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ESSERE FIGLI

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Estratto da "Essere padri in Italia", studio ISTAT 2005

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A3.1 Figli, strategie educative e differenze di genere

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A3.2 Scelte scolastiche e impegno familiare

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A3.3 Le regole di vita familiare

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A3.4 Un approfondimento multidimensionale

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A3.5 In sintesi

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APPENDICE 1

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APPENDICE 2

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A3.1 - Figli, strategie educative e differenze di genere

In Italia i figli sono un bene sempre più raro. Il nostro Paese presenta livelli di fecondità tra i più bassi al mondo. Una delle varie spiegazioni avanzate per tale record negativo è l’elevato valore (ed il corrispondente costo di mantenimento e di valorizzazione di tale bene) che i figli hanno per i genitori italiani. Si fanno quindi pochi bambini sui quali si investe molto e sui quali si ripongono elevate aspettative. Figli spesso visti come mezzo di appagamento delle proprie aspirazioni irrealizzate, ed i cui fallimenti vengono vissuti come proprie sconfitte. Alla base di tutto ciò sta la grande importanza che nei paesi dell’Europa mediterranea viene attribuita al legame tra genitori e figli. Relazione che trae alimento soprattutto dall’accentuato coinvolgimento emotivo e materiale dei primi sulla vita dei secondi (non solo nella fase infantile, adolescenziale e giovanile, ma anche adulta), e che si fonda sul presupposto che i successi dei figli (ma in particolare il loro benessere) vengano riconosciuti (anche) come prodotto dei sacrifici e delle strategie familiari lungimiranti dei genitori. Un orientamento di fondo che da alcuni autori è stato definito “familista”. Tale comportamento fa assumere alle risorse della famiglia di origine un ruolo fondamentale nel condizionamento dei percorsi dei giovani, non solo in termini di strumenti offerti come dotazione iniziale (in particolare le opportunità formative), ma anche successivamente in termini di sostegno ed assistenza ad ogni tappa (casa, lavoro, figli, ecc.), e pronto intervento in qualsiasi momento di difficoltà. Tutto ciò rafforzato da una sostanziale assenza di sostegni “pubblici” sugli eventi cruciali della vita, allo stesso tempo causa ed effetto del ruolo cruciale della famiglia nella società italiana.

Il modello italiano di formazione della famiglia sembra inoltre non favorire l’affermarsi di sensibilità e competenze nella condivisione degli impegni all’interno della coppia. La maggioranza dei maschi giovani adulti italiani passa direttamente dalla famiglia di origine all’unione coniugale, ovvero dalle cure della madre a quelle della moglie, senza aver sperimentato nel frattempo periodi di vita da single o di convivenza con altri giovani (di entrambi i sessi), e quindi praticamente senza essersi mai confrontata con le necessità quotidiane del lavoro domestico.
Per quanto si riconosca in linea di principio, soprattutto quando la moglie lavora, la simmetria dei ruoli domestici, rimane rilevante il maggior carico di lavoro familiare della donna. Pur se non legittimata, tale asimmetria nella divisione sessuale del lavoro tende in parte a perpetuarsi nel modello implicitamente trasmesso ai figli.

Investimento sui figli e differenze di genere nelle strategie educative sono quindi aspetti di particolare interesse per la comprensione della realtà italiana e delle trasformazioni in atto nella famiglia e nella società.
L’aiuto dei genitori risulta fondamentale sia come protezione rispetto al rischio di trovarsi in difficoltà, sia come risorsa per uscire dallo stato di difficoltà per chi vi cade.
Infine, secondo la teoria “familista”, il livello di istruzione dei genitori, assieme al numero dei figli ed alla mobilità sociale, è significativamente legato alla propensione ad investire sui figli. I dati a disposizione forniscono un sostegno empirico a tale ipotesi?

A3.2 - Scelte scolastiche e impegno familiare

Al fine di comprendere quanto lo status culturale dei genitori possa incidere sulla formazione dei figli, può essere utile soffermarsi sulle motivazioni espresse per ciò che riguarda la scelta della scuola. Complessivamente si conferma un maggior investimento formativo sui bambini provenienti da famiglie con più elevato status culturale. In particolare, la percentuale di chi sceglie la scuola privata risulta sensibilmente più elevata per i figli di padri con medio-alto livello di istruzione (con almeno il diploma di scuola media superiore). Tale quota è pari all’8,8 per cento dei bambini, contro il 3 per cento dei bambini con padri con un basso livello di istruzione (meno del diploma). Le risorse culturali di cui dispongono le famiglie si mostrano pertanto dirimenti nell’indirizzare le scelte, anche per chi pondera la scelta della scuola pubblica.

Se nelle famiglie di status basso si osserva per i maschi più piccoli una maggiore attenzione nella scelta della scuola, rispetto alle figlie di pari età, nelle altre famiglie si registra la situazione opposta. Inoltre, al crescere dell’età le disparità di genere scompaiono tra i figli provenienti da famiglie di status basso, mentre persistono – ma a vantaggio dei maschi – tra quelli che provengono dalle altre famiglie. Ciò vale soprattutto per i bambini provenienti da famiglie in cui il padre ha un’istruzione bassa: le quote oscillano tra il 71,3 per cento dei maschi pre-adolescenti e il 77,6 per cento delle bambine più piccole. Se, viceversa, si guarda alle percentuali di bambini con padri mediamente o altamente istruiti, si notano valori inferiori; il declino è sempre tangibile e, tra i maschi pre-adolescenti, particolarmente notevole: si giunge, infatti, al 55,4 per cento. Dal momento che seguire il rendimento scolastico dei figli rientra a pieno titolo nelle strategie educative messe in atto dai genitori, può assumere un peso rilevante il ruolo che ciascun genitore si trova a interpretare.

Innanzitutto, occorre segnalare che i maschi seguiti dal padre o da entrambi i genitori sono in percentuale superiore alle femmine in tutte le classi di età (in particolare, i bambini provenienti da famiglie di status culturale medio-alto).
In secondo luogo, è necessario sottolineare che al crescere dell’età aumenta la percentuale di bambini seguiti dai padri o da entrambi i genitori, qualunque sia lo status culturale della famiglia di appartenenza. Nondimeno, se è molto ridotto l’incremento per il gruppo di bambini con padri con istruzione bassa, lo stesso non può dirsi per l’altro gruppo: si passa dal 31 per cento al 41,4 per cento, nel caso dei maschi, e dal 26,5 per cento al 35 per cento nel caso delle femmine. In altre parole, una maggiore condivisione tra i genitori delle responsabilità che derivano dal seguire il rendimento scolastico dei figli,
indirettamente, fa pensare a una maggiore attenzione da parte dei padri verso i compiti educativi.

A3.3 - Le regole di vita familiare

La trasmissione dei modelli educativi da una generazione all’altra si manifesta pienamente nella definizione del sistema di regole di vita familiare e nell’interpretazione che ne danno genitori e figli. La trasmissione dei modelli educativi inoltre veicola la distinzione dei ruoli legata all’appartenenza sessuale e pertanto ripropone, da una generazione all’altra, l’asimmetria originata dalla divisione sessuale del lavoro. Nell’esame del contributo abituale alle attività domestiche da parte dei bambini ciò si manifesta in tutta la sua evidenza. Nella quantità di tempo che essi dedicano allo svolgimento delle attività destinate alla cura della casa è possibile leggere già i segnali di una futura diversità nell’acquisizione dell’identità: l’impegno dei figli maschi non soltanto è meno assiduo di quello delle figlie, ma anche la loro partecipazione è meno frequente.

Le attività più ricorrenti riguardano l’apparecchiare e/o sparecchiare la tavola e il riordinare le proprie cose; ma le bambine sono più frequentemente coinvolte anche in molte altre attività: nel rifarsi il letto, nell’aiutare a pulire, nel lavare i piatti e nell’aiutare a cucinare. Inoltre, all’aumentare dell’età crescono le percentuali di bambini – sia dei maschi
sia delle femmine – impegnati in ciascuna delle attività elencate, ma gli incrementi sono molto più marcati per le bambine. Le uniche modalità in cui si osservano differenze a “favore” dei maschi riguardano l’aiutare a fare qualche lavoretto (riparazioni varie) e l’andare a buttare la spazzatura. La divisione dei compiti domestici è un risultato della distinzione di genere. Sono le “idee genitoriali” – vale a dire atteggiamenti, aspettative, credenze e rappresentazioni dei genitori – a strutturare le relazioni familiari e a influenzare la percezione che i figli hanno dei propri obblighi: i figli sembrano apprendere continuamente quali sono le regole di vita familiare, quali gli obblighi che ne derivano e quale dovrà essere il loro ruolo da adulti. Le bambine, in particolare, apprendono continuamente in che modo, una volta adulte, dovranno conciliare attività domestiche, lavoro di cura e partecipazione nel mercato del lavoro. È vero che i destini delle figlie sono sempre meno confrontabili con i percorsi obbligati delle donne delle generazioni precedenti – scanditi regolarmente dal passaggio al matrimonio e poi alla maternità, con un’apparizione eventuale nel mercato del lavoro –, ma sono ancora molti i vincoli sulla strada della realizzazione dell’identità di genere.

Osservando gli incrementi da una classe di età all’altra, si può legittimamente ritenere che addirittura si rafforzi, al crescere degli anni, la percezione delle figlie di dover contribuire alle attività domestiche. Ciò è anche vero per i maschi, ma la loro presenza in un numero considerevole di attività è minoritaria, così come è inferiore, in generale, il loro coinvolgimento.

Le differenze nell’impegno richiesto alle bambine rispetto a quello richiesto ai coetanei maschi non sembrano ridursi in modo rilevante al crescere del livello di istruzione della madre. Risulta un po’ più sensibile, invece, l’effetto della ripartizione geografica, soprattutto come conseguenza di un maggior impegno in casa fornito dai maschi del Nord e del Centro rispetto a quello fornito dai coetanei maschi del Sud e delle Isole. Va comunque notato come la collaborazione domestica dei figli nelle attività più frequenti sia, in generale, maggiore nel Nord, molto verosimilmente anche in conseguenza del minor numero di madri casalinghe.

 Per completare il quadro riguardante il sistema di norme di vita familiare può essere interessante presentare i dati su alcune regole ritenute importanti dai genitori. Per circa l’80 per cento dei padri e delle madri è necessario che i figli chiedano il permesso di uscire e non molto distante è la quota di genitori che vogliono sapere dai figli quali luoghi frequentano. Entrambi i genitori ritengono importante pure essere informati sugli orari di rientro dei figli. Ancora, padri e madri vogliono che i figli, soprattutto i maschi, escano soltanto dopo aver terminato i compiti. Viceversa, chiedere il permesso di invitare amici è un obbligo che i genitori vorrebbero fosse osservato soprattutto dalle figlie. Infine, vicina al 65 per cento è la quota di genitori che vogliono che i figli non rientrino tardi la sera.

Soprattutto in corrispondenza di tre regole di vita familiare – essere ordinati, aiutare nelle attività domestiche e rifarsi il letto – si osservano scostamenti molto significativi. Tali obblighi, specificamente familiari, discendono da processi di socializzazione e ripropongono in ambito familiare quanto stabilito da norme e convenzioni sociali; in precedenza, invece, si era di fronte a obblighi individuali, imposti ai figli in virtù di regole derivabili direttamente dall’esercizio dell’autorità genitoriale. Quote considerevoli di genitori richiedono ai figli di essere ordinati; nondimeno, mentre nei riguardi delle figlie avanza questa richiesta più del 71 per cento di entrambi i genitori, nei riguardi dei figli maschi si contano percentuali più basse, soprattutto se si osservano i padri (il 61,9 per cento). Per quote inferiori di genitori è importante che i figli aiutino nelle attività domestiche, ma tale richiesta, da parte di entrambi i genitori, è indirizzata molto più frequentemente alle figlie. Ancora meno genitori considerano importante la regola che vuole che i figli si rifacciano il letto, ma, mentre nei confronti delle figlie avanzano tale richiesta il 49,4 per cento dei padri e il 53 per cento delle madri, solo il 27,4 per cento dei padri e il 30,9 per cento delle madri richiedono ai figli maschi di fare altrettanto.

A3.4 - Un approfondimento multidimensionale

Le attività che consideriamo possono essere distinte nei seguenti cinque gruppi: tipo di scuola e motivo della scelta; frequenza di corsi extrascolastici e partecipazione ad associazioni (ricreative, culturali, ecc.); ore passate davanti alla televisione e controllo dei genitori sui programmi; frequenza di uscita la sera, ora di rientro, luoghi frequentati, paghetta; lavoretti in casa e collaborazione familiare.

Le caratteristiche dei bambini hanno un effetto molto rilevante soprattutto sull’impegno domestico e sul permissivismo. Entrambe tali dimensioni dipendono positivamente dall’età. Come atteso, le bambine svolgono più spesso attività in casa, mentre i coetanei maschi godono di maggiori gradi di libertà verso l’esterno. Anche l’investimento tende a favorire di più i maschi. Le caratteristiche familiari presentano un forte impatto soprattutto sull’investimento. A supporto delle ipotesi avanzate, ad essere favoriti risultano: i figli unici (e particolarmente svantaggiati coloro che hanno più di due fratelli), i bambini con genitori con elevate risorse culturali e materiali (è particolarmente forte la relazione con la presenza in casa di computer ed altri apparecchi informatici). Oltre a contare molto il livello
di istruzione di entrambi i genitori, è notevole anche l’effetto della mobilità sociale dei genitori rispetto ai nonni, fornendo sostegno all’ipotesi di una trasmissione intergenerazionale dell’orientamento familiare (di matrice familista) ad investire sui figli.

Anche il sistema di sanzioni varia sensibilmente in relazione alle dimensioni individuate. Il genitore con atteggiamento permissivo tende a punire più facilmente in modo fisico (con schiaffi). Le punizioni fisiche sono invece inversamente connesse con gli altri due fattori, dove prevale il divieto di uscire o punizioni equivalenti, per i genitori maggiormente orientati verso l’impegno, e il mostrarsi freddi ed offesi, per i genitori più orientati verso l’investimento.

A3.5 - In sintesi

Differenze di genere e livello di istruzione dei genitori risultano cruciali sulle attività dei bambini. Ovvero, in senso positivo, le bambine godono di un maggior controllo da parte dei genitori e di una maggiore responsabilizzazione. Secondo l’altra faccia della medaglia ottengono minore autonomia e sono gravate da maggiore impegno domestico rispetto ai coetanei dell’altro sesso. Esaminando la relazione tra genitori e figli, per ciò che concerne gli obblighi familiari, è chiara l’azione di fattori legati alla divisione del lavoro sociale all’interno della famiglia sulla trasmissione dei modelli educativi. Il modo in cui ciascun genitore percepisce le differenze di genere è reso evidente dal fatto che molti più padri e molte più madri – rispetto alle quote che si osservano quando i destinatari delle richieste sono i figli maschi – considerano importante che le figlie ubbidiscano a determinate regole di vita familiare. Padri e madri, dunque, sono concordi nel ritenere che spetti più alle figlie – donne e madri del futuro – che ai figli maschi dover farsi carico del lavoro domestico. Importante è notare, inoltre, che un elevato livello di istruzione della madre non sembra riequilibrare in modo rilevante la disparità di genere. Un’azione più rilevante sembra derivare invece dall’attività lavorativa. Avere una madre non casalinga può incentivare un maggior impegno nella collaborazione domestica in casa anche da parte dei figli maschi; trasmettere quindi alle figlie un modello più simmetrico nei ruoli.

APPENDICE 1

I limiti biologici del modello riproduttivo femminile sono chiari: il periodo fecondo nella vita di una donna è limitato da due eventi facilmente individuabili, il menarca e la menopausa, che delimitano il suo arco di tempo riproduttivo; così il fatto di poter sostenere una gravidanza alla volta, e di poter in qualche modo calcolare l’impatto di fattori come l’allattamento, l’intervallo fra parti, l’abortività naturale e volontaria sulla fecondità totale, permettono di approfondirne lo studio e la comprensione del fenomeno. Per gli uomini il periodo riproduttivo è decisamente più lungo, non si interrompe intorno ai 50 anni, anche se storicamente oltre i 60 anni si producono un numero di nascite statisticamente e socialmente poco rilevanti; il fatto di essere formalmente legato ad una donna in monogamia invece limita effettivamente le potenzialità riproduttive maschili nel tempo e nello spazio; così la maggiore variabilità della fecondità maschile è osservabile confrontando società poligame e monogame.

La certezza della maternità rende le donne referenti privilegiati nello studio della fecondità: una donna è sicuramente madre dei figli (sia illegittimi che nati nel matrimonio) che porta in grembo, mentre il padre può essere incerto. Inoltre, la conoscenza degli eventi che portano ad una nascita (l’uso di contraccezione, la mortalità intra-uterina volontaria e non) è più accurata presso le donne, e più persistente ne è il ricordo; anche per questi motivi le donne sono considerate fonti di informazioni migliori nella costruzione di indicatori la cui attendibilità è indispensabile per ben valutare e confrontare i fenomeni. Invece, nella misurazione della fecondità maschile non soltanto bisogna affidarsi a quanto dichiarato dall’uomo stesso, ma fra quello che l’intervistato dichiara e la prole da lui effettivamente generata (dato controllabile solo attraverso analisi del DNA) si frappongono almeno due fattori: il primo riguarda la falsa paternità, ovvero il caso in cui l’uomo crede di essere il padre biologico dei figli della partner, ma non lo è; il secondo fattore riguarda la maggiore imprecisione nel riportare la propria vita feconda da parte di certe categorie di uomini. Queste sono le principali ragioni per cui a tutt’oggi in molti paesi occidentali le informazioni sui padri, nelle statistiche ufficiali, scarseggiano e le nascite sono registrate insieme a informazioni relativamente dettagliate sulla madre, mentre poco o nulla è riportato relativamente al padre.

Nell’analisi della fecondità per generazioni, attraverso il confronto con quella femminile, Brouard trae forse il maggior frutto del suo studio sulla fecondità maschile; è infatti nei momenti in cui la discendenza finale femminile per generazione si differenzia da quella maschile che si apprezza al meglio il valore informativo di una lettura congiunta; nel caso della Francia le due curve si differenziano per le generazioni nate fra il 1885 e il 1900, infatti la curva del TFT femminile prima decresce e poi riprende, mentre quella maschile sostanzialmente rimane stabile.

APPENDICE 2

L’ipotesi alla base del lavoro è che coloro che mostrano un ordine degli eventi non conforme alla norma abbiano maggior difficoltà ad avere un’occupazione e mostrino più bassi redditi se occupati. Vi è dunque una prima suddivisione delle possibili sequenze di eventi fra conformisti e non; la transizione standard è quella che vede l’individuo prima concludere gli studio, quindi lavorare ed in seguito sposarsi.
Qualsiasi inversione nella sequenza di questi eventi è intesa come una deviazione dal modello così detto conformista, anche se in gradi diversi. La sequenza più lontana dalla norma è considerata quella di chi si sposa prima di aver concluso gli studi e prima di avere un lavoro.

Studiare la fecondità degli uomini non è prerogativa esclusiva dei demografi. Al contrario, abbiamo visto come questi abbiano dato spazio a questo tema solo con notevole ritardo rispetto alla nascita degli studi sulla fecondità delle donne.

La biologia (o più precisamente alcune sue branche come la genetica, la psicologia evolutiva, la biologia evoluzionista, l’etologia animale) e l’antropologia umana studiano il modello di fecondità maschile e femminile e più in generale i comportamenti riproduttivi umani. Così la sociologia ha dato ampio spazio alla trattazione dei ruoli genitoriali, e quindi anche a quello paterno.

La biologia dunque mostra che, prima di tutto, la fecondità maschile rispetto a quella femminile è decisamente più flessibile: “la varianza del contributo maschile alla generazione successiva in molte specie, specialmente quelle che praticano la poligamia - fra cui gli uomini - è notevolmente più grande di quella della donna. Cioè, mentre la maggior parte delle femmine si riproduce, alcuni maschi non si riproducono affatto e altri invece producono un gran numero di figli”. Le strategie riproduttive vengono sostanzialmente categorizzate come di tipo r (molti figli, alta mortalità per cause esterne; normalmente tipica di piccoli animali) o K (pochi figli, lunghe cure parentali; animali grandi fra cui la nostra specie). All’interno di un tipo di strategia riproduttiva di tipo K, in cui la specie umana si colloca, l’uomo rispetto alla donna ha una maggiore variabilità nella numerosità della progenie. In biologia e in genetica si è interessati a valutare soprattutto il “successo riproduttivo” di una specie, quali strategie questa adotta per raggiungerlo e il suo adattamento all’ambiente come veicolo di successo riproduttivo. Recentemente la biologia evoluzionista ha smesso di considerare come indicatore del successo riproduttivo il solo numero di figli (più sono, maggiore il successo); questa viene vista come una strategia di successo solo nel breve periodo. Nel lungo periodo infatti per la specie umana la strategia vincente può essere al contrario quella di restringere il numero di figli, e aumentare l’investimento fatto su ciascuno di essi, ovvero più precisamente di restringere la varianza intergenerazionale del numero di figli messi al mondo. Molte delle regole sociali di popolazioni più o meno complesse vengono spesso lette dai biologi come forme di adattamento comportamentale a certe costrizioni ambientali.

Storicamente la fecondità umana è variata moltissimo, dimostrando adattabilità e flessibilità elevate. Secondo la life history theory è di fondamentale importanza come ciascun individuo, date le sue esperienze passate, “sceglie” una o l’altra strategia riproduttiva, e come percepisce la situazione ambientale, fra i cui indicatori c’è la mortalità, considerata come indicatore di stress ambientale. Questa impostazione è affascinante se si pensa che la demografia ha da tempo sottolineato, con la teoria della transizione demografica, il legame fra mortalità infantile e livelli di fecondità. E’ sicuramente molto difficile misurare come e quanto le variabili strettamente biologiche influenzino i comportamenti o anche solo quali siano i legami logici che legano il regno animale e il mondo dei costumi e delle culture umani; la biologia evoluzionista e le scienze sociali. Ma nell’ambito riproduttivo secondo alcuni autori le variabili culturali e tecnologiche, in una parola non biologiche, sembrano preponderanti su quelle biologiche. “Pochi aspetti dell’esistenza umana sono stati così proni alle influenze culturali come la riproduttività”. Nei casi in cui biologi evoluzionisti hanno tentato di leggere fenomeni sociali per valutare se alcuni aspetti biologici vengano mantenuti sotto forma di norme sociali, si sono scontrati con problemi più complessi del previsto. Di particolare interesse per noi il lavoro di Pérusse che cerca di valutare se nelle società industriali, come per alcune specie di primati, la “dominanza gerarchica”, tradotta nel concetto di status sociale ed economico, sia positivamente legata con un alto numero di figli (ovvero con il cosiddetto successo riproduttivo, intendendolo nel senso più classico di numerosità della prole). Questo modo di rapportarsi al problema, di sicura rilevanza per i primati e forse per certe società preindustriali, rivela qualche debolezza nel caso di società complesse e più vicine a noi temporalmente.

Il numero di figli che un uomo potrebbe concepire (funzione di fecondità potenziale) in assenza di contraccezione è considerata funzione del numero di partners che l’uomo ha e del numero di rapporti sessuali che ha con ciascuna compagna. L’autore considera quindi il numero di partners che un uomo ha nell’arco dei periodi considerati, che in assenza di contraccezione si trasformerebbe in successo riproduttivo; ma trattandosi di una società monogamica i risultati appaiono fortemente influenzati da questa potente “variabile intermedia” (l’unione) e non appaiono significativi; emerge in definitiva solo un legame positivo per gli uomini non in unione stabile. L’ipotesi che nel mondo industriale contemporaneo la fecondità sia ormai scissa quasi del tutto dalle leggi naturali e biologiche, ma piuttosto costretta da vincoli culturali e sociali, rimane forte; il fascino allora esercitato da tali discipline viene molto ridimensionato quando alla domanda concreta che “cosa può dire la biologia sopra la fecondità maschile nel mondo industriale moderno?” Coleman risponde, alla fine della sua analisi, semplicemente “non molto”. Infatti “è possibile che le grandi sovrastrutture culturali, che impongono un controllo sociale sui meccanismi biologici, abbiano trasformato la sessualità umana ed in particolare maschile, ed i conseguenti modelli riproduttivi, in forme che dipendono esclusivamente da determinanti sociali”. Di grande interesse è il lavoro della Guyer J.I. che, ponendo la domanda di fondo “perché gli uomini vogliono aver figli, e in particolare perché sono spinti a prendersene cura?”, apre verso un’analisi di rilevanza demografica. In biologia la risposta sarebbe semplicemente per garantire la sopravvivenza genetica della specie e perché apparteniamo ad una specie animale dove le cure parentali sono molto costose e quindi l’uomo è geneticamente portato a proteggere la propria prole, nutrirla, curala, educarla a lungo. In antropologia culturale, poiché non si dispone di dati genetici per tutta la popolazione (o per un campione rappresentativo di essa) relativamente al legame di paternità, ci si deve basare su dati di tipo sociale, dove per paternità si intende e si accetta quella dichiarata. Il fatto che si studino società monogamiche riduce il rischio di una sfasatura forte fra fecondità biologica e sociale. Non di meno in ambito sociale il concetto di paternità è ampio e comprende figure diverse da quella del solo padre biologico (il latino genitor), ma si allarga ad un concetto sociale di paternità, intesa come funzione paterna di chi ricopre tale ruolo (pater). Gli antropologi infatti studiano in particolare il concetto di paternità inteso come “riconoscimento” del figlio e “responsabilità” verso di esso. Nell’incertezza biologica del reale legame di sangue che lega un uomo con la propria presunta prole le società umane di tipo patrilineare hanno da sempre cercato un modo per controllare attraverso norme, regole e tabù i comportamenti sessuali e la riproduzione. Se così non fosse gli uomini (più delle donne) potrebbero non trovare ragioni sufficientemente forti per responsabilizzarsi. In alcune società di tipo matrilineare il problema è risolto rafforzando i legami di sangue non dubbi, come quelli fra zio materno e nipoti, attraverso cui passa il flusso di risorse affettive, educative e materiali.

La più alta mortalità dei figli “illegittimi” in tempi storici, in diverse società patrilineari, testimonia delle maggiori difficoltà oggettive che dovevano fronteggiare coloro che non avevano un padre biologico o sociale; ed anche se la loro sopravvivenza non era messa a rischio, sicuramente le difficoltà della vita erano maggiori; come nella cultura ebraica dove lo stigma sociale è molto forte, o come fra i Beti del sud del Cameroon, dove il figlio illegittimo ha maggiori difficoltà a costruire da adulto una propria famiglia, compromettendo quindi le proprie possibilità riproduttive. Solo nelle società contemporanee altamente industrializzate e in contesti prevalentemente urbani questi limiti si sono allentati, forse in relazione all’accento posto dalla cultura moderna sul singolo individuo piuttosto che sul clan, sulla famiglia o sul lignaggio; ma come abbiamo visto, l’assenza del padre mette a rischio il benessere dei figli anche nelle economie avanzate. Il riconoscimento del figlio è quindi il primo passo verso la responsabilizzazione del padre, ma non implica automaticamente la responsabilità economica ed affettiva.
Per descrivere meglio l’impiego delle due categorie logiche di analisi la Guyer introduce due esempi che corrispondono a due grandi categorie di società che si differenziano per come coinvolgono i padri nel processo riproduttivo: da un lato le società ancestrali dell’Africa Occidentale, e dall’altro le società contadine, dipendenti dalla terra, con due esempi relativi alla Svizzera e al Giappone. Nelle prime il figlio è visto come l’incarnazione degli antenati e per questo desiderato, accolto con felicità e allevato con rispetto. Procreare diventa un dovere “spirituale” e sociale insieme, allevare i figli ed educarli anche. Nelle altre società prese ad esempio sembrano predominare considerazioni di altro tipo, come il numero di bocche da sfamare, gli ettari di terra da coltivare e le braccia
necessarie per farlo. Tornando al tema della fecondità maschile nelle società contemporanee in paesi economicamente sviluppati, Guyer afferma che “solo alcuni sistemi economico-sociali e religiosi creano le condizioni ottimali per entrambi (le rivendicazioni sessuali da parte della donna, e le relazioni ottimali fra padri e figli). Nelle condizioni economiche attuali, data l’instabilità politica e la mobilità umana, i rapporti esistenti incoraggiano l’uomo a rifiutare la responsabilità di una servitù della durata di 20 anni per allevare un figlio”. Se questa chiave interpretativa viene applicata all’Italia, dove la “servitù” parentale dura quasi 30 anni, si avrebbe un ulteriore elemento per spiegare la bassa fecondità osservata nel nostro paese.

Perché gli uomini accettano di diventare padri e si sottomettono a tutte le responsabilità che ne conseguono? Se la risposta della biologia era, in parole povere, per adempiere al compito riproduttivo con il fine di perpetuare la specie; se l'antropologia rispondeva per garantirsi la certezza del legame di sangue con la propria prole, la sociologia risponde che questo avviene perché vi sono dei ruoli, nel percorso di vita, che la società si aspetta che l’uomo adulto assuma e rispetti; il singolo individuo percepisce la pressione sociale, spesso attraverso l’interiorizzazione di determinati valori ed aspettative.
Vengono sottolineati tre fattori che portano un uomo a sentirsi pronto per diventare padre: la stabilità del rapporto di coppia, una relativa sicurezza economica, e la sensazione che sia giunto il momento di chiudere un periodo della propria vita per passare a responsabilità di maggiore portata. Su questo ultimo elemento (il più difficile forse da valutare) hanno influenza due fattori: le intenzioni generali relativamente al fatto di avere figli, e quanto un figlio è veramente voluto.
Riguardo a questo, da ricerche empiriche emerge che è la donna normalmente a proporre di avere un figlio e a desiderarlo maggiormente, probabilmente poiché conscia del suo più breve arco di vita feconda. Le donne sembrano essere più influenti dell'uomo nel prendere la decisione, perché più emotivamente coinvolte. Dall’altro lato la quota di uomini che non hanno figli sembra essere legata a valori di individualismo e di indipendenza diffusi nella società, per cui essi difenderebbero la loro libertà d’azione da impegni oltremodo pesanti,
come un figlio: su di una scala cosiddetta "dell'autonomia" tale categoria di uomini ha fra i più alti punteggi. Per l'Italia si arriva a definire tre tipi di coppie: quelle che si sposano perché sta per nascere un figlio non programmato, quelle che scelgono di sposarsi e "orientate ai figli" e quelle che, pur sposandosi, ritardano la nascita del primo figlio. Tre modi diversi di mettere su famiglia, all’interno dei quali si individuano diversi modi di dividersi il carico delle incombenze domestiche e di vivere la responsabilità della nuova nascita. In generale però si individua nella “famiglia lunga” una delle cause del ritardo al passaggio alla paternità, non solo per il fatto che si esce temporalmente più tardi dalla famiglia, ma perché fino a che vi si rimane si è sollevati da qualsiasi incombenza pratica; rimandare il figlio,una volta sposati, può essere un modo per socializzare tardivamente la giovane coppia alle responsabilità economiche e domestiche di una vita indipendente. Il parallelismo fra questi risultati sociologici e quelli di molte ricerche demografiche sembrano procedere in pieno accordo.

Per quanto riguarda le modificazioni del ruolo di padre, dei suoi compiti e doveri, della partecipazione alla vita domestica e così via, le posizioni in sociologia sono diverse. Alla fine degli anni '70 e nel corso degli anni '80 si è cominciato a parlare in TV e sui giornali di un nuovo modello di paternità, the new father, che sembrava avanzare ed imporsi. Si trattava di una tipologia di padre e marito che partecipava attivamente ai compiti domestici e alla cura dei figli. Nel tentativo di capire se questa figura esistesse veramente, sono stati condotti diversi studi da cui emergono realtà contrastanti, di cui riportiamo alcuni esempi.

In Svezia e negli Usa i risultati di indagini empiriche suggeriscono in buona sostanza che la suddivisione dei compiti domestici e di cura sono ancora gender specific, vale a dire rigidamente divisi in base al genere; quando poi i padri si occupano dei figli sembra lo facciano in maniera molto diversa dalle madri, dedicandosi al gioco piuttosto che alla cura dei bisogni primari, come pulizia e cibo. Ma altri studi sostengono il contrario, cioè che gli uomini sono sempre più in grado di sostituirsi in tutto alle madri.

Il cambiamento della figura paterna è legato ai mutamenti avvenuti in epoca moderna e contemporanea nella struttura familiare.  Il padre “tradizionale”, tipico di una famiglia artigiana o contadina, dove il confine fra lavoro casalingo e lavoro esterno era meno netto, era caratterizzato da funzioni come educazione, autorità, ruolo morale, compagnia. Con la diffusione dell’industrializzazione e la divisione netta tra sfera interna ed esterna alla famiglia e quindi fra lavoro casalingo e lavoro remunerato, il ruolo del padre si modifica e diventa quello noto come good provider (sostegno economico, buon procacciatore di risorse) tipico della famiglia moderna. Si tratta di un passaggio storico che in quasi tutti i paesi è avvenuto in momenti diversi a seconda del diffondersi dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione. Se il padre pre-moderno era fisicamente molto presente in casa, controllando e limitando, oltretutto, l’autonomia femminile, quello moderno è proiettato all’esterno a cercare risorse economiche per sostenere la famiglia, e passa molto del suo tempo lavorando fuori casa. Questo ha comportato un passaggio di responsabilità e di mansioni domestiche alle donne, e il padre prende funzioni soprattutto di padre psicologo, o di esempio.

A partire dagli anni settanta, ma in particolare negli anni ’80 si comincia a parlare del nuovo padre, che potremmo forse chiamare del padre post-moderno: “stanno con i figli a casa, li portano a scuola, cambiano i pannolini, e li riprendono quando vanno a giocare”. Ma questa nuova figura viene ampiamente criticata dalla ricerca sociologica. Già nel 1983 la studiosa femminista Barbara Ehrenreich propone una teoria per cui già prima della rivoluzione femminista gli uomini si erano stancati del ruolo del buon procacciatore di risorse, costretti nei troppo angusti limiti sociali ed emozionali di questo ruolo maschile.
Ciò che sarebbe seguito quindi era una rivoluzione del pensiero e dei prototipi femminili e maschili insieme. Da questo punto di vista il collasso del ruolo del good provider e l’entrata delle donne nel mondo del lavoro sarebbero il duplice frutto di un duplice scontento. Le donne domandavano più libertà fuori e dentro la famiglia, autonomia di scelta, soprattutto in campo riproduttivo, lavoro, partecipazione alla vita pubblica. E gli uomini? Quello che molti studiosi sostengono è che il ruolo del good provider si sia molto indebolito (ma non ancora del tutto tramontato), e al suo posto non ci sarebbe ancora il suo successore. Quello che si osserva attualmente è il frutto dicotomico di una crisi: da
un lato avanzano i buoni padri, che si impegnano particolarmente nei ruoli familiari, innovandoli e reinventandoli, senza però avere avuto esempi in questo senso nelle generazioni precedenti; forse è osservando casi come questi che si è parlato del modello del nuovo padre.
Dall’altro lato vi sono i cattivi padri, ovvero quelli che si sottraggono alle responsabilità paterne rimanendo molto fuori casa e passando poco tempo con i figli, o, in caso di separazione, allentando i rapporti con la prole, negandogli la propria compagnia, la propria guida e il proprio sostegno economico. Da qui forse l’idea di alcuni autori che parlano di una tendenza “maternale” della società occidentale, che sta spodestando i padri dal loro ruolo a causa di trasformazioni demografiche (aumento delle unioni libere e dei divorzi) che sottraggono il padre al compito di educare ed allevare i figli; e di innovazioni bio-mediche che permettono alla donna di procreare anche in assenza della partecipazione diretta del padre biologico, che retrocede a semplice donatore (magari ignoto) del seme; di trasformazioni giuridiche che indeboliscono il legame legale fra padri e figli, come quello della trasmissione del nome. Altri sostengono al contrario che il patriarcato non è indebolito a favore di una possibile forma di nuovo matriarcato, ma si è semplicemente trasformato: “la funzione di padre onnipotente è ormai lo Stato che tende ad assumerla”, sottraendola ai singoli padri. “La domanda cruciale è ovviamente se l’intenzione [degli uomini] è quella di scappare da casa o di ritornarci”, ovvero di impegnarsi nella vita familiare o di sottrarsi alle responsabilità di marito e padre.

 Risultati relativi alla Svezia, dove lo stato sociale dagli anni ’40 ha favorito molto la partecipazione degli uomini alle responsabilità casalinghe e paterne, confermano questa ambiguità dei nuovi padri: non si sono ancora discostati completamente dal ruolo di buon provider, ma non sono ancora del tutto a loro agio nel nuovo ruolo di padre “postmoderno” padre oggi assomiglia sempre di più ad uno stato transiente: gli uomini tendono a svolgere il ruolo di padre con i figli con cui risiedono. Spesso in caso di divisione perdono i contatti con i figli naturali, ma sono dei padri premurosi per i figli della nuova compagna, con i quali vivono. Per colmare questo divario sembra che l’unica soluzione proposta sia quella di coinvolgere emotivamente gli uomini sempre di più, attraverso la costruzione di ruoli attivi durante tutto il corso del processo riproduttivo e non di solo osservatore, a partire dalla gravidanza e dal parto, per finire con l’allattamento e la cura dei bambini. “I padri che sono stati capaci di costruire un attaccamento nei confronti dei propri figli tramite pratiche concrete di accudimento sono anche i più capaci nel mantenere tale attaccamento in assenza di convivenza quotidiana”.

Il punto cruciale di tutta la questione è che gli uomini che guardano al matrimonio oggi possono sentire che questo offre loro un affare assai meno conveniente rispetto a prima. Questo è l’inevitabile risultato del ridursi dei privilegi maschili, della deferenza delle mogli e compagne, e di un insieme di servizi che prima erano automaticamente considerati nel “contratto” matrimoniale”. Un’ipotesi forse azzardata, ma allettante e probabilmente difficilmente dimostrabile, è che allentandosi le norme sociali intorno alla famiglia e al processo riproduttivo, il ruolo maschile all’interno di questo sia sempre meno vicino ad un modello di monogamia e di fecondità legittima e controllata, ma ritorni ad assomigliare in una certa misura ad un modello ibrido di fecondità che comporta una poligamia seriale piuttosto che una monogamia solida. Questo fa aumentare i possibili modelli procreativi maschili, portandoci vicini ad un’epoca in cui le norme sociali erano meno rigide e quelle biologiche più influenti.

 

 

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Ultimo aggiornamento: 25-11-05