Pochi figli ed in età sempre più tardiva
La posticipazione dell’età di entrata nella prima unione ha raggiunto in Italia livelli da primato rispetto agli altri paesi occidentali.
Un’altra specificità italiana, condivisa soprattutto con la Spagna, è la
bassissima fecondità. Le dinamiche generali dell’evoluzione della
fecondità in Italia sono state ben documentate da molti studi (si veda tra
gli altri il recente volume di Barbagli, Castiglioni, Dalla Zuanna 2003).
Il forte crollo delle nascite tra la metà degli anni ’70 e la fine degli anni
’80 e la sostanziale stasi su livelli molto bassi nel corso degli anni ’90
hanno portato l’Italia d’inizio del terzo millennio ad essere considerata
come uno dei casi più problematici dal punto di vista del declino
demografico. In un sintomatico articolo uscito su Le Monde nei primi
mesi del 20021, il sociologo francese Mendras affermava che gli italiani
sono a rischio di estinzione, e li invitava accoratamente a cambiare rotta
presto ed in modo convincente. Riflettendo inoltre le posizioni di molti
suoi colleghi Mendras riconosceva nella lunghissima permanenza dei
giovani nella famiglia di origine una delle cause principali del basso
numero di figli. Un’altra testimonianza dell’interesse per il caso italiano
è il fatto che gran parte del discorso annuale tenuto dal presidente della
Population Association of America, durante il Convegno tenuto a
Minneapolis nel 2003, è stata dedicata al confronto tra comportamenti
Il capitolo è a cura di Alessandro Rosina e Romina Fraboni
1 “L'Italie malade de sa famille”, Le Monde, 19 febbraio 2002.
Il primo figlio
Se oramai da decenni i demografi italiani
segnalano all’opinione pubblica le dimensioni e le conseguenze della
crisi della fecondità, solo negli ultimi anni la questione comincia ad
essere recepita e si inizia ad osservare una certa sensibilità politica in
merito. Ad esempio, nel recente Libro Bianco sul Welfare (Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2003), la questione demografica
(anche se colta con una certa approssimazione) viene riconosciuta come
ineludibile. Inoltre, anche nel Libro Bianco, non manca il collegamento
tra il sempre maggior ritardo dei giovani nella costituzione di una
propria famiglia ed esiguità della discendenza finale.
L’interesse per lo studio della fecondità italiana si è però finora, con
pochissime eccezioni, concretizzato in analisi della maternità e delle sue
determinanti. Nonostante sia ampiamente riconosciuta l’importanza di
vedere i cambiamenti riguardanti la formazione della famiglia e la
fecondità anche da una prospettiva maschile, sono ancora molto pochi
gli studi che vanno in questa direzione2.
Come è noto, le trasformazioni nella formazione della famiglia
sono parte di un processo più generale di cambiamento che ha
interessato aspetti economici e socio-culturali. Le modifiche strutturali
relative al sistema educativo e al mercato del lavoro generano variazioni
nel sistema di valori e di aspettative che si riflettono su forme, tempi e
stabilità delle unioni e sulla loro prolificità. Soprattutto l’aumento
dell’istruzione e delle opportunità di occupazione extra-domestica delle
donne, e quindi la ri-valutazione del ruolo della donna nella società,
viene indicato come uno dei più importanti fattori esplicativi della
riduzione della nuzialità, dell’instabilità delle unioni e della bassa
fecondità (Becker, 1981). Tale spiegazione sembra però parziale. La
trasformazione del ruolo e delle opportunità femminili hanno un diverso
impatto sul sistema familiare in funzione dell’evoluzione delle
opportunità maschili e del riadattamento del ruolo dell’uomo nella
società e dei rapporti di genere nella coppia. Più in generale le
trasformazioni interagiscono con le differenze culturali dei vari contesti.
E’ importante quindi sia considerare esplicitamente il ruolo maschile nel
processo di formazione della famiglia, sia tener conto delle specificità
culturali che caratterizzano non solo le diverse realtà nazionali, ma
anche ambiti territoriali intra-nazionali.
La paternità rappresenta un elemento cruciale per comprendere le
questioni demografiche in Europa. Se si assiste ad una tendenza
generale verso la diminuzione della genitorialità, è vero anche che la
paternità risulta maggiormente limitata rispetto alla maternità. E’
interessante infatti notare che, dove il matrimonio è solido, i padri
vivono con i figli, ma il tasso di fecondità è basso; dove il matrimonio è
in crisi, i padri sono spesso separati dai figli, ma il tasso di fecondità è
più elevato. Nell’Europa meridionale la paternità è limitata
principalmente dal basso tasso di fecondità, nell’Europa settentrionale la
paternità è limitata principalmente dai cambiamenti nelle forme di
unione (Jensen 2000).
In questo capitolo l’interesse sarà concentrato sull’arrivo del primo
figlio. Nel secondo paragrafo viene fornito un quadro descrittivo del
processo di costituzione della prima unione e della transizione alla
paternità. Nel terzo si propone un’analisi del legame tra ritardo di
entrata in unione e bassa fecondità. Mentre studi precedenti si sono
limitati a considerare solo l’età della donna, qui consideriamo le
caratteristiche di entrambi i partner. Oltre all’età siamo interessati anche
a valutare in generale l’impatto delle differenze di genere riguardanti la
dimensione dell’istruzione e del lavoro. L’ultimo paragrafo contiene
alcune considerazioni conclusive. I dati utilizzati, ove non indicato
diversamente, derivano soprattutto dall’indagine Famiglia, soggetti
sociali e condizioni dell’infanzia, condotta dall’Istat nel 1998.
3.2 - Una descrizione del processo di formazione della famiglia
Il processo di costituzione della prima unione coniugale e
dell’arrivo del primo figlio hanno conosciuto, dal secondo dopoguerra in
poi, variazioni rilevanti, soprattutto relativamente all’età di
sperimentazione degli eventi. Il tempo di realizzazione e l’entità di tali
variazioni risultano però differenziate sia rispetto al genere che alla
ripartizione geografica. La dinamica per generazione presenta
sostanzialmente due fasi. Nella prima si osserva un’anticipazione
dell’età di formazione della famiglia. Più precisamente aumenta sia la
propensione a sposarsi che ad avere figli in età giovanile.
3.2.b). L’intensità finale rimane però sostanzialmente invariata. Se si
passa infatti a considerare la situazione a 35 anni per le donne e a 40 per
gli uomini, si nota come la quota di persone sposate e con almeno un
figlio presenti variazioni trascurabili. In particolare tale livello non
risulta più elevato per la coorte dei nati negli anni ‘40 rispetto a quella
dei nati negli anni ‘30.
Segue una seconda fase di diminuzione di matrimoni e fecondità in
età giovanile a cui però ora sembra corrispondere anche una contrazione
dell’intensità finale. Ciò si vede chiaramente soprattutto nel Nordcentro,
mentre nel Sud-isole si nota qualcosa solo in corrispondenza alla
generazione più recente. Ad anticipare tale processo sono in particolare
gli uomini settentrionali, per i quali la paternità sembra entrare in crisi
già a partire dalla generazione degli anni ‘40. L’andamento è poi quello
di una continua e progressiva riduzione. Tra i nati nella seconda metà
degli anni ‘50 più di un uomo su quattro al Centro-Nord è arrivato a
compiere i 40 anni senza aver ancora avuto alcuna esperienza di
paternità, in proporzione superiore rispetto a quanto osservato per il
Sud- Isole. Per le donne settentrionali la situazione (a 35 anni) è solo
leggermente migliore.
Se confrontiamo i tempi di nascita del primo figlio nel quadro
dell’Europa occidentale, il ritardo italiano risulta eclatante. L’esperienza
della paternità risulta notevolmente posticipata in Italia rispetto a
qualsiasi altro paese occidentale. Nella Figura 3.3 riportiamo solo una
selezione in base ai dati disponibili e confrontabili. Per i nati all’inizio
degli anni ‘60, l’età mediana al primo figlio si situa generalmente sotto i
30 anni negli altri paesi, mentre arriva ad oltre 33 anni per gli uomini
italiani4. Abbiamo visto nelle figure precedenti che al fenomeno della
posticipazione sembra essere legato anche a quello di una riduzione
dell’intensità finale. Ovvero non solo si hanno i figli in età sempre più
avanzata ma anche sempre più persone rinunciano ad avere figli. I nati
all’inizio degli anni ‘60 avevano meno di 40 anni al momento
dell’indagine, è difficile valutare per essi quanto l’ulteriore rilevante
posticipazione sarà connessa ad un ulteriore aumento della quota di
4 L’età avanzata al primo figlio risulta in larga misura legata ad una età
avanzata di entrata nella prima
unione. L’età mediana alla prima unione risulta vicina a 29 anni per gli uomini
italiani nati nella
prima metà degli anni ‘60, mentre il valore più elevato tra i coetanei degli
altri paesi è quello della
Spagna (quasi 27 anni).
Passando a considerare la distribuzione per età della transizione alla
paternità (Figure 3.4 e 3.5), quello che si osserva nel settentrione è, fino
alla generazione del 1950-54, una progressiva diminuzione del primo
figlio nella classe 30-34 controbilanciata da un quasi speculare aumento
nella classe 20-24. Tale andamento si inverte con l’ultima generazione
(1955-57) che evidenzia una ripresa del primo figlio soprattutto nella
classe 30-34, che però solo in parte compensa l’abbassamento della
fecondità nelle età precedenti.
Le variazioni più importanti riguardano in ogni caso la classe 25-
29. In tale fascia d’età il massimo viene raggiunto con la generazione
1940-44, dopodiché nelle generazioni che seguono si assiste ad una
forte progressiva riduzione. Nel meridione l’evoluzione sembra
sostanzialmente analoga con un ritardo di un quinquennio. Interessante
infine segnalare come prima dei 20 anni la fecondità maschile risulti
essere su livelli praticamente irrilevanti.
Un ultimo aspetto da considerare è il fenomeno, sempre più diffuso
in altri paesi occidentali, delle nascite fuori dal matrimonio. Abbiamo
visto nei capitoli precedenti come attualmente in Italia le unioni informali
siamo poco diffuse, anche se in forte crescita, e si configurino soprattutto
come breve preludio al matrimonio. In tabella 3.1 si può vedere come,
anche nell’Italia settentrionale, siano molto rari i casi di persone che
risultano avere figli senza essersi mai sposate. Aumenta però, ma solo nel
Nord-centro la quota di celibi e, soprattutto, di sposati senza figli.
3.3 - Un’analisi della relazione tra arrivo del primo figlio e
caratteristiche dei coniugi
Analisi che si limitano a considerare solo le caratteristiche della
donna, come avviene usualmente in letteratura, ignorano una
componente (quella maschile) fondamentale del processo che genera
l’arrivo nella popolazione di un nuovo individuo. Nell’analisi che qui
proponiamo consideriamo come fattori esplicativi dell’evento di
interesse alcune caratteristiche di base di entrambi i coniugi. Per
ribaltare la prospettiva tradizionale in un primo modello inseriamo solo i
fattori maschili, mentre nel secondo aggiungiamo le corrispondenti
caratteristiche femminili.
Siamo soprattutto interessati a studiare l’impatto, sulla propensione
ad avere il primo figlio, dell’età maschile e femminile (una al netto
dell’altra) e delle differenze di genere (rispetto all’età, al livello di
istruzione e all’occupazione).
Nel primo modello (Tabella A1), dove si considerano solo le
caratteristiche del partner maschile, si ottiene un effetto significativo di
tutte le variabili considerate. In particolare, la propensione ad avere il
primo figlio diminuisce in modo rilevante sia all’aumentare dell’età al
matrimonio che del livello di istruzione. Nel Nord-centro anche al netto
delle variabili considerate rimane significativa la riduzione a partire dai
nati negli anni ‘40. Nel Sud-isole è particolarmente rilevante invece
l’effetto della posizione occupazionale, nella direzione attesa
Nel secondo modello vengono introdotte anche le caratteristiche
femminili. Per motivi di collinearità e per valutare in modo più chiaro il
contributo di ciascuno dei due sessi e la loro azione congiunta, è stata
costruita un’unica variabile dalla combinazione (in classi quinquennali)
dell’età dei due coniugi, lo stesso è stato fatto per il livello di istruzione.
A parità delle altre variabili inserite, il titolo di studio presenta un
effetto molto forte. Se si confrontano le combinazioni con posizione di
genere simmetrica, si nota come le coppie di laureati presentino in
entrambe le grandi ripartizioni un rischio più basso di transizione al
primo figlio. E’ interessante però notare come sia soprattutto la laurea
della donna ad avere un effetto negativo. Rispetto infatti alla condizione
di entrambi laureati, se lui ha la laurea e lei no il rischio è maggiore, mentre
se le posizioni sono invertite il rischio è minore.
A differenziarsi rispetto al comportamento tradizionale di aver il
primo figlio subito dopo il matrimonio tendono ad essere soprattutto le
persone con elevato grado di istruzione. Sia per la loro mentalità più
aperta a comportamenti non tradizionali, sia per la loro maggiore
conoscenza e capacità d’uso dei metodi contraccettivi, sia per il loro
maggiore orientamento all’investimento personale, che può portare a
dilazionare l’arrivo del primo figlio in funzione di tempi e opportunità
di carriera professionale della coppia. Tale meccanismo agisce in modo
rilevante sia sull’uomo che sulla donna, ma è verosimilmente più
rilevante per quest’ultima. In particolare una donna con livello di
istruzione elevato, indipendentemente dal livello del marito, tenderà ad
avere strumenti e motivazioni per gestire, meno tradizionalmente e più
condizionatamente a proprie esigenze e aspettative, tempi ed intensità
della propria fecondità. Ciò comunque verrà accentuato nel caso anche il
marito possieda un elevato livello di istruzione, dato che si tratta di
programmare un evento comune (la nascita di un figlio)
condizionatamente a tempi, vincoli ed opportunità dei percorsi
professionali di entrambi.
E’ interessante inoltre notare come le forti asimmetrie di genere (lui
titolo basso e lei medio-alto o viceversa) agiscano in modo favorevole
sull’arrivo del primo figlio.
Passando a considerare l’età, quello che si ottiene è un effetto più
marcato per la componente maschile. In Figura 3.8 sono riportate le
stime ottenute dal primo modello. Come si vede l’effetto età per i
maschi, al netto delle altre variabili, è molto forte per entrambe le
ripartizioni. In Figura 3.9 e 3.10 vengono riportate le stime ottenute dal
modello finale in combinazione con l’età femminile. Si vede
chiaramente che il declino della propensione al primo figlio rimane forte
nella dimensione dell’età dell’uomo, mentre è molto più moderato per la
donna. A parità dell’età maschile, l’età femminile sembra incidere
sensibilmente solo quando supera quella del partner. E’ il caso della
combinazione lei 25-29 & lui 20-24 rispetto a lei 20-24 & lui 20-24.
Come noto, all’aumentare dell’età diminuisce la capacità biologica
di ottenere una gravidanza. Vari studi hanno mostrato come la fecondità
femminile raggiunga il massimo tra i 20 ed i 25 anni e poi declini
progressivamente fino ai 35-39, per poi ridursi decisamente dopo i 40.
Riguardo alla popolazione maschile il declino non sembra invece essere rilevante
prima dei 35-39 anni. Se quindi l’unico effetto dell’età fosse quello biologico avremmo
dovuto ottenere dalla nostra analisi un’azione negativa più forte per le
donne rispetto agli uomini. A ciò si deve aggiungere il legame tra età e
rischio di malformazioni congenite e complicazioni del parto, che
potrebbero ulteriormente disincentivare alcune donne in età non più
giovanile ad avere figli. Il fatto invece che domini l’effetto maschile
suggerisce che l’azione dell’età possa cogliere anche meccanismi non
biologici.
Nel regime demografico moderno fare figli è frutto dell’agire
razionale (inteso come capacità di mettere in atto una decisione
esplicitamente assunta) delle coppie, tuttavia non si dispone in
letteratura di riflessioni abbastanza accurate né sulla formazione di
questa decisione, né sulle due modalità di rendersi esplicita per i due
partner. Secondo Bimbi (1993) fare figli è frutto dell’agire razionale
(inteso come capacità di mettere in atto una decisione esplicitamente
assunta) delle coppie. Secondo tale autrice la bassissima fecondità può
essere vista come esito di un modello di “iperrazionalizzazione” (sia
della scelta che dei confini ad essa relativi). La negoziazione tra i
partner può proseguire indefinitivamente, fino al momento in cui si
realizza che è troppo tardi per avere un (altro) figlio. Secondo Micheli
(1995; 2000) per avere un figlio bisogna “decidere di non decidere”,
ovvero è necessario far prevalere logiche di razionalità non economica.
La bassissima fecondità italiana sarebbe da ricondurre al fatto che la
convenienza economica viene raramente allentata. Secondo tale autore,
“come per il sonno”, la maternità/paternità è un risultato raggiungibile
quando si allenta la “morsa ingabbiante del controllo della razionalità”.
E’ verosimile che l’”iperrazionalizzazione” di cui parla Bimbi e “la
morsa ingabbiante”di cui parla Micheli, si accentuino con l’età. Si può
pensare infatti che a vent’anni si tenda ad essere più spontanei,
impetuosi, genuini nei confronti delle scelte di vita, mentre in età più
matura si diventa più riflessivi, cauti, prudenti, meno disposti a mettersi
in gioco o in discussione con eventi carichi di vincoli e responsabilità.
Chi si sposa in età avanzata potrebbe avere quindi più facilmente un
atteggiamento ipercontrollato e paralizzato nei confronti della scelta di
avere un figlio, rispetto a chi si sposa in età più giovane, e ciò potrebbe
valere soprattutto per gli uomini. Le donne hanno infatti un preciso
limite del periodo fecondo, mentre gli uomini possono diventare padri
anche in età molto avanzata5. In altre parole per le donne la deriva
dell’ipercontrollo ansioso viene arginata dall’avvicinarsi della
menopausa che costringe a mettere da parte tutti i timori e le apprensioni
se non si vuole rinunciare all’obiettivo desiderato.
E’ inoltre molto verosimile che ci siano delle differenze di genere
nel valore dato alla genitorialità. Nella non estesa letteratura sulla
paternità ci sono varie argomentazioni che sembrano avvalorare l’ipotesi
di una minore importanza per gli uomini dell’esperienza della nascita di
un figlio (Goldscheider e Kaufman 1996; Gerson 1993). In ogni caso
praticamente nessuno in letteratura avanza l’ipotesi che la paternità
possa avere per l’uomo un valore maggiore di quanto non sia la
maternità per l’identità femminile. E’ quindi verosimile che la
prospettiva di rimanere senza figli possa eventualmente essere più
facilmente accettata dall’uomo che dalla donna. Del resto una recente
indagine sui valori degli italiani (Gubert 2000), evidenzia come il 47%
dei maschi ed il 42% delle femmine consideri importante avere figli per
la realizzazione dell’uomo, mentre si sale rispettivamente al 55% dei
maschi e al 58% delle femmine che considerano importante avere figli
per la realizzazione di una donna.
Esistono altre interpretazioni concorrenti. Ad esempio l’età al
matrimonio potrebbe avere un effetto negativo sull’arrivo del primo
figlio anche per un effetto selezione, dovuto al fatto che si sposa più
tardi chi è meno orientato alla famiglia e più all’investimento personale.
Le persone maggiormente orientate alla carriera tendono ad avere un
atteggiamento meno positivo rispetto alla fecondità.
Infine, relativamente alla posizione occupazionale si ottiene un
effetto negativo per le donne che hanno iniziato a lavorare prima del
matrimonio rispetto a coloro che si sono sposate senza aver mai avuto
esperienze occupazionali. Per gli uomini rimangono confermati gli
effetti ottenuti nel primo modello. Il fatto che l’occupazione presenti un
effetto maggiore nel meridione è anche dovuto al fatto che nel Sud Italia
è ancora largamente maggioritario il comportamento tradizionale di
avere il primo figlio subito dopo il matrimonio e chi si discosta da tale
comportamento sono soprattutto le donne con elevato livello di
5 Ad esempio, un uomo che si sposa a 32 anni con una ragazza di 22 può
permettersi di aspettare prima di decidere se diventare padre o meno. Una donna che si sposa a 32 anni,
qualunque sia
l’età del marito, se non vuole perdere l’esperienza della maternità, non può
rinviare troppo la
decisione altrimenti rischia che tale esperienza le sia preclusa per sempre.
istruzione e orientate alla realizzazione professionale o quantomeno
all’autonomia economica. Nel settentrione invece la posticipazione del
primo figlio è più diffusa e praticata anche dalle classi sociali mediobasse.
Dato che praticamente tutti gli uomini entrano nel mercato del
lavoro prima del matrimonio, la non occupazione femminile indica
un’asimmetria di ruolo. Il fatto che le donne che non hanno mai lavorato
prima del matrimonio presentino una maggiore progressione al primo
figlio rispetto alle donne occupate rientra quindi nel risultato generale
ottenuto di comportamenti più tradizionali per le coppie con asimmetria
di genere che assegna più potere al partner maschile. Ciò vale sia per il
lavoro che per il titolo di studio, che per l’età.
Se infatti per
livello di istruzione e lavoro risulta confermato quanto comunque
ottenuto da studi condotti privilegiando la componente femminile della
coppia, per quanto riguarda invece l’età il risultato risulta ribaltato,
ovvero sembra contare di più l’età maschile. Si tratta evidentemente di
risultati da approfondire. Non è detto infatti che l’effetto dell’età sia di
tipo causale, ovvero che sia di per sé l’arrivare in età tardiva al
matrimonio a ridurre (ad esempio attraverso l’ipotizzato meccanismo di
“ipercontrollo”) la propensione all’esperienza di paternità. Il legame
potrebbe essere infatti spurio (conseguenza ad esempio di un effetto
selezione che porta a sposarsi più tardi le persone più orientate
all’investimento personale e meno alla famiglia).
Lo studio della relazione tra età e fecondità è fondamentale
soprattutto nel contesto italiano caratterizzato da un processo di
continua posticipazione dell’età a cui si inizia a formare una famiglia
(l’età mediana alla prima unione, in particolare per gli uomini, è tra le
più alte al mondo) e da una fecondità tra le più basse al mondo.
Comprendere ed approfondire la relazione che lega tali due fenomeni
diventa cruciale anche in funzione di politiche che, aiutando i giovani a
diventare autonomi ed a costituire un’unione in età meno tardiva, possa
anche avere implicazioni positive sulla fecondità.
Appendice: modello e risultati dettagliati
Dato che in Italia, almeno per le generazioni qui considerate,
l’entrata nella paternità risulta compiersi tradizionalmente nell’ambito
del matrimonio e considerati i bassi tassi di scioglimento delle unioni
coniugali, conduciamo l’analisi sugli uomini che al momento
dell’indagine risultano vivere in coppia con la prima moglie. Per
limitare ulteriormente gli effetti di selezione per vedovanza limitiamo lo
studio a chi al momento dell’intervista ha meno di 60 anni. Il limite
inferiore è fissato a 45 anni per gli uomini ed a 42 per la partner
(studiamo quindi le coppie che hanno già concluso la loro storia
riproduttiva).
Età al matrimonio e titolo di studio del marito sono fortemente
associate alle corrispondenti caratteristiche della moglie. Questo
significa che nel modello II l’effetto delle variabili maschili riflettono in
parte anche l’effetto delle variabili femminili. Per stimare l’impatto
delle caratteristiche maschili al netto di quelle femminili dobbiamo
inserire esplicitamente queste ultime nel modello. La forte associazione
sconsiglia però di inserire in modo indipendente le caratteristiche del
marito e della moglie nello stesso modello, si otterrebbero infatti delle
stime poco robuste. La soluzione adottata è quella di costruire variabili
di sintesi dalla combinazione tra età e tra livello di istruzione dei
coniugi.
4.1 - Oltre il figlio unico
La rigidità dei percorsi di vita maschili e la posticipazione dell’età
al primo figlio – illustrate nel precedente capitolo – hanno come
immediata e diretta conseguenza, la contrazione dello spazio
riproduttivo e lo spostamento verso età più mature della nascita degli
eventuali figli di ordine successivo.
L’ipotesi che le caratteristiche degli uomini e la divisione dei compiti
domestici tra i generi possano influenzare la fecondità, rende necessario
studiare sia la fecondità maschile, che i comportamenti fecondi in
relazione alla combinazione delle caratteristiche dei due partner.
La mancanza di informazioni limita fortemente questo tipo di studi sul
contesto italiano. Sono, infatti, pressoché inesistenti dati a livello aggregato
che confrontino la fecondità maschile e quella femminile per parità. Anche
gli studi a livello individuale che si concentrano sulla transizione al secondo
figlio in Italia sono molto pochi, proprio perché limitati dalla scarsa
disponibilità di dati individuali sugli uomini e sulle coppie.
4. Il secondo figlio
fecondità differenziale, sia come attori indipendenti che come parte
della coppia (Pinnelli e Di Giulio, 2003; Francovich 1999). I dati
dell’Indagine Multiscopo si prestano bene a questo fine, permettendo di
analizzare la fecondità in relazione alle caratteristiche di entrambi i
coniugi. Resta esclusa, invece, la possibilità di studiare i mutamenti nei
ruoli di genere dopo la prima nascita e il loro effetto sulla probabilità di
avere un secondo figlio.
Dato che le variabili femminili sono già state ampiamente prese in
esame dalla letteratura demografica, analizzeremo le determinanti della
transizione al secondo figlio, con un’attenzione particolare rivolta alle
caratteristiche dei padri, così come alle caratteristiche maschili e
femminili considerate congiuntamente.
Se la prima nascita segna l’ingresso nella condizione di genitori, la
transizione al secondo figlio, segna il passaggio verso la dimensione della
prole più diffusa nel nostro Paese (Zanatta e De Rose 1995), che sembra
peraltro coincidere con le preferenze riproduttive indicate dalla maggior
parte degli individui (Goldstein et al. 2003, Menniti e Palomba 2000). E’
però interessante notare che per una coppia su tre con un solo figlio,
all’intenzione della donna di avere un ulteriore figlio non corrisponde
un’analoga intenzione del partner. Il disaccordo sale poi a oltre due terzi dei
casi per le coppie con due figli.
Dall’andamento della distribuzione per parità per donne di diverse
generazioni, si nota che il modello dei due figli per coppia si è affermato
a partire dalle coorti nate alla fine degli anni Trenta (Santini 1995). Va
ricordato, invece, che per le generazioni nate attorno al 1960, la
frequenza delle donne senza figli o con un figlio supera la frequenza di
quelle con due. Sembra, pertanto, che la scelta di avere due figli per le
generazioni più giovani sia divenuta sempre più difficile.
L’importanza dello studio della transizione al secondo figlio, è
legata anche ad altre considerazioni. E’ proprio dopo il primo figlio,
infatti, che i genitori sperimentano le reali difficoltà legate alla cura del
bambino e si rendono conto del tempo e delle energie che questa
effettivamente comporta (Presser 2001). E’, ancora, dopo il primo figlio
che le madri lavoratrici si trovano ad affrontare concretamente il
problema della conciliazione dei ruoli (Olah 2004). Ovviamente, se
dopo la prima nascita, la partecipazione paterna è scarsa o addirittura
nulla, è possibile che il sacrificio in termini di tempo sia valutato come
eccessivo da parte delle madri, che possono propendere per fermarsi al
primo figlio, specialmente in mancanza di aiuti esterni e di adeguate politiche di sostegno. Si comprende, quindi, come nel caso italiano il
grado di partecipazione maschile alla cura del primo figlio possa giocare
un ruolo ancora più importante perché la coppia scelga di metterne al
mondo un secondo.
Il quadro di riferimento per studiare il passaggio al secondo figlio è
simile a quello già trattato in riferimento al primo (cfr. Rosina e Fraboni
in questo volume). Va tenuto presente, però, che gli studi sulla fecondità
fanno tradizionalmente riferimento alla sola donna, anche per via
dell’innegabile componente biologica che attiene alla maternità. Solo
ricerche recenti hanno sottolineato l’importanza di considerare altresì il
secondo attore del processo riproduttivo - il partner - nell’ipotesi che
anche le sue caratteristiche e le sue strategie abbiano un ruolo di primo
piano per la determinazione delle scelte riproduttive (cfr. con appendice
finale in questo volume). In particolare, non è detto che le stesse
caratteristiche, riferite a uomini e donne, abbiano lo stesso effetto sul
comportamento procreativo, perché differenti potrebbero essere i modelli
di fecondità (Pinnelli e Di Giulio 2003). Ad esempio, se un più alto livello
di istruzione femminile (vista come proxy del reddito) in generale
aumenta il costo-opportunità dei figli, quello maschile lo riduce (con puro
“effetto reddito”), a meno che non vi siano politiche attive per la
riconciliazione dei ruoli o vi sia una partecipazione fattiva degli uomini
alle attività domestiche (Olah 2003). Pinnelli e Di Giulio (2003),
evidenziano come le stesse modalità (ed es. l’età, l’istruzione e il lavoro)
hanno più spesso effetti negativi sulla fecondità femminile che non su
quella maschile, segno delle maggiori costrizioni – anche di ordine
biologico - sperimentate dalle donne. Tali effetti – sottolineano le due
autrici – sono però mitigati nei paesi dove il contesto è più familyfriendly.
Similmente, anche le particolari combinazioni delle caratteristiche
di entrambi i partner potrebbero avere un importante ruolo per
determinare le scelte procreative (Corijin, Liefbroer, De Jong Gierveld
1996, Dalla Zuanna 2001, Pinnelli e Di Giulio 2003) e, anche in questo
caso, l’effetto di tali variabili può essere influenzato dal contesto.
Baizan (2004) mostra, ad esempio, come la combinazione tra la
condizione di lavoratore dipendente per l’uomo e quella di casalinga per
la donna abbia un impatto positivo sulle nascite di secondo ordine nel
Regno Unito e in Italia, mentre in Danimarca, dove il livello di equità di
genere è maggiore, l’impatto sia addirittura negativo. In uno studio sui
Paesi Bassi emerge che il grado di omogamia relativa all’istruzione ha
un effetto sulla probabilità di avere il primo figlio, rafforzando gli effetti
delle caratteristiche dei singoli (Corijin, Liefbroer e De Jong Gierveld
1996).
In Italia, sono le donne con un’istruzione più elevata e posizioni
lavorative di rilievo ad avere più frequentemente una fecondità molto
bassa, e soprattutto più bassa degli uomini nelle stesse condizioni di
istruzione e posizione lavorativa (Pinnelli e Di Giulio 2003).
Accanto all’analisi classica delle caratteristiche individuali, proprio
nello studio del passaggio al secondo figlio sta prendendo piede l’esame
della divisione dei ruoli di genere all’interno della coppia.
Un’interessante ricerca di Miller Torr e Short (2004) esamina negli Stati
Uniti la divisione del lavoro domestico e la probabilità di passare al
secondo figlio nelle famiglie a doppio reddito. L’autrice osserva che le
coppie “moderne” in cui la donna svolge meno del 54% delle attività
domestiche hanno più frequentemente un secondo figlio a parità di altre
condizioni2. Similmente, Olah (2003) evidenzia che tanto in Svezia
quanto in Ungheria una più equa condivisione dei compiti familiari
accelera la transizione al secondo figlio, nel primo caso supportata
anche da politiche ad hoc. Dal campione italiano del Panel Europeo
delle Famiglie, emerge che, tra le coppie più giovani, una consistente
partecipazione dei padri all’accudimento del primo figlio si ripercuote
positivamente sulla probabilità di averne un secondo nelle coppie a
doppio reddito (Cooke 2003). Anche con dati rappresentativi di cinque
comuni italiani, capoluoghi di provincia (Udine, Padova, Firenze,
Pesaro e Messina), si è osservato che tra le coppie in cui entrambi i
partner lavorano, la probabilità di avere un secondo figlio è più alta se,
dopo la nascita del primo, il marito ha incrementato il suo contributo
nello svolgimento dei compiti domestici e se ha collaborato in modo
fattivo alle attività di cura del neonato (Mencarini e Tanturri 2004).
4.2 - Un quadro descrittivo
L’indagine Multiscopo, come già messo in evidenza, rileva la
partecipazione dei padri nelle attività domestiche. Va sottolineato che l’associazione tra quota svolta di compiti domestici e la
probabilità di avere un
secondo figlio non è lineare, bensì ha una forma ad “U”. Anche le coppie
“tradizionaliste” – dove
le donne svolgono più dell’84% dei compiti domestici hanno più probabilmente un
secondo
bambino rispetto al gruppo intermedio di riferimento. I dati raccolti consentono di analizzare
tanto le caratteristiche del background, quanto quelle relative alla
carriera lavorativa, di entrambi i genitori. La partecipazione al mercato
del lavoro retribuito, le sue variazioni nel corso di vita, sia in termini di
interruzioni che di cambiamento di attività o avanzamento di carriera,
possono in un certo senso essere considerate l’altra faccia della
divisione dei ruoli di genere all’interno della coppia.
Limitatamente alle coppie in costanza di matrimonio, vogliamo
studiare il passaggio al secondo figlio e in particolare le caratteristiche
individuali dei padri e congiunte di entrambi i genitori che determinano
questo passaggio.
Analogamente a quanto fatto nel capitolo precedente, per ribaltare
la prospettiva tradizionale che di solito prende in considerazione le sole
caratteristiche delle madri, analizziamo dapprima le caratteristiche del
padre e poi quelle della coppia (cioè le caratteristiche prese in esame per
i padri, congiuntamente alle stesse per le madri).
Prendiamo in considerazione, relativamente sia agli uomini che alle
coppie3, le seguenti variabili: coorte di appartenenza; livello di
istruzione; ripartizione geografica e ampiezza del comune di residenza;
età al primo figlio; attività professionale.
Iniziamo questo quadro descrittivo dalla generazione di nascita.
Prendiamo in analisi la fecondità di quattro coorti decennali, da quelle
nate negli anni trenta (1930-39), protagoniste del “baby-boom” degli
anni sessanta, a quelle nate invece negli anni ’60 (1960-69) che non
hanno ancora terminato il proprio periodo riproduttivo. Abbiamo
escluso le coorti nate negli anni’70 perché data la giovane età al
momento dell’indagine (20-28 anni), le coppie in costanza di
matrimonio sono poche e fortemente selezionate.
Tra gli uomini in coppia in costanza di matrimonio hanno avuto un
secondo figlio quasi il 72% degli uomini nati negli anni ’30, quasi il
70% delle coorti degli anni ’40, il 65% di quelle degli anni ’50 e, al
momento dell’intervista, solo il 37% di quelle degli anni ’60. In
presenza di coorti troncate (e per la fecondità maschile non è neanche
univoco stabilire quale sia il periodo riproduttivo) è più corretto tuttavia
3 Il campione ammonta a 11.171 casi, di cui 3.283 censurati (cioè che non hanno
avuto il secondo
figlio). I casi di gemelli alla prima nascita (123) sono stati esclusi
dall’analisi delle determinanti
del secondo figlio.
riferirsi ad una misura di intensità che prende in considerazione la
distanza dal primo figlio. Un esempio è la proporzione di uomini già
con un figlio che a distanza di cinque anni hanno un secondo figlio:
questa, dai dati analizzati, ammonta ad oltre il 55% degli uomini nati
negli anni’30, scende alla metà di quelli nati negli anni ’40, per oscillare
intorno al 45% dei due decenni successivi.
L’età mediana4 al secondo figlio per gli uomini è stabile tra le coorti
ed è intorno ai 34 anni, mentre l’intervallo mediano dal primo figlio è di
52 mesi per la coorte più anziana, 58 per quella degli anni ’40, 63 mesi
per la coorte nata negli anni ’50.
Riguardo all’area geografica, da tempo è noto un diverso modello
di fecondità per coorte nelle diverse ripartizioni italiane (Santini 1995).
La tavola 4.1 riporta la proporzione di uomini in coppia che hanno avuto
il secondo figlio e la proporzione di coloro che, avendo già il primo,
hanno avuto il secondo entro cinque anni dal primo, ed evidenzia una
più alta transizione al secondo figlio per gli uomini residenti nelle
ripartizioni meridionali e insulari rispetto a quelle centro-settentrionali.
La prevalenza più alta passa dalla ripartizione insulare a quella
meridionale con le coorti più recenti.
Mentre per le
donne il livello d’istruzione è di solito associato con la partecipazione e
la posizione lavorativa (le donne più istruite, in Italia, hanno una
probabilità molto più elevata di partecipare al mercato del lavoro) ed è
usualmente correlato ad una fecondità più tardiva e più bassa
(Rampichini e Salvini 1999), nell’uomo invece alti livelli di istruzione
sono correlati più frequentemente ad alti redditi e quindi, a parità di altre
caratteristiche, ad una fecondità maggiore. Per tutte le coorti, le curve di
sopravvivenza5 mostrano una più veloce transizione al secondo figlio Calcolata con il metodo di Kaplan- Meier. Le “curve di sopravvivenza” descrivono la proporzione di individui che hanno
(già) avuto il
secondo figlio in funzione dell’età.
per uomini con istruzione più bassa e un effetto simile si ha anche
tenendo conto distintamente di tutte le combinazioni di livello di
istruzione della coppia (si veda ad esempio la figura 4.2 per la generazione di
uomini in coppia nati tra il 1950 e il 1959).
Attraverso le coorti esaminate, la fascia combinata d’età modale passa
da quella con il padre dai 30 ai 34 anni e la madre più giovane (un
quarto delle coppie), a quella con padre dai 25 ai 29 anni e la madre più
giovane (30% per gli uomini nati negli anni ’40, 27% negli anni ’50, e
19% negli anni ’60). Nelle coorti più giovani aumenta il peso relativo
delle coppie coetanee che hanno il secondo figlio dai 30 ai 34 anni
(6,5% per gli uomini nati nella generazione degli anni ’50, 13% per
quelli degli anni ’60).
Per quanto riguarda la partecipazione lavorativa e l’attività svolta,
dall’indagine non si riesce a ricostruire completamente la biografia
lavorativa di entrambi i coniugi e a correlarla congiuntamente. Si
conosce però nel dettaglio la prima attività lavorativa e quella dieci anni
dopo la prima, e le interruzioni e riprese di attività, con l’indicazione
della motivazione. Abbiamo quindi ricostruito l’attività lavorativa
nell’anno successivo alla nascita del primo figlio, mantenendo
l’indicazione di un’eventuale interruzione lavorativa proprio a causa
della nascita del primo figlio.
Le fasce di attività lavorativa, oltre a quella dell’inattività che
comprende sia disoccupati che casalinghe, sono quattro e separano il
gruppo degli operai, da quello dei lavoratori in proprio o soci di
cooperativa, a quello degli insegnanti, impiegati o quadri, a quello dei In particolare, se nell’anno successivo alla nascita del primo figlio il
genitore risultava non
lavorare, ma vi era l’indicazione di un’interruzione lavorativa - seguita da una
ripresa - dichiarata
come dovuta proprio all’evento della nascita, abbiamo indicato come attività
lavorativa quella
precedente e indicato in una variabile a parte l’interruzione temporanea
dell’attività.
dirigenti liberi professionisti e imprenditori. Per le coppie il riferimento
è sempre all’attività maschile, ma i gruppi sono scomposti a seconda che
la partner lavori o meno.
Queste variabili riflettono verosimilmente un “puro” effetto
reddito. Se l’andamento per status socio-economico delle famiglie è
ipotizzato ad “U”, gli operai dovrebbero avere una fecondità più alta
della classe intermedia di insegnanti e impiegati, ma tale effetto
potrebbe già essere assorbito da una più bassa età alla prima nascita e
dall’effetto del titolo di istruzione.
L’andamento delle curve di sopravvivenza per l’età al secondo
figlio (non mostrate qui) ricalca quello del titolo di istruzione, al quale
la professione è altamente correlata: uomini istruiti e con elevate
posizioni professionali transitano meno e più tardi verso il secondo
figlio; all’altro estremo, si trovano le transizioni più frequenti e più
veloci dei padri in condizione operaia.
4.3 - Un approfondimento con un’analisi multivariata
Dopo il quadro descrittivo presentato nel paragrafo precedente,
approfondiamo ora l’analisi della fecondità degli uomini e quella delle
coppie (con la combinazione delle caratteristiche congiunte della
coppia) applicando un modello di regressione multipla (per dettagli sul
modello si veda l’appendice) sulla propensione (o “rischio” in
linguaggio più tecnico) di avere un secondo figlio per coppie che ne
avevano già avuto uno. Le variabili inserite nel modello, delle quali
viene stimato l’effetto di ognuna, al netto di tutte le altre, sono le stesse
introdotte nel paragrafo precedente. I risultati del modello sono riportati
dettagliatamente in appendice.
La presenza di un modello culturale nel Meridione che prevede una
quasi universale propensione delle coppie ad avere almeno due figli
sembra essere qui nel complesso confermata. La transizione al secondo
figlio risulta infatti molto più comune al Sud che altrove (Tavola. 4.1),
ed inoltre nel Sud sono poche le variabili a presentare un effetto
significativo, indicando una progressione al secondo figlio più
generalizzata e socialmente indifferenziata rispetto al Nord-Centro.
L’unico chiaro fattore rilevante di contenimento (in termini di rinuncia
e/o di posticipazione dei tempi) sembra essere un elevato titolo di studio
della moglie. Tale risultato potrebbe essere letto come segnale
dell’inizio di un processo di ridimensionamento di tale modello,
soprattutto tenendo conto di un effetto negativo della generazione di
appartenenza che corrisponde ad una riduzione della progressione al
secondo figlio per le generazioni più giovani.
Nel Nord-Centro Italia la situazione è invece molto più varia. Il
livello di istruzione maschile evidenzia un effetto ad “U”: rispetto ai
padri con la sola istruzione bassa, hanno un rischio minore di avere il
secondo figlio quelli con un titolo d’istruzione intermedio, mentre hanno
un rischio maggiore i laureati (Tavola. 4.1). L’andamento ad “U” viene
confermato anche quando si considera l’azione combinata del livello di
istruzione dei due coniugi (Tavola. 4.2). Le coppie con uno stesso
livello d’istruzione intermedio presentano un rischio più basso rispetto
alle coppie con titolo basso, mentre le coppie con entrambi i partner
laureati hanno un rischio più alto (indicando probabilmente un effetto
“reddito” di coppia particolarmente forte, che pone questi risultati in
linea con quelli ottenuti da studi empirici negli altri paesi europei, ad es.
si cfr. Krayenfeld 2004). Quello che è interessante vedere è che quando l’uomo è laureato e la donna ha un titolo di studio inferiore l’effetto non
è statisticamente significativo, mentre quando la donna è laureata e fa un
figlio con un partner con un titolo di studio più basso, l’effetto fa
diminuire significativamente il rischio di avere il secondo figlio.
Anche l’effetto delle combinazioni delle tipologie lavorative
maschili con l’attività lavorativa femminile è particolarmente
interessante. Le coppie dove la donna non lavora hanno un più elevato
rischio di avere il secondo figlio, ma questo è più elevato – e per di più
permane anche se la donna lavora- per gli uomini che hanno un’elevata
posizione lavorativa nell’anno successivo alla nascita del primo figlio,
cioè dirigenti, imprenditori e liberi professionisti, e anche i lavoratori in
proprio. Questi risultati mettono in evidenza l’importanza del lavoro
maschile per la transizione al secondo figlio nel Nord-Centro.
L’interruzione della propria attività lavorativa ha effetto solo se è la
donna ad aver interrotto (oltre il normale congedo di maternità) e poi
ripreso la sua attività lavorativa, ma questo ha un effetto fortemente
negativo sul rischio di avere un secondo figlio. Quindi al centro-nord,
se donne che lavorano devono interrompere la propria attività a causa
del primo figlio, più difficilmente, una volta tornate nel mercato del
lavoro, avranno il secondo.
Infine, i padri che hanno avuto il primo figlio più tardi sembrano
avere un rischio più basso di avere il secondo figlio. Per interpretare
l’effetto dell’età risulta qui cruciale l’interazione tra l’età al primo figlio
e la durata dell’intervallo tra il primo e il secondo. Tale interazione è
infatti forte e significativa, con un effetto che non è proporzionale: il
“time-squeeze”, cioè la necessità di accorciare gli intervalli fra una
nascita e l’altra alle età feconde più elevate, sembra quindi evidente
anche nei modelli di fecondità maschile.
Se si considera l’azione congiunta dell’età dei due coniugi, nel
modello con i soli effetti principali (risultati non riportati) per tutte le
combinazioni di età delle coppie, il rischio di avere un secondo figlio è
minore rispetto alla coppia di riferimento, che è una coppia dove il
primo figlio è messo al mondo precocemente. Nel modello con le
interazioni (significative quelle di tutte le combinazioni di età dell’uomo
e della donna che sperimentano il primo figlio oltre i 30 anni) l’effetto
di diminuzione dell’età elevata dei partner al primo figlio si delinea con
più chiarezza nella significatività dei gruppi di età dove la donna ha
avuto un primo figlio oltre i 35 anni. L’effetto della variabile principale,
inserita nel modello, perde infatti di significatività o addirittura cambia
di segno, a causa probabilmente proprio del “time-squeeze”, cioè della
necessità di accorciare gli intervalli fra una nascita e l’altra, alle età
feconde più elevate, per via dell’approssimarsi della fine del periodo
riproduttivo femminile. Le interazioni mettono in evidenza che un anno
in più di durata dell’intervallo tra primo e secondo figlio, quando
entrambi i genitori avevano oltre 35 anni alla prima nascita, riduce
comunque il rischio di avere un secondo figlio (si veda il grafico 2b del
precedente paragrafo).
4.4 - In sintesi
Il lavoro si proponeva di indagare gli effetti delle caratteristiche
maschili e di coppia sulla transizione al secondo figlio.
Dai risultati dei modelli stimati, relativi alla transizione al secondo
figlio, è emerso con forza che le caratteristiche (in particolare
l'istruzione e la tipologia lavorativa) dei padri sono significative per la
propensione ad avere il secondo figlio, e il loro effetto permane anche
quando sono esaminate congiuntamente a quelle femminili.
Si è evidenziato un diverso modello di fecondità tra centro-nord e
sud-isole nell’analisi delle caratteristiche congiunte della coppia. In
generale, gli effetti relativi sia all’età che all’istruzione e alla condizione
lavorativa dei partner sono meno significativi per il modello relativo alle
coppie residenti al sud d’Italia o nelle isole, rispetto alle coppie del
centro-nord, coerentemente con il fatto che il secondo figlio al sud è
(attualmente) una scelta più comune e quindi anche più indifferenziata
(cioè che dipende meno da caratteristiche specifiche delle coppie). Una
più bassa fecondità – qui quindi una più bassa probabilità di transitare al
secondo figlio – si riscontra significativamente solo nelle coppie
meridionali con donne più istruite, indipendentemente dalle
caratteristiche maschili. Solo per le coppie residenti al centro-nord
emerge nettamente un effetto dell’età della coppia che tanto è più
elevata tanto porta più raramente a transitare verso il secondo figlio, o
invece semmai a farlo anche più velocemente rispetto al primo per
problemi legati all’imminente infertilità femminile per le madri che
hanno avuto il primo figlio sopra i 35 anni. Per quanto riguarda
l’istruzione invece c’è un netto effetto ad “U”, con una propensione ad
avere il secondo figlio più bassa per le coppie d’istruzione intermedia, e
più alta per quelle con bassa istruzione o al contrario con un’omogamia
di alta istruzione.
I risultati ottenuti rispetto all’effetto del lavoro sono in linea più con
le teorie microeconomiche, che esaltano il ruolo dell'effetto del reddito
del marito sulla transizione al secondo figlio, che con quelle che
ipotizzano che una maggiore simmetria di genere incoraggi la nascita
del secondo figlio. Infatti, permane un forte effetto positivo per le
coppie in cui la donna non lavorava nell’anno successivo alla prima
nascita e questo effetto è più forte se il padre aveva un lavoro di tipo
elevato (libero professionista, dirigente o imprenditore) e soprattutto se
era lavoratore in proprio.
D’altra parte se le madri che lavoravano hanno dovuto interrompere
la propria attività a causa del primo figlio, più difficilmente, una volta
tornate nel mercato del lavoro, avranno poi il secondo figlio.
Per poter completare il quadro delineato in questo studio, sarebbe di
grande interesse mettere in relazione le caratteristiche della coppia in
termini di background personale e partecipazione lavorativa, insieme
alla divisione dei compiti domestici e di cura, con la transizione al
secondo figlio. E’ questo il tassello che purtroppo manca. Allo scopo
sarebbe necessario disporre di variabili tempo-dipendenti sulla carriera
lavorativa di entrambi i partner (con l’indicazione dettagliata
dell’impegno lavorativo in termini di responsabilità e di ore); sul ricorso
da parte di entrambi i genitori ai congedi parentali, ma anche allo stesso
tempo sul coinvolgimento, durante il ciclo di vita (ad esempio nella fase
della vita di coppia senza figli e poi dopo ogni figlio) di entrambi i
partner nelle attività domestiche e nelle attività di cura dei figli,
congiuntamente a informazioni sul ricorso ad aiuti esterni a pagamento
sia per le attività domestiche che per quelle di cura dei figli.
L’approccio seguito dell’analisi della transizione al secondo figlio
secondo le caratteristiche maschili e secondo le caratteristiche della
coppia – reso possibile dall’adeguata numerosità del campione delle
coppie nell’Indagine Multiscopo – è in generale difficile da replicare su
altre fonti, vista la mancanza di dati sulle coppie relativa alle indagini
specifiche sul comportamento fecondo. I risultati incoraggiano invece
un approfondimento della ricerca in questa direzione e, sicuramente,
stimolano la produzione di dati che considerino con maggiore attenzione
le caratteristiche di entrambi i partner.
5.1 - Le famiglie numerose
A partire dagli anni ’60, come è noto, si è assistito ad una
generalizzata diminuzione della fecondità: in Italia, tra il 1960 e il 1997
le nascite totali sono diminuite del 41 per cento. Per le nascite di terzo
ordine o di ordine superiore al terzo, su cui concentreremo la nostra
analisi, la contrazione è stata addirittura del 79 per cento (Consiglio
d’Europa, 2003). La forte riduzione delle nascite di ordine elevato ha
caratterizzato anche paesi come Grecia, Portogallo e Spagna. Al
contrario, in alcuni paesi del Nord Europa, quali Finlandia, Svezia e
Lussemburgo, la percentuale di nascite di terzo e quarto ordine è tornata
ad aumentare già a partire dalla seconda metà degli anni ’70 (Dumont,
2004), con una significativa coincidenza tra aree della ripresa della
fecondità e quelle di maggiore progresso sociale e di più avanzate
politiche familiari. La Francia si colloca in una posizione intermedia:
qui dal 1962 al 1999 le famiglie con esattamente tre figli sono rimaste
costanti, mentre a declinare sono state le famiglie con più di tre figli
(Toulemon, 2004 su dati di censimento).
I discorsi sulla bassa fecondità in Italia omettono dunque di
specificare che quella in atto è soprattutto una erosione “dall’alto” della
Il capitolo è a cura di Ester Rizzi
Convenzionalmente si definisce numerosa la famiglia con tre figli o più e
molto numerosa la
famiglia con più di tre figli (Pirus, 2004). Da un punto di vista qualitativo,
non considereremo
nel presente lavoro le famiglie numerose con capofamiglia immigrato, né quelle
che risultano da
famiglie ricomposte dopo la separazione o il divorzio di uno dei coniugi.
Inoltre, con il termine
famiglia ci si riferirà qui al nucleo familiare.
5. Tre figli o più
La
fecondità – quella “dal basso” dipenderebbe dall’aumento delle donne
senza figli (Dumont G.-F., 2004). Le implicazioni per la struttura
demografica sono importanti, dal momento che è il passaggio al terzo e
al quarto figlio che garantisce in una popolazione il raggiungimento
della soglia di rinnovamento, che è di 2,1 figli per donna; vale a dire, è
la presenza di famiglie numerose, in misura tale da compensare il deficit
riproduttivo di celibi, nubili, coppie senza figli e coppie con un solo
figlio, che permette ad una società di riprodurre se stessa.
La rilevanza delle famiglie numerose non è solo d’ordine
demografico. La dimensione familiare diviene variabile cruciale anche
per orientare le politiche familiari, dal momento che all’aumentare del
numero di figli cresce la povertà, sia in termini monetari che in termini
di condizioni oggettive di esistenza e di povertà percepita (Jeandidier,
Reinstadler, 2004). Le differenze all’interno del contesto europeo sono
importanti. In Finlandia e nei Paesi Bassi lo svantaggio delle famiglie
numerose è ridotto o inesistente, mentre è importante in Portogallo,
Grecia, Spagna e Italia (Jeandidier, Reinstadler, 2004). Lo svantaggio
relativo dei figli in famiglie numerose si ripercuoterebbe sulle
opportunità della vita adulta: Dalla Zuanna (2004), sulla base dei dati
dell’Indagine Multiscopo, evidenzia che i nati nelle regioni del Nord-
Ovest con genitori con basso reddito hanno un livello di istruzione
inversamente influenzato dalla dimensione della fratria.
Ai fini delle politiche familiari solitamente si rileva l’incidenza di
famiglie numerose con figli conviventi – celibi o nubili o comunque non
viventi con un proprio nucleo – di cui almeno uno minore, identificando
così potenziali situazioni di vulnerabilità. In Italia tali famiglie
costituiscono circa il 15 per cento delle famiglie con figli (di cui almeno
uno minore). Il loro peso per area geografia è ineguale. Secondo i dati
della Multiscopo, è il Sud a presentare le più ampie quote di famiglie
con tre figli o più. Al Nord, l’area del Nord-Est si caratterizza per una
presenza di quasi due punti maggiore rispetto al Nord-Ovest e all’Italia
Centrale (fig. 5.1).
In linea con gli altri studi del
presente volume, e utilizzando i dati dell’Indagine Multiscopo, ci
concentreremo sulle caratteristiche paterne associate alla scelta di
un’alta fecondità. Ne scaturiranno interessanti differenze con le famiglie
numerose francesi, qui adottate a riferimento.
5.2 - Chi sono i padri e le madri di famiglia numerosa
Se si è interessati ai tratti socio-demografici caratterizzanti la
famiglia numerosa si dovranno considerare coppie che hanno
verosimilmente concluso la propria vita riproduttiva, che qui
ipotizziamo avere più di 40 anni. Se non si operasse in tal modo, e cioè
se si esaminassero anche individui di età inferiore, tra i padri giovani vi
sarebbero in prevalenza coloro che arrivano a realizzare precocemente la
loro fecondità, con un evidente effetto di selezione e, conseguentemente,
distorsione del quadro rappresentato. Inoltre, per delimitare due gruppi
decennali di generazioni si considereranno uomini e donne con età
inferiore ai 60 anni all’epoca dell’Indagine Multiscopo.
Passiamo così ad analizzare le famiglie numerose secondo le
caratteristiche di istruzione e di condizione nella professione,
considerando le sole coppie i cui partners hanno tra 40 e 59 anni e
confrontando il caso italiano con quello francese. Rispetto all’istruzione,
Pirus (2004) rileva un andamento ad U per gli uomini e le donne
francesi tra 40 e 59 anni, con una concentrazione delle famiglie
numerose tra i meno istruiti, più basse percentuali per i livelli di
istruzione medi e, poi, di nuovo, un aumento della percentuale di
famiglie numerose ai livelli alti di istruzione. Lo stesso andamento non è
riscontrabile, in Italia. In special modo al Sud la percentuale di famiglie
numerose è nettamente e inversamente legata all’istruzione paterna (tav.
5.1). Anche l’istruzione materna è associata negativamente all’alta
fecondità e, di nuovo, un’influenza netta si osserva soprattutto al Sud
(tav. 5.2). Al Nord e al Centro gli andamenti sono simili, seppure più
attenuati nei livelli e nei cambiamenti per livelli di istruzione. Si nota
poi, appena accennato, un leggero andamento ad U dell’istruzione
materna sulla fecondità numerosa al Centro.
In generale prevale una relazione inversa tra fecondità e istruzione.
Se si ripropone però la stessa analisi della tavola 5.1 distinguendo le
generazioni di 40-49 anni e 50-59 anni, si osserva un aumento dei livelli
di istruzione dei padri di famiglia numerosa passando dalla coorte più
anziana a quella più giovane di oltre 9 punti percentuali, contro i 3 punti
osservati per altre tipologie familiari (tabella non mostrata).
Con l’istruzione, un’altra tradizionale variabile di status sociale è la
posizione nell’occupazione. In Francia la posizione nel lavoro
conterebbe per le donne ma non per gli uomini (Pirus, 2004). Due terzi
delle donne francesi con tre figli o più sono prive di occupazione e lo
sono in maggioranza già alla nascita del primo figlio. Al contrario, le
donne con due figli risultano occupate nell’80 per cento dei casi. Tra le
occupate, salendo nella gerarchia della posizione nella professione, la
proporzione di madri con tre figli diminuisce leggermente. In
particolare, le donne quadro o con posizioni intermedie sono
maggiormente orientate ad una dimensione familiare a due figli. Per gli
uomini francesi, invece, la professione non pare associata alle scelte di
fecondità, non rilevandosi differenze significative nella proporzione di
famiglie numerose tra i quadri, gli operai e le altre categorie
professionali. Si sottolinea, quindi, come, in Francia, tra i quadri siano
soprattutto le donne a dover operare delle rinunce nelle scelte di
fecondità.
I dati italiani dell’Indagine Multiscopo confermano quanto già
osservato per le famiglie francesi, con le madri di famiglie numerose più
spesso prive di occupazione (circa il 60 % contro il 40% delle altre
tipologie familiari) in tutte e tre le aree geografiche, e in maggioranza si
tratterebbe di donne che non hanno mai lavorato. A differenza del caso
francese, però, dove le percentuali di famiglie numerose variavano
leggermente da una professione all’altra, qui le diminuzioni appaiono
drastiche (tav. 5.3). Al Nord, dal 15% di famiglie numerose tra le
imprenditrici e le libere professioniste, si passa al 13% delle operaie e
all’8% delle impiegate e delle insegnanti. Al Sud sono le insegnanti e le
impiegate a registrare la più bassa percentuale di famiglie numerose
relativamente alle altre categorie professionali: il 24% contro una
percentuale superiore al 40%. Contrariamente alle famiglie francesi, poi,
dove la professione del padre non influisce sulla probabilità di
realizzazione della famiglia numerosa, in Italia, le famiglie numerose
più frequentemente si realizzerebbero tra i padri che all’inizio della loro
carriera erano imprenditori o liberi professionisti. Al Centro la
probabilità di avere una famiglia numerosa è alta anche per i dirigenti e i
quadri; al Sud la probabilità è elevata anche tra gli operai (tav. 5.4).
In prevalenza di istruzione bassa – seppure vi sia in atto un
cambiamento generazionale – soprattutto imprenditori e liberi
professionisti, ma anche dirigenti e quadri al Centro e operai al Sud:
questo, in sintesi, il profilo dei padri di famiglia numerosa.
5.3 - Un approfondimento
In un’ottica di tipo esplicativo diviene d’interesse lo specifico
contributo dei singoli fattori di influenza sulla probabilità di
realizzazione di una famiglia numerosa. L’istruzione, a parità di
professione, verosimilmente, influisce negativamente sulle scelte di
fecondità attraverso il processo di emancipazione e di investimento in
capitale umano; mentre la professione, a parità di istruzione, avrà un
effetto positivo suo proprio sulla fecondità in termini di disponibilità
economiche create o di grado di flessibilità lavorativa.
Ricorreremo ad un modello logistico di regressione multipla per la
probabilità di avere tre figli o più e faremo riferimento alle coppie che
hanno concluso la loro vita riproduttiva e che hanno avuto almeno un
figlio. L’enfasi sarà posta sulle caratteristiche dei padri, mentre quelle
delle madri avranno funzione di controllo per la stima dell’effetto delle
prime, cioè si cercherà di determinare l’influenza dell’istruzione e della
professione paterna al netto dell’istruzione e della professione materna.
Altre variabili sono introdotte nel modello con funzione di controllo o
per spiegare meglio, attraverso la loro natura interveniente, la relazione
tra posizione sociale e fecondità. Tra queste variabili vi è l’età al
matrimonio, che se precoce favorisce la realizzazione di una famiglia
più numerosa lasciando alla biologia un intervallo riproduttivo più
ampio per realizzare le proprie scelte di fecondità. Posizione sociale ed
età al matrimonio sono in genere fortemente legate e si rende necessario
scindere i due effetti sulla fecondità.
Un’altra variabile d’interesse è la religiosità dei partners
-
nell’Indagine Multiscopo rilevata in termini di partecipazione dei
partners alle funzioni religiose. Un più forte spirito religioso potrebbe
essere tipico delle categorie sociali più basse, così che, nuovamente, è
utile misurare l’effetto della posizione sociale al netto della religiosità
attraverso un’analisi multivariata. In letteratura, sembrano esistere
posizioni contrastanti circa un possibile effetto della religiosità sulla
fecondità. Già nel 1978 Westoff e Jones osservavano una convergenza
della dimensione familiare dei cattolici e dei non cattolici negli Stati
Uniti, come conseguenza di un allontanamento di molti cattolici nei
confronti degli insegnamenti della Chiesa in materia di contraccezione.
Al contrario, e più recentemente, Dumont (2004) sostiene che tra cui i
cattolici praticanti la famiglia numerosa resterebbe una scelta
relativamente diffusa. Crediamo, seguendo Westoff e Jones, che il
processo di adesione dei cattolici alla cultura contraccettiva prevalente
sia continuato fino ai giorni nostri in tutti i paesi occidentali; tuttavia,
questo potrebbe non essere in contraddizione con una maggiore
probabilità di realizzazione di famiglie di grandi dimensioni tra i più
religiosi.
In ultimo, la generazione di appartenenza dei padri è un’importante
variabile di controllo: le generazioni più anziane posseggono in genere livelli di istruzione più bassi e l’effetto dell’istruzione sulla fecondità
potrebbe sottendere un effetto generazionale.
In una prospettiva esplicativa dovremo porre attenzione a che le
variabili indipendenti e portate a spiegazione della dipendente si
caratterizzino per una antecedenza causale. La professione presa in
esame sarà la “prima professione”, misurata prima dell’arrivo del primo
figlio. Solo per la frequenza ai riti religiosi l’informazione colta è quella
relativa al momento dell’intervista. Si ipotizza perciò l’invarianza della
religiosità degli intervistati.
Prima di procedere alla stima del modello multivariato si ricorda
che forti correlazioni tra variabili possono procurare problemi alla stima
dei parametri. É il caso del livello di istruzione dei due coniugi per cui
la misura di correlazione è pari a 0,6. In alternativa ai livelli di
istruzione, la variabile utilizzata sarà, quindi, una combinazione dei due.
Meno problematica la stima del rispettivo contributo della posizione
nella professione dei due coniugi, il cui grado di correlazione non è
elevato, quindi entrambe le variabili potranno essere inserite nel
modello. Tanto più che in questa sede ci accontentiamo di controllare la
professione materna nella dicotomia “mai occupata” e “già occupata”.
I principali risultati di stima del modello logistico sono esposti in
appendice e descritti di seguito. Dalle analisi non risulta alcun effetto
combinato dei livelli di istruzione dei due coniugi sulla probabilità di
avere una famiglia numerosa. Abbiamo inserito allora nel modello il livello di
istruzione in altra forma, e cioè come sola istruzione paterna
sebbene in questo modo l’effetto stimato includa in parte anche quello
della variabile “istruzione materna” per la forte correlazione tra le due
variabili. Si nota nel Nord Italia l’andamento ad U già riscontrato per le
famiglie francesi (meglio sarebbe dire in questo caso a J rovescita): la
probabilità di realizzare una famiglia numerosa sarebbe relativamente
più alta tra chi ha un livello di istruzione basso rispetto a chi ha un titolo
medio-alto ma, soprattutto, rispetto a chi ha un titolo medio (i risultati,
statisticamente significativi, non sono mostrati).
Quanto alla posizione nella professione, imprenditori e liberi
professionisti hanno una maggiore probabilità di realizzare una famiglia
numerosa rispetto agli operai. Se questo è riscontrato al Nord e al
Centro, al Sud il risultato è concorde ma non significativo.
Altri risultati hanno natura secondaria rispetto all’obiettivo precipuo
di questa analisi incentrata sullo status sociale paterno, ma non per
questo sono meno rilevanti. Il modello multivariato conferma l’effetto
generazionale dell’analisi univariata, con una maggiore propensione
della generazioni più anziane di padri a realizzare una famiglia
numerosa; questo a parità di altre condizioni, in particolare di scolarità
raggiunta. Ancora, dal modello multivariato si evince per il Nord Italia
che le donne che non sono mai state occupate hanno una probabilità
maggiore di realizzare una famiglia numerosa. Il risultato, già
evidenziato dall’analisi bivariata, sarebbe qui vero a parità di istruzione
e di professione paterna. L’essere casalinga con maggiore probabilità
sembra portare a realizzare una famiglia numerosa anche al Centro e al
Sud, tuttavia i risultati non sono significativi. Ancora, la religiosità
produce l’effetto atteso sulla probabilità di avere una famiglia
numerosa: questa sarebbe più alta per coloro che più assiduamente
partecipano ai riti. Tuttavia, ciò non si osserva al Sud e al Centro il
risultato non è significativo.
In ultimo, a partire dal modello base riportato in appendice, si è
introdotta una variabile volta a rilevare l’effetto del contesto di
residenza in termini di dimensione del comune (centro metropolitano,
periferia metropolitana, tra 2.000 e 10.000 abitanti, tra 10.000 e 50.000,
oltre 50.000, quest’ultima presa a categoria di riferimento). Con la stima
del nuovo modello gli effetti delle altre variabili non mutano in modo
sostanziale. Risulta però, nel Nord Italia, un effetto della nuova variabile
sulla probabilità di avere una famiglia numerosa, in particolare, risiedere
in un comune tra 2.000 e 10.000 abitanti e, soprattutto, in un comune di
dimensioni fino a 2.000 abitanti, è associato ad una maggiore
propensione a realizzare una famiglia numerosa (i risultati relativi a
quest’ultima variabile non sono mostrati).
5.4 - In sintesi
Nel nostro studio sulla relazione tra posizione sociale e alta
fecondità in Italia si è evidenziato il ruolo della professione paterna e
quello dell’istruzione. Il fatto che siano gli imprenditori e liberi
professionisti a realizzare con maggiore probabilità una famiglia
numerosa induce ad avanzare due tipi di spiegazione: da una parte, la
maggiore disponibilità economica di questi darebbe maggiore sicurezza
alla coppia che desidera tre figlio o più, che più probabilmente realizza i
propositi di fecondità già orientata ad un elevato numero di figli;
dall’altra, la flessibilità nella gestione del tempo che un lavoro
autonomo comporta permetterebbe una maggiore partecipazione paterna
al ménage familiare e alla cura dei figli. La seconda ipotesi, tuttavia, non
trova conferma nello studio sulla paternità nelle famiglie numerose
incluso in questo volume (si veda il capitolo 8): se operai e impiegati
realizzano con minore probabilità una famiglia numerosa, si occupano
poi dei figli più di imprenditori, professionisti e quadri, sia in forma di
cure serali che di gioco. Sembrerebbe, quindi, soprattutto la disponibilità
economica degli imprenditori, e non la maggior flessibilità nella
gestione del tempo, a pesare nella scelta della dimensione familiare.
L’effetto della professione sulla fecondità osservato in Italia e non in
Francia mostrerebbe l’efficacia delle politiche familiari d’oltralpe: i
padri francesi rispetto agli italiani sono meno condizionati dalla loro
capacità di reddito nelle scelte di fecondità perché generose sono le
allocations familiales di cui beneficiano.
L’istruzione dei padri, nel Nord Italia, conterebbe nelle scelte di
fecondità secondo un andamento ad U, anzi, a J rovesciata: i livelli
bassi, ma anche quelli alti (seppur in minore misura) favorirebbero la
formazione di una famiglia numerosa rispetto a livelli medi di
istruzione. I risultati di ulteriori analisi che distinguono per anno di
nascita inducono a pensare che possa esservi un cambiamento
generazionale in atto, con una maggiore propensione a realizzare
famiglie numerose per i padri più giovani rispetto ai più anziani con
livelli alti di istruzione, anche se questa ipotesi dovrebbe essere meglio
vagliata. Quanto ai meccanismi sottostanti l’effetto dell’istruzione, vi
potrebbe essere un effetto-reddito non pienamente colto dalla variabile
“professione”. L’istruzione elevata potrebbe anche riflettere la maggiore
propensione dei padri ad adottare comportamenti di organizzazione
familiare di tipo simmetrico, cogliendo pure più prontamente politiche
con lo stesso orientamento, e incentivando così la fecondità. Sulla base
del modello Nord-Europeo, è possibile infatti ipotizzare che tutto quanto
faciliti alle donne la conciliazione del lavoro con la famiglia– politiche
di conciliazione, cultura di gender equality e analoghe politiche–
aumenti la fecondità e in particolare il passaggio al terzo figlio.
A2.1 - La strategia del rinvio
In Italia, e più in generale nei paesi occidentali il matrimonio viene
progressivamente rinviato. Secondo i dati ufficiali Istat, l’età media
femminile al primo matrimonio è passata da meno di 24 a più di 27 anni
tra il 1975 ed il 1998, e nello stesso periodo l’età media maschile è
passata da circa 27 a oltre 30 anni. Tra i nati negli anni ’40 solo il 15%
dei maschi è arrivato in condizione di celibe ai 35 anni, mentre, per i
nati negli anni ’60, la quota di chi arriva a tale età senza aver ancora
trovato moglie è vicina ad uno su tre. Ancor più accentato è il fenomeno
nei contesti urbani.
Sposarsi dopo i 35 anni è diventata quindi negli ultimi decenni una
scelta sempre più comune tra gli uomini italiani. Diventa quindi
particolarmente interessante cercare di capire chi sono gli uomini che
adottano tale comportamento, con chi si sposano e quali conseguenze si
ottengono sulle scelte riproduttive.
Le ipotesi che formuliamo partono dalla considerazione che, a
differenza delle donne, un uomo possa pensare di poter posticipare
anche oltre i 35 anni l’entrata in unione senza rischi di compromettere la
possibilità di aver figli. Per molti uomini potrebbe allora essere
Il capitolo è a cura di Alessandro Rosina, Silvano Vialetti, Romina Fraboni
1 I dati del censimento del 2001 evidenziano come in molte città medio-grandi
del nord-centro a 35
anni quasi la metà degli uomini risulti ancora celibe.
Approfondimento 2 - “Meglio tardi?
A2.2 - Caratteristiche degli uomini che posticipano
Iniziamo quindi analizzando le caratteristiche degli uomini che si
sposano in età (relativamente) tardiva. Utilizziamo per l’analisi un
semplice modello di regressione logistica con variabile dipendente la
probabilità di sposarsi in età 35-39 rispetto all’essersi sposati
precedentemente. I fattori esplicativi inseriti sono: il livello di istruzione
proprio, il livello di istruzione del padre, il numero di fratelli, la
ripartizione territoriale, il comune di residenza, l’essersi trasferiti per
lavoro.
I risultati ottenuti mostrano come, al netto delle variabili inserite,
risulti importante soprattutto la combinazione tra proprio livello di
istruzione e quello del padre. In particolare, all’aumentare del titolo di
studio aumenta la propensione a posticipare il matrimonio, ma -
coerente con l’ipotesi formulata nel precedente paragrafo - ciò vale
soprattutto per chi arriva ad alti livelli di istruzione partendo da una
famiglia di origine con status sociale medio-basso2. Delle altre variabili
inserite nel modello, l’unica ad avere un effetto significativo è la
generazione di appartenenza che, al netto delle altre covariate, segnala
un aumento della propensione alla posticipazione nelle generazioni più
recenti.
A2.3 - Caratteristiche della partner
Passiamo ora a trattare le caratteristiche della partner femminile in
relazione all’età al matrimonio maschile. Prendiamo in particolare
considerazione l’età ed il livello di istruzione della moglie. In figura 1
viene riportata la distribuzione dell’età al matrimonio della donna in
funzione dell’età al matrimonio del marito3. Si nota chiaramente come
al crescere dell’età di lui aumenti notevolmente la differenza di età tra i
coniugi: solo il 13% di chi si sposa in età 35-39 sposa una coetanea.
Mentre, viceversa, per la grande maggioranza delle donne che si
sposano in età 35-39 la scelta è quella di un partner coetaneo o più
anziano. Gli uomini di 35-39 anni, sia rispetto ai pari genere che si
sposano più precocemente, sia alle pari età di genere opposto,
evidenziano una forte propensione a sposare partner di più giovane età. Ciò è del tutto coerente con quanto ottenuto nell’approfondimento di Allegra et al.
in questo
stesso volume. In tale capitolo si sono analizzati i giovani di età 30-34 in
funzione della durata di
permanenza nella famiglia di origine. Qui il focus è sull’età tardiva al
matrimonio.
Se questo può sembrare un risultato per certi versi scontato, ciò
nonostante fornisce la conferma empirica del fatto che per il mondo
maschile la posticipazione del matrimonio favorisce la possibilità di
ottenere una partner molto più giovane, con potenziali conseguenza
positive sulla possibilità di recupero sulla formazione della famiglia,
come vedremo nel prossimo paragrafo. Strategia che invece è in larga
misura preclusa alle donne, le quali nel posticipare dopo i 35 anni il
matrimonio per investire precedentemente in formazione e per
raggiungere soddisfacenti obiettivi professionali, sono molto spesso
costrette a rinunciare a realizzarsi nella dimensione materna.
La “convenienza” della strategia maschile di posticipazione
riguarda anche il profilo culturale della compagna di vita che si riesce ad
incontrare sul mercato matrimoniale in età tardiva. In figura A2.2 si nota
chiaramente come la probabilità si sposare una donna con basso livello
di istruzione diminuisca in modo rilevante all’aumentare dell’età di lui,
mentre aumenta invece la probabilità di sposare una moglie laureata.
Ci chiediamo infine se la strategia della posticipazione maschile
possa avere conseguenze negative in termini di estensione della famiglia
che si va a formare. Per farlo ricorriamo ancora ad un modello di
regressione logistica, dove ora la variabile dipendente è la probabilità di
avere almeno due figli rispetto ad averne solo uno o nessuno (Tabella
A2.2). La popolazione considerata è costituita da uomini con livello di
istruzione medio-alto e con mogli di almeno 42 anni al momento
dell’indagine (quindi con vita riproduttiva di coppia che può essere
considerata pressoché conclusa). La variabile esplicativa qui di interesse
è la combinazione tra età dell’uomo e della moglie. Le altre variabili
vengono utilizzate meramente come controllo. La loro azione è
comunque nella direzione attesa: fecondità maggiore al Sud e nei
comuni più piccoli, per chi proviene da una famiglia con titolo di studio
del padre basso e alto numero di fratelli. Interessante considerare inoltre
le differenze di genere in termini di titolo di studio. L’effetto di
un’istruzione elevata è positivo per lui e negativo per lei, ma predomina
sensibilmente quello maschile.
La variabile esplicativa di interesse è, come già sottolineato, la
combinazione di età dei coniugi al matrimonio. Quello che si ottiene è
che la categoria più favorevole in termini di numero di figli è costituita
dalla combinazione: lui più di 35 anni e lei meno di 30. Tale categoria
risulta avere un effetto significativamente più elevato della categoria
composta da sposi entrambi con più di 30 anni ma anche della categoria
di sposi entrambi di età inferiore ai 30 anni (anche se la differenza in
questo caso non risulta statisticamente significativa).
A2.5 - In sintesi
Nel complesso i risultati ottenuti indicano che a posticipare
maggiormente la formazione di una propria famiglia sono soprattutto gli
uomini che partendo da uno status di origine medio-basso raggiungono
elevati livelli di istruzione.
Ci siamo chiesti in questo capitolo se la scelta di posticipare il
matrimonio in età tardiva (oltre i 35 anni) possa rivelarsi per un giovane
uomo una strategia premiante sul piano del mercato nuziale e non. Nell’approfondimento 1 viene mostrato come anche i laureati di elevata
estrazione sociale
posticipano in modo rilevante l’uscita dalla casa paterna. In termini però di
rinvio nella
costituzione di una famiglia prevalgono coloro con estrazione sociale bassa.
APPROFONDIMENTO 2
I risultati empirici presentati sono
consistenti con una risposta. Gli uomini
laureati che rinviano tendono infatti a trovare una partner molto più
giovane e con più elevato livello di istruzione rispetto ai pari status che
si sposano più precocemente. Inoltre formano una famiglia con un
numero di figli non inferiore, a parità di caratteristiche della moglie,
rispetto achi si sposa più precocemente.
Potrebbe costituire tale strategia un punto di equilibrio per la
società italiana, che consenta di conciliare una forte posticipazione con
una fecondità vicina ai livelli di sostituzione? Vista dal punto di vista
maschile sembrerebbe funzionare, in particolare per chi mira ad alti
obiettivi formativi e professionali partendo da un basso status. Dal punto
di vista femminile la lunga permanenza nella famiglia di origine non
sembra essere legata alla mobilità sociale5. Inoltre a parità di
investimento formativo e professionale una donna di 35-39 anni è
certamente penalizzata sia sul mercato matrimoniale sia sulla possibilità
di avere figli rispetto ad una donna di 25-29 anni. La scelta invece, per
una donna di status medio-basso e forte investimento in formazione e
lavoro, di non posticipare e di sposarsi prima dei 30 anni con un uomo
di 35-39 che ha già raggiunto una posizione, potrebbe risultare a sua
volta premiante, in termini di raggiungimento dei propri obiettivi di
realizzazione personale e familiare. Lo scotto da pagare è però una forte
asimmetria di genere sia relativamente all’età ma anche alla condizione
professionale ed economica (la donna agli inizi del suo percorso, il
marito già saldamente avviato nella sua carriera), con implicazioni
psicologiche e di stabilità dell’unione tutte da approfondire, soprattutto
nel caso le ambizioni di realizzazione femminili non trovassero poi
adeguata rispondenza.