente di evitare un’assunzione troppo precoce di oneri e vincoli di autonomia e responsabilità che potrebbero compromettere gli elevati obiettivi prefissati di formazione personale e di carriera lavorativa. Relativamente alla destinazione all’uscita, i risultati ottenuti sono coerenti con l’ipotesi che lo status socio-culturale dei genitori abbia un ruolo cruciale nella possibilità che i figli sperimentino percorsi innovativi di transizione allo stato adulto, diversi dal tradizionale rigido passaggio dei giovani italiani direttamente dalla casa dei genitori al matrimonio.

Appendice: l'indice di status socio-culturale della famiglia di origine

Nella prima fase del lavoro dunque l’attenzione si è concentrata sul contesto socio-economico della famiglia del giovane. Le variabili utilizzate per la costruzione dell’indice di classe sociale sono quelle relative ai genitori degli intervistati. La scelta di trascurare le
informazioni relative ai giovani stessi, ai “protagonisti” della permanenza è motivata, come già detto, dall’ipotesi che il contesto socio-economico della famiglia di origine preceda ed influenzi la condizione specifica del soggetto e dunque la sua vita in termini di opportunità.

Sulla base della classificazione di Cobalti e Schizzerotto4 (1994) è stato costruito un indice di classe sociale per ciascun genitore. Le variabili utilizzate sono state la condizione professionale, la posizione nella professione e il settore di attività economica. Nel caso di genitori liberi professionisti, imprenditori o lavoratori in proprio si è tenuto
conto anche del numero dei dipendenti dall’azienda posseduta o gestita.

Gli autori definiscono la classe sociale come l’insieme degli individui e delle loro famiglie che, in virtù del controllo esercitato su una o più risorse di potere, occupano simili posizioni sul mercato e nella divisione sociale del lavoro e che, perciò, godono di simili chance di vita. Le classi si articolano in una pluralità di strati, definiti secondo l’intensità del controllo che gli individui posseggono sulla risorsa stessa, l’abilità con cui la utilizzano, lo specifico ramo di attività economica in cui la impiegano, il segmento del mercato del lavoro in cui si trovano inseriti.

Come già detto, la fonte dei dati è l’indagine campionaria Multiscopo “Famiglia, soggetti sociali e condizione dell’infanzia”, nell’ambito della quale a tutti gli individui di 18 anni e più (sia che vivessero ancora con i genitori, sia che fossero già usciti dalla famiglia di origine) è stato chiesto di indicare la condizione lavorativa di entrambi i genitori quando l’intervistato aveva 14 anni. Se i genitori risultavano ritirati dal lavoro o disoccupati si chiedeva di far riferimento all’ultima occupazione svolta. In tal modo solo i genitori che (fino all’età di 14 anni del figlio) non avevano mai avuto contatti col mondo del lavoro sono rimasti esclusi dalla possibilità di avere una propria diretta collocazione nella stratificazione sociale.

Partendo dall’informazione relativa alla classe di ciascun genitore è stato costruito un indice familiare di classe sociale utilizzando il criterio dell’ordinamento gerarchico (dominance), secondo il quale la classe sociale familiare viene determinata sulla base dell’occupazione più elevata esercitata dai due partner. Tale scelta si basa sull’ipotesi che le chance sociali di una famiglia mutano al crescere della posizione di uno dei membri, indipendentemente dal sesso (Cobalti e Schizzerotto, 1994).

Le sei classi sono le seguenti: borghesia; classe media impiegatizia; piccola borghesia urbana; piccola borghesia agricola; classe operaia urbana; classe operaia agricola. La borghesia è composta da imprenditori medio-grandi, liberi professionisti, dirigenti. Della classe media impiegatizia fanno parte i lavoratori dipendenti non manuali a medio o medio-alto livello di qualificazione. La piccola borghesia urbana è costituita da proprietari e coadiuvanti di piccole imprese industriali, commerciali e di servizio, in particolare artigiani e commercianti. Della piccola borghesia agricola fanno parte i proprietari e i coadiuvanti di piccole imprese operanti nei settori dell’agricoltura, caccia, foreste e pesca. La classe operaia urbana comprende lavoratori dipendenti manuali e impiegati esecutivi a basso livello di qualificazione, occupati nelle imprese operanti nei settori delle costruzioni, dell’industria, del commercio e dei servizi. La classe operaia agricola è composta da lavoratori dipendenti manuali occupati nelle imprese operanti nei settori dell’agricoltura, caccia, foreste e pesca.

Consideriamo il caso di una coppia nella quale un solo componente stia svolgendo un’occupazione. La posizione di classe di questa famiglia coincide con la classe occupazionale del partner con esperienza lavorativa. In una coppia nella quale entrambi i partner lavorano e dove le due occupazioni appartengano alla stessa classe, la classe si identifica con la loro comune classe occupazionale. Che le loro entrate si cumulino significa che essi apparterranno a uno strato superiore di tale classe, ma non che essa muti (Cobalti e Schizzerotto, 1994). Quando, invece, in una coppia ciascun partner appartiene ad una distinta classe occupazionale, la classe familiare considerata è la più alta fra i due, indipendentemente dal sesso.

 

 

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Ultimo aggiornamento: 25-11-05