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Ateismo e religione tra Cinquecento e Settecento
Seconda parte
di Guido Marenco
«La vitalità del mondo è insita in tutte le cose, si propaga in modo evidente nelle erbe e negli alberi, come se fossero peli e capelli del suo corpo. Anzi, ciò accade inoltre con le pietre e i metalli, come se fossero i suoi i suoi denti e le sue ossa. Pullula anche nelle conchiglie (con i loro molluschi) che vivono attaccati alla terra e alle rocce. Tutti questi enti non vivono tanto di vita propria, quanto della vitalità comune del tutto. Questa vitalità comune sulla terra ha certo molto maggior vigore nei corpi più sottili in quanto essi sono più prossimi all'anima. E' per il suo intimo vigore che l'acqua, l'aria, il fuoco possiedono e vengono mossi dalle loro (specie) viventi. Questa vitalità riscalda e agita di moto perpetuo l'aria e il fuoco anche più della terra e dell'acqua. E infine i corpi celesti, come se fossero il capo o il cuore oppure gli occhi del mondo vegetano al massimo grado. Onde, per mezzo delle stelle, come fossero occhi, diffonde ovunque raggi non solo visibili, ma capaci anche di vedere.»
Marsilio Ficino (De vita coelibus comparanda, III)


Aristotele proibito
Si è accennato nel capitolo precedente al fallimento di tutti i tentativi di presentare una dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio. Va da sé che il termine "fallimento" è opinabile. Appartiene ad un modo di intendere la storia della filosofia come superamento continuo delle idee e delle convinzioni precedenti mediante confutazioni riuscite e nuove elaborazioni. In realtà, si possono ancora incontrare individui persuasi della dimostrazione di Anselmo, o delle cinque vie di Tommaso. Tali convinzioni si distribuiscono nella storia e si trasmettono da una generazione all'altra, sia pure con qualche difficoltà. In ogni epoca successiva ad Anselmo e a Tommaso, è possibile incontrare sostenitori del loro pensiero che rifiutano le confutazioni di Ockham, che esamineremo nel prossimo paragrafo. Uno degli eventi 'che aveva messo temporaneamente in crisi la scuola tomistica era stata la condanna di alcune proposizioni relative ad una presunta "doppia verità" insegnata dai maestri delle arti all'università di Parigi da parte del vescovo EtienneTempier nel 1277. Non era possibile che da un lato si ragionasse, come Aristotele, di eternità del mondo, e dall'altro si presentasse la verità d fede consistente nel dogma della creazione. La soluzione, secondo Tempier, stava nel proibire l'insegnamento di Aristotele. L'argomento impiegato era però di carattere schiettamente aristotelico, centrandosi sul principio di non-contraddizione. Sicché, diventa difficile comprendere come si sia potuto ricorrere a quello stesso principio con l'intenzione di oscurare il suo scopritore, se non rimuovendolo dalla sfera delle argomentazioni consapevoli e delle proposizioni concatenate. Il mistero si svela facilmente. Le autorità ecclesiastiche non vietarono di continuare ad insegnare la logica aristotelica e perfino di ricorrervi. Si proposero unicamente di proibire il filosofo della natura, in particolare l'autore del De coelo. Operazione che non rendeva giustizia alla verità storica ed al diritto di sapere. D'altra parte, il principio funziona ugualmente, non c'è bisogno di richiamarlo come tale. Sembra essere innato nel maggior numero delle menti umane addestrate a cogliere il vero ed il falso nelle proposizioni affermate da chicchesia. Era culminato nella teoria della verità proposta da Tommaso d'Aquino, la corrispondenza intellectus et rei. Sarebbe stato molto più sensato riconoscere che era stato Aristotele a scoprirlo, e provare a rimproverare i suoi seguaci tomisti di incoerenza, risalendo fino allo stesso pensiero di Aristotele. Decidere in modo arbitrario cosa non si poteva insegnare fu una forma di violenza intellettuale e psicologica, realizzata mediante un abuso del potere d'interdizione e di censura. Di fronte all'evento, lo storico può sentirsi in dovere di non prendere immediatamente partito per la libertà d'insegnamento, e di seguire le acutissime riflessioni di alcuni interpreti che lessero l'evento stesso come provvidenziale, seguendo in ciò Proclo ed Hegel. In, realtà, le cose stanno molto più semplicemente. I tomisti erano andati pericolosamente vicini a negare la libertà di Dio. Più dei tomisti l'impavido Sigieri di Brabante, probabilmente la vera pietra dello scandalo, anche se Dante Alighieri decise misteriosamente di collocarlo in Paradiso. La tesi di Tempier era questa: un dio necessitato non sarebbe più libero di rifare il mondo a suo piacimento, o di annichilirlo. Tempier saltava disinvoltamente il capitolo dagli impegni presi da Dio con le creature, il suo popolo, Il che, sotto il profilo di una teologia fondata sulle scritture bibliche, sarebbe la vera eresia. La decisione presa all'inizio e costantemente ribadita, vincola Dio a mantenre la promessa. Altrimenti, sarebbe un ciarlatano. Basti pensare che anche uno scettico come Sesto Empirico si sentì in dovere di offrire la stessa spiegazione: un dio è quello che mantiene le promesse. Posto di fronte al principio della libera e capricciosa onnipotenza di Dio, un teologo realmente coerente avrebbe dovuto affermare che la promessa non consente ripensamenti nemmeno a Dio. Ovvero, che il principio dell'onnipotenza non può essere messo in discussione, ma che l'impegno preso mediante la parola rivelata ha valore vincolante anche per Dio. Allora, tutto sta ad intendersi su quel tipo di promessa si possa ricavare da una retta interpretazione delle scritture. Questione che non coinvolge gli atei, avendo essi deciso che i testi sacri son tutte frottole, e nemmeno i fideisti propensi ad accettare tutto ciò che viene affermato dalle autorità ecclesiastiche, o dalle scritture intese come totalità coerente.

Ockham il terribile
Le stesse idee ritornano anche in presenza di mutamenti importanti nell'organizzazione sociale, tecnica e scientifica delle società.
L'attacco più corrosivo alle posizioni del tomismo domenicano, trascurando Duns Scoto, che non sarebbe affatto da trascurare perché afflitto dal problema di dimostrare l'unicità di Dio e la immacolata concezione di Maria 'madre di Gesù', venne da Ockham, il quale sostenne che la conoscenza astratta non garantisce l'esistenza di ciò che non è percepibile dai sensi. Ockham definì intuitiva la conoscenza concreta delle cose esistenti, le quali sono uniche essendo le specie ed i generi, ossia gli universali, delle costruzioni mentali. Contro l'esistenza dell'universale di specie e di genere, argomentò ai limiti dell'assurdo, asserendo che se Dio avesse annichilito l'universale di un individuo, avrebbe al contempo annichilito tutti gli individui. L'intelligenza non diviene più perfetta mentre conosce di quanto non lo fosse prima di conoscere. Tutto dipende dalla presenza o meno di oggetti intellegibili. Ciò che è vero dell'intelletto lo è anche per le sensazioni. Rifacendosi ad Agostino (De musica), Ockham ritenne che gli oggetti corporei non agissero sull'anima, ma solo sul corpo, e, dato che l'anima veniva considerata presente negli organi sensibili, questa modificazione corporea non le sfuggiva. Il che è sicuramente più esatto che affermare l'impatto immediato della musica sulla psiche, ma non sposta di molto il problema della ricezione musicale.
La più grande lezione di Ockham fu quella di segnalare i rischi che si corrono quando si confonde il linguaggio astratto dei concetti con la realtà. «Non si devono porre una pluralità di cose quando non è necessario.» Ne va della sobrietà del pensiero. Contestò le categorie aristoteliche, in primo luogo quella di quantità, ragionando su un pezzo di ferro che si dilata o si riduce se si mette in un forno, o lo si toglie. Le credenze tomistiche sono così sfidate. Si deve supporre che il numero di accidenti in grado di modificare la forma di un solido metallo è infinita. Si può infatti allungare od accorciare di un pollice, di due, di tre ecc.. Anche sulle qualità trovò da ridire. Di quelle poste da Aristotele - a) le disposizioni; b) le capacità innate; c) le proprietà sensibili, il colore, il gusto, e il colore; d) le forme - egli fece un'analisi radicale, Provò ad eliminare diverse qualità del primo gruppo, ed intervenne chirurgicamente su quelle del quarto tipo, osservando: «Quando una proposizione è vera della realtà, e per renderla vera è sufficiente una sola cosa, allora è superfluo porne due. Ma proposizioni come "questa sostanza è quadrata" e "questa sostanza è rotonda" sono vere della realtà; e una sostanza disposta in questa e quest'altra maniera è del tutto sufficiente alla verità. di essa. Se le parti di una sostanza sono disposte lungo linee rette,, non sono mosse, né si espandono o si restringono, allora è contraddittorio che essa debba essere prima quadrata e poi rotonda. Così l'essere quadrato o rotondo non aggiunge alcunché alla sostanza e alla sue parti.» (Opera theologica)
L'analista logico ed empirico prevale quindi sulle sfrenate fantasie - associazioni mentali - attorno a ciò che potrebbe stare in cielo, tante belle immaginazioni. Belle, bellissime, ma non per questo vere. Il desiderio di Dio non fa esistere Dio se Dio non esiste.
Uno dei bersagli di Ockham diventò la causa finale di aristotelica memoria, piegata dai tomisti ai fini delle proprie speculazioni. Non è detto che ciò che viene da qualcosa, la pianta da un seme, accada per noi umani in termini di provvidenza. A Duns Scoto che aveva tentato una sua dimostrazione dell'esistenza di Dio, un Dio che non fosse solo causa prima, ma ente intelligente e volente in ogni istante su tutto ciò che accade, aveva replicato nei Quodlibeta: «Rispondo che non si può dimostrare, che qualcuno conosca ciò per cui agiscono le cause naturali, e ve le diriga, perché questo (che siano dirette ad un fine da qualcuno che lo conosca) è vero solo per quelle cose che non sono determinate dalla propria natura ad un effetto univoco. ma possono essere mosse diversamente, in uno o altro modo [...] Ad esempio, per una freccia che di suo può dirigersi indifferentemente in alto o in basso, in avanti o all'indietro, si richiede quindi che qualcuno sappia in anticipo a quale obiettivo dirigerla, e ve la indirizzi. [...] Invece, per una causa meramente naturale, che per sua natura è determinata ad un certo effetto, e non ad altro, non si richiede qualcuno che lo conosca in anticipo e ve lo indirizzi - o per lo meno non lo si può concludere con la ragione naturale (in contrapposizione alla fede).»

Ciò che ci tiene in essere: il mistero della conservazione
Affermazioni di questo genere potrebbero indurre a credere in una totale rinuncia alla dimostrazione dell'esistenza di Dio. In realtà, Ockham, come evidenziato nello specchietto qui a fianco, si aggrappò ad un paradigma "conservativo'' che, pur annullando tutte le dimostrazioni precedenti, non rinunciava completamente alla via della dimostrazione. Ciò che ci mantiene in vita, insomma, può essere il papa o l'imperatore, la terra messa a coltura o il vicino di casa che dona verdura e frutta fresca. Ciascuno con la propria azione a distanza, o con la propria azione ravvicinata, aiuta a conservarci. Ockham vedeva la luce ed il calore del sole attraversare il "vuoto" siderale per arrivare sulla terra con una feconda piemezza e proporzione di effetti, dunque, come successivamente Newton, credeva nell'azione a distanza e, forse, ad una sincronicità degli eventi. Per questo, come molte anime pie prima e dopo di lui, fu tentato di decifrare il futuro mediante l'astrologia, ma - probabilmente - vi rinunciò, essendo impresa al di là delle possibilità umane elaborare oroscopi della terra, della Chiesa e di quant'altro. Sicché, in definitiva, o siamo nelle mani di Dio, o viaggiamo sotto la cattiva stella di un destino a volte cinico e baro, a volte gustoso e promettente, ma volatile e davvero capriccioso.
Si può usare Ockham per tornare ad una fede senza bisogno di dimostrazioni, e lo si può citare per negare l'esistenza di Dio in base ad argomenti razionali, ossia per tentare di distruggere la fede nell'incerta e superficiale consapevolezza dei credenti. Il rasoio di Ockham è ormai diventato moneta corrente su siti e riviste militanti a favore dell'ateismo. Nicola d'Autrecourt portò i ragionamenti di Ockham ai limiti estremi e, nonostante l'abiura, fu dato alle fiamme davanti all'università di Parigi il 25 novembre del 1345. O no? Dato per morto in numerosi testi di storia, nel pregevole lavoro di Fumagalli Beonio Brocchieri e Parodi si afferma che visse almeno fino al 1350. (2) Sono informazioni da verificare e si consiglia prudenza prima di dichiarare definitive le verità storiche.

Ockham passò il testimone a Gabriel Biel e questi lo passò a Martin Lutero
Dopo essere rimasto sotto il torchio inquisitorio di Giovanni XXII ad Avignone per qualche anno, Ockham riuscì a fuggire a Pisa, dove si mise sotto la protezione di Ludovico il Bavaro. Con lui riparò in Germania, dove morì a Monaco di Baviera, non senza aver fatto proseliti, anche con i suoi scrtti politici. Pressoché contemporaneamente cominciavano a circolare gli scritti di Marsilio da Padova, nei quali, tra le molte cose rilevanti, veniva perentoriamente affermato che Pietro non era mai stato vescovo di Roma. Sicché anche la leggenda del martirio e della crocifissione a testa in giù veniva sfatato, insieme ad una recisa confutazione di considerare Roma centro del mondo e sede del potere spirituale per decreto divino. Il pensiero di Marsilio è stato associato a quello di Giovanni di Jandun, una sorta di coautore delle tesi contro la legittimità del potere politico del papa. Ockham, Marsilio, Giovanni di Jandun e John Wycliff sembravano convergere attorno ad una duplice tesi: l'autorità politica aveva il diritto di rigettare i tentativi del papato di immischiarsi nelle vicende secolari; la Chiesa doveva tornare ad essere unicamente un centro di irradiazione spirituale. In sostanza: tornare ad essere la Chiesa di Paolo e non quella di Costantino.
Divulgatore del pensiero di Ockham in terra tedesca, con il suo Collectorium ex Occamo super quator libros Sententiarum, Gabriel Biel aveva conquistato la facoltà di teologia di Erfurt. Sicché, quando il giovane Martin Lutero comunciò a studiare proprio ad Erfurt, rimase certamente impressionato dalle confutazioni del tomismo domenicano una volta per tutte. L'opera di Biel fu stampata a Tubinga nel 1498, ma era circolata con copie manoscritte in alcuni centri universitari tedeschi da ben prima. Negli studi su Lutero si trovano opinioni che danno maggiore importanza all'influenza di Johannes Staupitz, presente in carne ed ossa, nonché in spirito, come superiore di Lutero nell'ordine degli agostiniani. (3) Però è vero che anche Staupitz aveva letto Biel e ne era rimasto colpito. Così, il cerchio si stringe attorno alle fonti delle più profonde convinzioni del monaco ribelle. All'influenza di Biel e Staupitz andrebbe aggiunta una profonda agitazione di fronte al mistero del sacro, estesa successivamente agli oggetti da impiegare nelle cerimonie e nella celebrazione dei sacramenti. Quando gli toccò dir messa per la prima volta, il giovane Martin fu attanagliato dalla tremarella. Non si sentiva all'altezza in quanto "peccatore", pur essendolo assai meno di tutti quelli che parlavano di Dio a vanvera, esibendo condotte di vita scandalose. Sentirsi peccatore per il giovane monaco poteva avere un solo significato: masturbarsi senza ricorrere alla risibile ipocrisia delle polluzioni notturne "involontarie", come era negli scritti di Agostino. In definitiva, anche Lutero sentiva di avere «una spina nella carne» come Paolo di Tarso, ed aveva scelto di non sposarsi, contrariamente a quanto predicato da Paolo come rimedio al peccato della carne.
Anche così, è difficile trovare l'elemento determinante nella tormentata coscienza in formazione del poco più che adolescente Martino. In gioventù Lutero fu una mente agitata ed impulsiva. Si ha ragione di credere che anche successivamente continuò ad essere impulsivo, a non calcolare freddamente costi e benefici delle proprie azioni e delle proprie parole. In questo non somigliò affatto ai suoi maestri ed ispiratori. Staupitz era un mistico convinto. Cercò di guidare Lutero ad un abbandono totale all'amore divino ed alla dimenticanza di sé e dell'importanza personale, ma non ottenne grandi risultati. E forse fu un bene. Il difetto principale del misticismo è spesso la rinuncia ad impugnare la bandiera della giustizia. Faccenda che era assai chiara a Lutero, anche se, proprio sul terreno della giustizia, si possono incontrare riflessioni non del tutto coerenti. La migliore descrizione fu offerta da Bainton, che pure non perse tempo ad indagare gli antecedenti filosofici e teologici di Ockham e di Biel, di Taulero e di Gersone. «L'ultimo tremendo dubbio assalì il giovane frate: forse Dio stesso non è giusto. Questa perplessità si manifestò in due modi, in relazione sia al carattere di Dio sia quella della sua azione: ambedue si basano sul concetto che Dio è troppo assoluto per essere influenzato da considerazioni di giustizia umana. I tardi scolastici, coi quali Lutero aveva studiato, insegnavano che Dio è talmente libero che nessuna regola lo vincola, salvo quelle che pone egli stesso. Dio non ha nessun obbligo di ricompensare le azioni umane, per quanto meritorie; normalmente ci si può aspettare che lo faccia, ma non ne abbiamo la certezza assoluta. Per Lutero, questo significava che Dio è capriccioso e il destino dell'uomo imprevedibile. La seconda idea era ancora più sconcertante perché affermava che il destino dell'uomo è già determinato, magari a suo danno. Dio è così assoluto che nulla può essere contingente e la sorte umana è già stata decretata fin dalla fondazione del mondo e persino il carattere dell'uomo è già fissato in larga misura. Questo concetto si raccomandava particolarmente all'attenzione di Lutero perché era stato sostenuto da Sant'Agostino, il fondatore del suo ordine, il quale, seguendo San Paolo, pensava che Dio abbia già scelto alcuni vasi per uso nobile ed altri per uso ignobile, senza alcun riguardo ai meriti rispettivi. I dannati, per quanto si sforzino, son dannati e i salvati sono salvati, qualunque cosa facciano. Per coloro che pensano di essere salvati questa dottrina è un indicibile conforto, ma per quelli che credono di essere dannati è un orrendo tormento.»
Di fronte a simili considerazioni non si può che alzare bandiera bianca, chi ci crede potrebbe salvarsi, chissà? Però verrebbe la pena di considerare che anche chi ha ricevuto la grazia di credere, alla luce di questa dottrina, non disporrà mai di argomentazioni sufficienti per dichiararsi sicuro predestinato alla salvezza. Accettando di allontanare Dio dall'uomo, rendendolo dissimile e misterioso, imperscrutabile e persino capriccioso, non si può che vivere in un perenne stato psicologico di agitazione. Anziché camminare con Dio, si rischia di camminare con la paura di essere dannati. Il buon Staupitz consigliò a Lutero di considerare la grazia «un volto amichevole e sorridente.» Il Padre, insomma. Un rinvio alla prima lettera di Giovanni, «nell'amore non c'è timore» è spesso la migliore risposta alla teologia del terrore di Dio. Nel Vangelo di Luca viene affermato che «l'Altissimo è misericordioso». Altro fortissimo argomento contro le dannazioni estreme.

Il mercato della vita eterna
Nel secondo decennio del Cinquecento circolava in Germania un opuscolo stampato a cura dell'Arcivescovo di Magonza, intitolato Summaria instructio sacerdotium ad praedicandas indulgentias. Il testo conteneva il seguente passo:
«Dio e San Pietro vi chiamano. Disponetevi a conseguire una grazia così grande per la salvezza vostra e dei vostri morti. Non vogliate dunque tardare, perché "nell'ora che voi non immaginate il Figliol dell'Uomo sopraggiungerà!". Tu sacerdote, tu nobile, tu mercante, tu sposa, tu giovinetto, tu giovane, tu vecchio, entra in questa chiesa che è diventata la chiesa di San Pietro e visita la santissima croce che per te è stata innalzata e ti chiama di continuo! Ti vergogni di visitare la croce tenendo la candela in mano e non ti vergogni di visitare le osterie... Comprare una lettera confessionale è sempre un buon affare; infatti, se foste obbligati d'andare a Roma - per il giubileo - o in qualche luogo pericoloso, non sareste costretti a mettere i vostri denari in banca e a pagare il 5, il 6, il 10 per cento per riaverli sicuri a Roma od altrove mediante le lettere credenziali della banca? E non volete per un quarto di fiorino ricevere queste lettere per la cui efficacia, non denaro ma un'anima divina ed immortale potete ritrovare nella patria celeste?» (4)
L'appello concludeva:
«Non volete forse acconsentire? Aprite le orecchie: udite quel che il padre dice al figlio, la madre alla figlia. "Ti abbiamo dato la vita, nutrito, allevato, ti abbiamo lasciato i nostri beni e tu sei così crudele che non vuoi liberarci a così poco prezzo? Vuoi lasciarci in questo fuoco?Vuoi ritardare la gloria che ci è stata promessa?" Ricordate che voi potete liberarli, perché
appena il soldo in cassa ribalta
l'anima via dal purgatorio salta
(5)
L'autore dell'opuscolo era un domenicano e si chiamava Johann Tetzel, abile venditore di tickets per il paradiso, con tanto di feedback per i defunti. Tetzel stesso girava per le contrade in pompa magna e leggeva il proclama sulle piazze, a beneficio degli analfabeti e di tutti coloro che non si curavano troppo del bene dell'anima, ma erano attratti dallo spettacolo e dalla coreografia..
La garanzia della vita eterna per sé ed i propri morti, insomma, si poteva acquistare al mercato dell'Arcivescovo ed in tanti supermercati affini, cardinalizi e curiali, sparsi per l'Europa e presenti soprattutto in Italia, nel cuore della cosiddetta cristianità. Solo a Roma, lo aveva visto Lutero con i propri occhi, esistevano in ogni angolo della città, centinaia di reliquie in grado di dispensare benedizioni, riscatti, promozioni ai gironi superiori del purgatorio e veri e propri trasferimenti definitivi in paradiso. Bastava versare un obolo. Nella collezione privata di Federico il Savio, il principe di Wittenberg, c'erano, acquistati a caro prezzo, una spina della corona di Gesù e un frammento del roveto ardente di Mosè, ossa di morti che venivano spacciati come ossa di santi e di profeti. L'industria della reliquia, un colossale imbroglio ordito alle spalle dei gonzi, era diventata parte integrante dei finanziamenti della Chiesa romana, iscritto a bilancio dai ragionieri dell'epoca. Le loro santità saltuariamente e con estrema parsimonia concedevano il franchising alle periferie. Magonza era una di queste fortunate appendici. L'arcivescovo era diventato arcivescovo mediante un versamento di diecimila ducati, e doveva rientrare nelle spese. In Italia Leone X era stato fatto cardinale a sette anni, grazie alle manovre ed agli appoggi di famiglia, essendo figlio di Lorenzo de Medici. Diventò papa con lo stesso sistema e prese uno di quegli abbagli che possono solo procurare una grassa risata (di compatimento). Proclamò Enrico VIII d'Inghilterra Difensore della fede. Questi, in realtà, sarebbe stato di lì a poco il primo sovrano, in epoca moderna, a costruirisi una chiesa ad personam.
Questa era la Chiesa cattolica all'inizio del Cinquecento ed è una verità storica sicura. Lutero, al colmo dell'indignazione, reagì scrivendo 95 tesi in latino che poi andò ad affiggere alla vigilia del giorno dei santi, ossia il 31 ottobre del 1517, sul portale della chiesa del castello di Wittenberg. Nelle sue intenzioni, le tesi erano destinate alla lettura dei soli teologi, preti, vescovi e principi. Altrimenti le avrebbe scritte in tedesco e non si sarebbe limitato ad affiggerle, ma avrebbe cominciato a predicarle come un qualsiasi eretico errante. Non pensava ad uno scisma, ma solo alla fine di un malcostume, ormai ridicolo anche agli occhi dei più avveduti, perchè il numero dei gonzi da spennare sembrava in diminuzione ed il numero degli increduli ai limiti dell'ateismo in aumento. Martin era cresciuto con un "mangiapreti" in casa, suo padre Hans, definito genericamente "minatore" dagli storici, ma in realtà una specie di ingegnere minerario e capo cantiere. Erano in molti a ragionare come il signor Hans?

Tanto rumore per nulla?
A leggere le carte, oggi si può stupire. Le novantacinque tesi non rappresentavano alcunché di rivoluzionario. Organizzate, o meglio, semplicemente allineate un po' alla rinfusa, come un controcanto a testi biblici ed evangelici, scelti con cura ed intenzione, esse partivano da affermazioni come «Il Signore e Maestro nostro Gesù Cristo, prescrivendo - Fate penitenza - (Mt, IV, !7), volle che tutta la vita dei fedeli fosse una penitenza.» Nella seconda tesi: «Il quale vocabolo penitenza non può in nessuna maniera intendersi di quella penitenza sacramentale consistente nella confessione auricolare e nella soddisfazione (con le opere), la quale si celebra mediante il ministero sacerdotale.» Il giudizio di Buonaiuti può tornar utile: «Si direbbe a prima vista che queste modeste rettifiche di significato, in cui cogliamo quella amplificazione del valore della metànoia evangelica (6), di cui Lutero era debitore allo Staupitz, non contengano alcunché di pericolosamente nuovo e di dogmaticamene azzardato. Che cosa di più edificante, moralmente, che un riconoscimento esplicito del carattere penitenziale, diciamo così, della vita del credente, chiamato a realizzare, nella compunzione e nella consapevolezza di sé, il proprio riscatto?» (7) Anche Bainton concorda: «Fino a questo punto l'attacco di Lutero non si poteva affatto considerare come eretico o innovatore.» (8) Senonché, Bainton avvertì il dovere di precisare che Lutero andò un po' oltre un passabile accordo con teologi amici (francescani, agostiniani, o "cani sciolti" come Erasmo da Rotterdam). La parola più radicale giunse da questo passo scritto da Lutero. «Le indulgenze sono positivamente dannose per chi le riceve, perché impediscono la salvezza in quanto sviano dalla carità e inducono ad un falso senso di sicurezza. Ai cristiani si dovrebbe insegnare che chi dà ai poveri fa meglio che chi riceve un'indulgenza. Chi spende denaro in esse, anziché soccorrere i bisognosi, riceve non il perdono del papa, ma l'ira di Dio.»
C'è un altro punto a cui prestare massima attanzione. Quello in cui la predicazione luterana, ancora sommessa e riservata a potenti e sapienti, incontra il comune sentire del popolo tedesco oppresso da eccessi di fiscalità. «Le entrate di tutta la cristianità - scrisse Lutero - sono assorbite da questa irresistibile basilica. I Tedeschi ridono quando la si chiama il tesoro comune della cristianità. Tra non molto tutte le chiese, palazzi, mura e ponti di Roma saranno costruiti col nostro denaro.» Da ciò si può inferire l'immediato valore e significato politico delle proposizioni luterane. Questione di soldi e di redistribuzione. Non più un Cesare e un Dio a cui rendere rispettivamente il dovuto, ma due Cesari, e ormai quasi nessun vero portavoce di Dio. Il successo fu quindi superiore alle aspettative di Lutero, allargando di molto lo spettro delle sue responsabilità oggettive ed attirando, ovviamente, le più grandi ostilità. Sul suo conto cominciarono a circolare dicerie e calunnie. Alcuni cercarono di assimilarlo ad Hans Böhm, il predicatore che aveva infiammato i cuori dei contadini e dei poveri qualche decennio innanzi, finendo regolarmente sul rogo. Ma Lutero non aveva alcuna intenzione di diventare un leader politico, avendo ben altri progetti per la testa, come la traduzione della Bibbia in tedesco, ovvero in dialetto sassone, per renderla finalmente disponibile a tutti i credenti che sapevano leggere. Il suo vero scopo era fare tutto il possibile per eliminare la mediazione sacerdotale, spingendo i credenti ad attingere direttamente al pozzo delle scritture. Impresa che non portava il marchio dell'originalità assoluta. In Inghilterra, John Wyclif, dopo una sbornia di delusioni al seguito del Cesare che lo aveva ingaggiato - il duca di Lancaster - tentò di dar vita ad una chiesa spirituale composta esclusivamente da uomini retti, dedicandosi alla traduzione della Bibbia in inglese. Impresa che non riuscì a condurre a termine. Il singolare destino delle spoglie di quest'uomo offre ulteriore occasione per un'amara considerazione sulle paranoie degli inquisitori, burattini senza fili e senza rispetto. Dopo il Concilio di Costanza del 1429 che ne aveva reiterato la condanna, scoprirono il luogo in cui era stato sepolto molti decenni prima. Fecero riesumare il cadavere per bruciarlo pubblicamente.

Meister Eckhart, i sermoni dell'anima e l'Anonimo di Francoforte
Tra le molte influenze accolte e rielaborate più o meno coscientemente da Lutero, si è finora evitato di nominare Meister Eckhart, domenicano, allievo di Tommaso d'Aquino, destinato a diverse resurrezioni e riscoperte nel pensiero filosofico e teologico tedesco. Non si tratta di una dimenticanza. E' proprio che, a mio avviso, la tarda scolastica, anche quando prese strade mistiche così diverse da quelle di Tommaso, rimase un boccone difficile da digerire per Lutero. Non si trattò solo di ostilità preconcetta nei confronti di tutto ciò che vestiva l'abito domenicano. I Trattati ed i Sermoni di Eckhart esibivano tratti nei confronti del non-concetto di Dio come risultato di un tormentato percorso speculativo che sfidava uno dei pilastri delle convinzioni luterane: l'aver ricevuto la grazia di credere. Con Eckhart si era giunti troppo vicini al provare per credere, a patto che l'individuo fosse già orientato alla ricerca del bene. Probabilmente, per afferrare qualcosa del pensiero di Erckhart è necessario cogliere una distinzione apparentemente assurda: quella tra Divinità e Dio. La Divinità è la costante potenzialità che contiene in sé tutte le distinzioni non ancora sviluppate e maturate. Pertanto la Divinità non può essere oggetto di culto e di conoscenza. E' Oscurità - anche Schelling parlerà nei suoi scritti teologici di "un fondo scuro" in Dio - è ciò che non ha forma. Al contrario, la santa Trinità è "ciò che si evolve", è "ciò che fluisce". Su tale distinzione si comprende meglio il senso di espressioni come questa: «L'anima,di solito, qualunque cosa compia la compie con le proprie facoltà. Quando comprende, comprende con il proprio intelletto. Quando ricorda, lo fa con la propria memoria. Quando ama, lo fa con la propria volontà Essa perciò opera con le proprie facoltà e non con la propria essenza. Ogni atto esteriore è collegato a qualche mezzo. Il potere di vedere si realizza solo per mezzo degli occhi; altrimenti essa non potrebbe realizzare un atto come il vedere. E lo stesso accade con gli altri sensi; le loro operazioni sono effettuate sempre per mezzo di qualche strumento. Ma nell'essenza dell'anima non c'è alcuna attività; le facoltà con cui essa opera scaturiscono dal fondo dell'essenza, e nel suo vero fondo vi è silenzio assoluto; qui soltanto c'è quiete e la sede appropriata per questa nascita, per questo atto, per mezzo del quale Dio-Padre pronuncia il Verbo; infatti l'anima ha la potenzialità intrinseca di ricevere l'essenza divina, senza strumenti. Qui Dio entra nell'anima con tutto se stesso, e non solo con una parte. Dio entra nel fondo dell'anima. Nessun altro, oltre a Dio, può toccare il fondo dell'anima. Nessuna creatura viene ammessa nel suo fondo, ma deve fermarsi al di fuori nelle sue facoltà.» Da cui viene la domanda. «Che cosa deve fare un uomo per meritare e procurare questa nascita interiore?» Cui segue. «E' meglio che s'impegni, che immagini e pensi Dio, oppure che se ne stia in pace e quiete, in modo che Dio possa parlare ed agire in lui mentre attende semplicemente l'iniziativa divina? Desidero ripetere che questo parlare, questo agire divino, è soltanto per i buoni e perfetti, per coloro che hanno così assorbito e assimilato l'essenza della virtù che essa scaturisce da loro spontaneamente, senza nessuna ricerca; e soprattutto devono essere vivi in loro la nobile esistenza e l'elevato insegnamento del nostro Signore Gesù Cristo.» (tutte le citazioni dal Sermone I. scritto appositamente per la Stille Nacht, in preparazione alla rinascita del Verbo interiore)
Ovviamente, le mie affermazioni sul silenzio di Lutero a proposito di Meister Eckhart necessitano di una verifica. Per certi aspetti, infatti, è sorprendente che Lutero abbia pubblicato, scrivendo un'introduzione, il libretto di autore anonimo - si dice un cavaliere di Francoforte - che sostanzialmente aveva ripreso, sebbene in forma assai meno speculativa, alcune tematiche di Eckhart. E' molto interessante questo passaggio: «All'inferno brucia soltanto la volontà personale. Ecco perché è stato detto "se elimini la tua volontà, eliminerai l'inferno." Ora, Dio desidera ardentemente aiutare l'uomo e fargli raggiungere ciò che per lui è meglio e che è meglio in generale. Ma, a questo scopo, l'intera volontà personale deve essere eliminata, come abbiamo detto. E Dio sarebbe lieto di dare all'uomo il suo aiuto e inoltre di consigliarlo, perché, finché l'uomo ricerca il proprio bene, non cerca ciò che è meglio per lui, né mai lo troverà. Il più alto bene, per un uomo, dovrebbe essere, e in effetti è, il non cercare né se stesso né i propri interessi; egli non deve porsi come fine a se stesso sotto nessun riguardo, né nelle cose spirituali né nelle cose materiali, ma deve cercare soltanto la lode e la gloria di Dio e la sua Santa volontà. Questo ci insegna Dio, e così ci ammonisce.» (http://www.gregoriopalamas.it/teologia_tedesca.htm - testo completo) In poche righe erano concentrate considerazioni degne di essere rinviate a tutta la storia della filosofia, compresa quella futura, da Platone a Schopenhauer, appunto. Ma, dal punto di vista dell'individuo e di quella che si potrebbe chiamare "speranza di realizzazione" nella società concreta, suonava come una veglia funebre. Non è quindi sorprendente che il libretto sia stato attaccato e scomunicato da Calvino. Le strade della Riforma cominciavano a separarsi, e non fu certamente un caso che uno degli oggetti della contesa fosse il pensiero dell'anonimo cavaliere teutonico. Ci torneremo, dopo un necessario viaggio in Italia, culla del Rinascimento, della corruzione ecclesiastica e della magia.

Digressioni platonico-aristoteliche, un Concilio apparentemente conciliante e un tocco di magia
Per avere un quadro più esatto del dibattito europeo tra i dotti sul problema di Dio e del suo ruolo nella determinazione del mondo, dobbiamo spingere lo sguardo oltre il romanzo della vita di Lutero, delle vicende tedesche. e del dibattito tra i riformati.
Una delle questioni è stata ben individuata da Sergio Landucci in I filosofi e Dio. (9) Aristotele non può essere il fondamento di una dottrina creazionista. Si ritorna così alle questioni sollevate dalla condanna del vescovo Tempier. L'azione di una potenza sovrannaturale è limitata alle qualità noetiche della conoscenza e al riconoscimento di Dio quale causa finale, il motore immobile che attrae per amore e genera il movimento. Al più, speculando sul termine "motore", si può far coincidere la causa finale con quella efficiente. Il motore genera movimento. Il passaggio dal piano fisico a quello biologico è parzialmente spiegato dalla generazione spontanea provocata dalla materia organica in decomposizione. Ma la genesi degli animali superiori e dell'uomo non ha altra spiegazione che la fissità e l'eternità della specie. Sia la vita che gli esseri umani esistono da sempre. Il divino nell'uomo è l'intelligenza, stop. Per avere quello che Landucci chiama artificialismo, ossia un intervento divino nella creazione della natura, occorre rimontare a Platone. E' ciò che fece il Cusano, il quale fissò la differenza tra Platone ed Aristotele nell'ammissione o meno della creazione. Cusano era informato delle filosofie preplatoniche da Diogene Laerzio; ma nella sua assimilazione di Aristotele ad Anassagora, ripeteva Giorgio Gemisto Pletone.
Chi era costui? Nato a Costantinopoli attorno al 1355, era giunto in Italia per partecipare al Concilio di Firenze del 1439, convocato per discutere la riunificazione della Chiesa romana e quella greca. La ricostruzione di Buonaiuti del Concilio e la figura di Pletone offre ragguagli indispensabili. «Possiamo immaginare come i sentimenti dell'adunanza fossero contrastanti. Che cosa doveva pensare, ad esempio, di quella riconciliazione, ispirata unicamente da preoccupazioni di politica internazionale, come era per esempio per l'imperatore di Costantinopoli, la minaccia incombente dei Turchi, Gemisto Pletone, avversario irreconciliabile del cristianesimo e sognatore di una revivescenza sincretistica? Più di un cinquantennio prima, quando sotto il pacifico Maometto I, i Turchi avevano segnato un trattato di pace con l'imperatore Emanuele, e cessato quindi l'incubo del pericolo esterno, era, sembrato giunto il momento per una riforma capitale all'interno dell'Impero d'Oriente, Gemisto aveva indirizzato all'imperatore un'orazione altisonante in cui, oltre ad alcuni suggerimenti di tecnica militare difensiva, aveva dato il consiglio di ricostituire l'unità spirituale del popolo, abolendo la professione cristiana, e ritornando all'antica religione ellenica, a cui la Grecia di Platone aveva dovuto la sua impareggiabile grandezza. E pochi anni più tardi Gemisto, con la sua opera capitale intitolata Leggi, era tornato alla carica, mostrando come ad una riforma integrale ed organica della struttura giuridica e sociale dell'Impero, non avrebbe dovuto mancare una trasformazione completa della mentalità religiosa e delle tradizioni sacre. La riconciliazione ecclesiastica di Firenze non doveva apparire decisione propizia allo spirito del vecchio mistico platonizzante.» (10) Il giudizio su Gemisto Pletone "anticristiano" pare suffragato dai dati in possesso di Buonaiuti. Resta che il pensiero di Pletone si fece valere sugli orientamenti di Bessarione di Trapezunte, primate della legazione greca al Concilio, e che anche mediante il suo pensiero, si diffuse in Italia una forte corrente neo-platonica, influente su precise e documentate tendenze a recuperare una dimensione magica e mistica dell'esperienza umana. Altro potenziale polo d'attrazione fu il coevo bizantino Giorgio Argiropulo. Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola, per intenderci, passarono da Gemisto, Bessarione ed Argiropulo, insieme a Cusano. Bessarione non rientrò a Bisanzio, rimase in Italia e fu nominato cardinale della Chiesa cattolica. L'unità raggiunta a Firenze tra latini e greci durò assai poco. Cusano cominciò ad affermare l'identità degli opposti, mettendo esplicitamente in discussione il principio aristotelico-tomista della non-contraddizione come fondamento della conoscenza.. Nel 1453, Bisanzio-Costantinopoli fu conquisatata dai turchi di Maometto II a suon di cannonate che sparavano pesanti palle di pietra. Queste, frantumandosi contro le imponenti mura di cinta, e contro gli edifici oltre le mura, schizzavano schegge letali. Finiva l'impero romano d'oriente, ma anche il rinnovato impero d'occidente non se la passava troppo bene, essendo ormai destinato a spezzettarsi in principati autonomi, monarchie nazionali, libere repubbliche come quelle marinare sorte in Italia., nonché una Chiesa ostinata nel ritenersi una potenza politica. Senza contare che l'espansionismo turco avrebbe potuto diventare ben presto una minaccia per tutto l'occidente latino.

Scienze occulte
Nell'eccellente impostazione di Landucci, la questione sembra limitarsi ad una disputa su chi, tra Aristotele e Platone, fosse considerato maggiormente "anticipatore" del pensiero cristiano. Indagine che porta a scoprire vicende intellettuali interessanti, quali quelle di Bessarione, Pomponazzi e Vimercati, che conduce alla correzione di luoghi comuni come quello di Pomponazzi "purissimo aristotelico", ma che non tocca questioni più profonde, le quali stavano alle spalle delle convinzioni filosofiche e teologiche. Come si vedrà, buona parte del problema che avevano a cuore degli intellettuali del Rinascimento era di carattere esoterico, nel senso che non tutto quello che veniva scritto corrispondeva a quello che era stato oggetto di preoccupazione e meditazione. Il motivo era duplice. Da un lato, il clima non era favorevole alla libera circolazione delle idee . specie quelle esplicitamente critiche nei confronti del potere politico ed ecclesiastico - dall'altro tornava immensamente comodo ammantarsi e spacciarsi come detentori esclusivi di un''antica scienza dimenticata e, comunque, occulta. Queste considerazioni rischiano, ovviamente, di gettare cattiva luce su un gran numero di pensatori in buona fede, ma è un rischio che vale la pena di correre se si è armati di magnanimità. Le parole chiave sono: divinazione, astrologia, alchimia e magia. Una trattazione unitaria di queste discipline distinte o non esiste, o appartiene a quella grossolanità pressapochista tipica del mondo intellettuale dei ciarlatani e non a quello della sensata ricerca storica.
La più misteriosa e negletta tra le discipline fu l'alchimia, una pratica che imponeva di "sporcarsi le mani" con i vili materiali, e che spesso si risolveva - la cosa può far sorridere - in ricette gastronomiche e bevande tipo elisir. Era la timida alchimia dei buoni frati baconiani. Sciroppi e tisane. Ad essa si opponeva la presunta cattiva alchimia degli stregoni e delle streghe, del tipo "aglio e prezzemolo" per procurare aborti, anche involontari. Se non si tiene conto che a volte l'aborto è necessario per i più svariati motivi, la ricetta dell'aglio e prezzemolo diventa sapere del demonio.
A questa alchimia elementare - nel significato di sostanze mescolate l'una all'altra in intima fusione e reazione - si opponeva un sapere simbolico e ieroglifico assai più torbido e sospetto. Introducendo una lepre - simbolo della velocità - nella stanza di una donna gravids, si acceleravano i processi biologici del parto, dando luogo ad una diminuzione temporale dei dolori. Ma si potevano anche procurare aborti ed espulsioni premature. Credenze di questo genere - ormai lo si può asserire con certezza - appartenevano all'ordine della magia teorica assai più che a quello dell'alchimia empirica e delle credenze popolari. Tuttavia, con altrettanta certezza, si tratta di riconoscere che senza una primitiva credenza popolare, non si sarebbe mai data una magia simbolica come quella della lepre. In termini di psicologia contemporanea, la presenza di una lepre nella stanza di una donna gravida provoca sentimenti di angoscia che alterano la situazione di tranquillità che dovrebbe caratterizzare la situazione psichica della puerpera.
La domanda investe il carattere dell'alchimia. può venir considerata esclusivamente come scienza empirica? E perché mai la magia centrata sui simboli dovrebbe venir trattata esclusivamente coem sapere teorico?

Ciò, tutto sommato, conduce ad un punto morto, perché, alla fine di un'estenuante discussione, non credo se ne verrebbe realmente a capo. Il mito del demiurgo proposto da Platone non deriva necessariamente dalla conoscenza delle scritture giudaiche, essendo elemento condiviso dalla mitologia mesopotamica e da altre ancora. Poi si tratterebbe di stabilire quale fosse il vero significato della parola "dio" sia per Platone che per Aristotele. Nessuno dei due aveva certamente in testa l'idea del "giudice" che sentenzia su chi deve andare all'inferno o al purgatorio. Sulla questione della sopravvivemza dell'anima, inoltre, si potrebbe ancora discutere all'infinito. Se intesa nel significato di psiche, o qualcosa di più essenziale. Nella dottrina paolina della resurrezione della carne, la psiche muore, non per risorgere tale e quale. E' l'individuo a risorgere in un corpo incorruttibile come quello guadagnato da Gesù. Si ha a che fare con un massimo di spiritualismo, l'annichilimento della psiche legata alla concupiscenza materiale, il sonno della morte, ed un massimo di materialismo, il ricevimento di un corpo nuovo ed incorruttibile. Le difficoltà sono queste e non sono conciliabili se non nella formula generica di vita ultraterrena, della quale non sappiamo nulla. L'immaginazione più fervida ha posto come premio finale la visione di Dio. L'ateo burlone si mette a ridere e ribatte "sai che palle". Cecco Angiolieri rischia di battere Dante Alighieri sia in casa che in trasferta. Bisogna leggere il Paradiso di Dante, ovviamente, per avere una visione filosofica della suprema beatitudine, ma nulla garantisce che esista un cielo e che sia così. L'invettiva di Pietro contro i pontefici corrotti nel XXVII canto del Paradiso riporta coi piedi per terra.
«Se io mi trascoloro,
non ti maravigliar; ché, dicend'io,
vedrai trascolorar tutti costoro.
Quelli ch'usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio, che vaca
nella presenza del Figliuol di Dio,
fatt'ha del cimiterio mio cloaca
del sangue e della puzza; onde 'l perverso
che cadde di qua su, là giú si placa».
Arrivati così in alto nella visione, ci si trova risospinti in basso, a curarsi delle vicende terrene. Verrebbe da chiedersi se il messaggio contenuto nella Tavola di smeraldo, un testo di alchimia, di origine araba, ma tradotto in latino, abbia valore di verità.
«Verità senza menzogna, certa, assolutamente vera

Ciò che è in basso è come ciò che è in alto
e ciò che è in alto è come ciò che è in basso,
per compiere i miracoli dela realtà unica.

E come tutte le cose ebbero origine dall'uno
nella disposizione di un'unica cosa,
così tutte le cose nacquero da questa realtà unica
una volta ottenuta tangibilmente.
Suo padre è il Sole, sua madre è la Luna,
il Vento l'ha portata nel suo grembo,
la Terra è la sua nutrice.

Genera tutte le virtù segrete di questo mondo
La sua potenza è completa se si trasforma in terra.

Separerai la terra dal fuoco, il sottile dal denso
con dolcezza e con grande attenzione.

Sale dalla terra al cielo , poi scende di nuovo sulla terra,
riceve la forza di ciò che è in alto e di ciò che è in basso
Così otterrai la gloria di tutto il mondo
e si allontanerà da te ogni oscurità.»

Sicché, quando entra in ballo il termine "magia", la faccenda si complica non poco. Il dio del neoplatonismo rinascimentale non si era limitato a forgiare il mondo, ma a mostrare agli uomini a dominarlo mediante la magia. Anche trascurando tutti i Dialoghi platonici in cui si condannano il ricorso alla magia ed ai trucchi verbali dei ciarlatani, e quindi ricorrendo alle cosiddette dottrine esoteriche non scritte. Fragile fondamento fin che si vuole, ma quando nella testa dei pensatori entra la suggestione di un vero Platone da contrapporre a quello apparente, non ci sono argomentazioni che tengano. Diventa fede cieca inei confronti di un'altra verità, più o meno alternativa a quella ufficiale dei testi scritti. Se non fosse che le dottrine esoteriche giunte alla conoscenza degli intellettuali rinascimentali erano tutte di molti secoli posteriori a Platone, non varrebbe nemmeno la pena di discuterle. Un nutrito gruppo di studiosi ha provato a sostenere che il mito di Ermete Trismegisto, unica fonte di autentiche conoscenze sovraumane, con tutti gli annessi e connessi, fu un'invenzione della tarda antichità successiva a Cristo, cui concorsero in diversa ed individuabile misura, uomini come Celso, l'imperatore Giuliano l'apostata, Plotino, Giamblico, Porfirio e Proclo, nonché tanti anonimi autori di testi magici. Sullo sfondo le dottrine gnostiche di Basilide e Valentiniano, convinti di avere in pugno le verità supreme. Tra gli scrittori cristiani della prima ora, il mito di Trismegisto era stato accolto, se non esaltato, da Lattanzio, lo stesso individuo che dichiarò la terra piatta, una specie di zatterone posto al centro dell'universo. Non si tratta di infierire sul povero Lattanzio, uno dei tanti illusi convinti di possedere la sapienza superiore, ma solo di prendere le giuste misure alla verità storica. Una delle cose di cui si va certi è che Lattanzio fu scelto da Costantino come precettore per il proprio figlio.

Magia contro astrologia, o meglio: autodeterminazione contro determinismo e fatalismo
L'astrologia predittiva ha una vocazione deterministica, saltuariamente temperata dalla modestia e dal buon senso di chi la usa. Gli astrologi sono convinti di azzeccare le loro previsioni, altrimenti non le farebbero. Vi sono altri modi di divinare il futuro, e praticamente non c'è popolo e civiltà antica che non abbia espresso uno o più sistemi di divinazione, compresa l'interpretazione dei sogni (Giuseppe in Egitto) e l'esplorazione delle visceri degli animali sacrificati. Ai tempi che stiamo considerando era diffusa la chiromanzia, ed è sbagliato considerarla una sottoarte divinatoria destinata alle ignoranti zingarelle. Pietro Pomponazzi cercò di elevarla a materia di insegnamento universitario. (11)
In sostanza, quando viene emesso un verdetto di tipo divinatorio, chi lo riceve risulta informato del proprio destino spesso spiacevole.
L'astrologia ereditata dagli intellettuali rinascimentali dipendeva in misura essenziale dal pensiero di al-Kindi, soprattutto sotto il profilo ideologico della considerazione del valore della disciplina. Quanto ai metodi, il serbatoio era sincretistico e variava in misura considerevole in ragione dei testi disponibili, sparpagliati in biblioteche spesso geograficamente distanti l'una dall'altra. Poter attingere ad un testo in arabo in un luogo in cui nessuno era in grado di tradurlo non rendeva la vita facile. Con l'invenzione della stampa e l'intensificazione degli scambi, la situazione migliorò relativamente. Molti testi finirono all'indice e non vennero mai stampati. Altri finirono nel dimenticatoio senza nessuna apparente ragione. Ancora Galilei insegnò astrologia all'università di Padova. Quale astrologia insegnò non ci è dato di sapere, per ora.
L'astrologia è sempre stata la più attraente di tutte le teorie e pratiche previsionali, perché legata a fattori visibili ed osservabili come il movimento dei corpi celesti, inteso come macrocosmo, il quale incide sul microcosmo ritagliato sulla carta di nascita dell'individuo vivente. Rispetto a tutte le altre pratiche previsionali, richiede un grado superiore di capacità intellettuali e matematiche, nonché una lunga esperienza, spesso costellata di errori. Diventare l'astrologo ufficiale di qualche potente signorotto non è sicuramente una bella vita. In ogni caso, sembra chiarito che non è la sapienza astrologica oggettiva a fare l'astrologo veramente in gamba, ma l'astrologo dotato di intelligenza ed intuizione a fare la propria abilità interpretativa, con studi spesso estenuanti di sapienza oggettiva ed inaspettate scoperte di eccezioni alle regole, che consumano una vita intera. Per arrivare a che? Probabilmente, il sogno dell'epistemologia assoluta, l'illusione frustrata di pervenire al punto di vista di Dio sul destino di singoli individui, od anche al punto di vista del demone di Laplace, ed in sottordine al diavoletto di Maxwell. Alle pretese deterministiche degli astrologi, o meglio, di una consistente parte di essi, si ebbe una reazione. I seguaci della magia, tra cui Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola, pretesero a loro volta di mostrare che gli uomini si possono sottrarre al determinismo astrologico ed oracolare mediante una vita di magie. Una di queste, nell'interpretazione di Filippo Melantone, il braccio umanistico e rinascimentale di Martin Lutero, si realizzò nel cambiare l'oroscopo di Lutero. Melantone, che non era sicuramente uno stupido, pensò di giovare al suo caro amico, mutandone la data di nascita. (12) Il che non gli impedì di erigere in ripetute occasioni previsioni di morte imminente per Lutero. (13) I tentativi invero un po' goffi e pasticciati di Melantone, trovavano spiegazione nelle dottrine di diversi maghi e filosofi. Tra questi, indubbiamente, la figura di Marsilio Ficino spicca sia per chiarezza che per oscurità di pensiero. (14) Alcune parti cozzano frontalmente con le convinzioni moderne e contemporanee dominanti. Può l'utilizzo di talismani offrire sicura protezione alla sfortuna pronosticata da un oroscopo? Ficino cominciò a rispondere sì, asserendo che il talismano incorpora potenza celeste e recondite armonie. Se l'abitazione diventava essa stessa un talismano, l'effetto protettivo aumentava. L'architettura del tempo incorporava questi principi, pittori e scultori s'ingegnavano per servire l'ideale. L'apogeo della dottrina ficiniana si può trovare nel duomo di Siena, soprattutto nel celebre pavimento. Il punto debole della teoria magica, ovvero la sua falsificazione, sarebbe facile da trovare. Di fronte ad eventi come la peste nera che aveva colpito tutta l'Europa tra il 1347 e il 1353, la magia non aveva funzionato. Il problema non era estetico, ma igienico. Una delle spiegazioni, infatti, rimonta all'insufficienza parziale o totale di un sistema di smaltimento dei rifiuti organici e di una rete di fognature. L'illusione di potersi blindare in palazzi foggiati sul principio delle armonie celesti si frantuma praticamente di fronte ai veicoli d'infezione assai più potenti. Firenze era stata, tra l'altro, una delle città più colpite, a differenza di Milano, che stranamente costituì una specie di isola felice, assieme ad un'ampia zona con l'epicentro attorno a Cracovia.
Tuttavia, il pensiero di Ficino merita un supplemento di attenzione perché il fervore dell'attivista indefesso contiene sempre un fondo di verità. In Ficino si può trovare la verità delle più antiche professioni mediche, quando gli uomini lottavano contro la malattia senza sapere che pesce pigliare,.da dove cominciare. La magia di Ficino diventa più comprensibile se viena vista come parte integrante del sapere terapeutico, ovviamente quello dei tempi. L'azione magica iniziava dai talismani, procedeva attraverso le abitazioni, per arrivare alla cura del corpo e della mente. Era una ribellione al destino inesorabile decretato dai deterministi da un lato, dai fatalisti dall'altro, essendo questa una tipologia caratteriale diffusa in ogni grado della gerarchia sociale . Ma, uno dei suoi presupposti era la conoscenza dell'astrologia. Il gatto si morde dunque la coda. Nell'oroscopo di Ficino un buon astrologo avrebbe potuto "vedere" ed intuire la sua predestinazione alla magia, e la lotta al fatalismo. Non si può dubitare del fatto che lo stesso Ficno si fosse fatto un oroscopo e lo avesse confrontato con altre interpretazioni del suo.
La domanda dello storico potrebbe concentrarsi su un punto prioritario. Era davvero necessario che l'atteggiamento di Ficino nei confronti della magia passasse per il ricorso alla credenza di una superiore "rivelazione" di verità supreme provenienti dalla tradizione del Trismegisto e della sapienza conservata nella città santa di Ermopoli, in cui, secondo Ficino, studiarono praticamente tutti gli illuminati dell'antichità, compreso lo stesso Gesù.? La risposta è disarmante. Sì, era necessario per Ficino, il quale aveva postulato una evidenza suprema originaria. Il suo fu un tentativo di raccontarne la genealogia., muovendo dalla convinzione di una derivazione comune del pensiero di Mosè e di quello della più antica sapienza egiziana. Convinzione del tutto legittima esaminando le scritture. Mosè aveva studiato in Egitto. Poi, dopo l'uccisione di un aguzzino, era fuggito nel deserto, approdando tra i nomadi della tribù di Jethtro. Per una mentalità come quella di Ficino era del tutto incomprensibile che proprio l'esperienza dell'incontro con una civiltà inferiore, più semplice e meglio amministrata di quella egiziana, avesse inciso radicalmente sul senso di Dio e la sua giustizia nell'uomo Mosè. Eppure è questo il significato originario della scrittura. Tutto il ricamo magico-miracolistico che la rende incredibile e perfino ridicola agli occhi dei moderni ha sortito il nefasto effetto di allontanare gli studiosi e gli esegeti dalla verità. Probabilmente, non ci fu un esodo ma solo la fuga di alcuni gruppi. Forse, non ci fu nemmeno un Mosè, un'invenzione letteraria. Però ci fu chi scrisse il Decalogo, e questa è la verità storica. Altro fatto su cui meditare: la scrittura, ossia il sistema di segni impiegato per comunicare, era alfabetico-consonantico, e non ieroglifico. Lo aveva inventato Ermete Trismegisto? La debolezza filologica di Ficino di fronte ai fatti nudi e crudi narrati nelle Scitture non può che sorprendere negativamente.

Età dell'oro, età di dolori
Secondo diverse fonti, la crescita esponenziale di un interesse attivo per la teoria e la pratica magica rinascimentale, fu dovuto all'affermarsi di un paradigma illustrato da Frances A. Yates. «I maggiori e più avanzati movimenti del Rinascimento derivano tutto il loro vigore, il loro impulso essenziale, guardando al passato. La concezione ciclica del tempo inteso come un moto perpetuo avanzante da primitive età dell'oro, dominio della purezza e della verità, attraverso successive età bronzee e ferree, era quello dominante e perciò la ricerca della verità veniva ad identificarsi con la ricerca di quell'oro primitivo, antico e originario, rispetto al quale i più vili metalli dell'età presente e di quella immediatamente trascorsa, costituivano corrotte degenerazioni.» Ancora. «L'umanista, mentre veniva recuperando la letteratura e i monumenti dell'antichità classica, provava la sensazione di fare ritorno ad un'aurea e genuina civiltà di gran lunga superiore alla propria. Il riformatore religioso tornava allo studio delle scritture e degli antichi Padri provando la sensazione di un recupero del tesoro genuino del Vangelo, rimasto sepolto sotto le successive degenerazioni.» (15)
Abbracciare in un unico concetto fenomeni così diversi come il rimpianto dell'oro e quello del Vangelo, mi pare francamente insostenibile..
Il ritorno al Vangelo è una costante di tante storie individuali. Praticamente non c'è giorno in cui non accadde e non accada qualcosa del genere. Diversamente, l'auspicato ritorno all'età dell'oro, fu sostanzialmente una moda culturale, anche a sbottonarsi per dichiararla una corrente filosofica. L'età dell'oro è un mito greco e non una verità storica, e quindi nemmeno una verità cristiana, se i cristiani credono alla verità delle loro scritture. Nel paradiso terrestre non c'era oro ma ricchezza naturale. Inoltre, il mito greco si lega alla figura di Saturno, non a quella del Sole, di Giove e di Venere. Se poi si guarda alla sostanza della lezione biblica, l'età dell'oro è sempre stata il paese di bengodi di lor signori, tutti gli altri a lavorare come schiavi. Il Vangelo sorse in un'epoca tra le più ferree e desolanti, diventando oro interiore, ovvero padronanza di sé e rispetto del prossimo in una società in cui la vita umana aveva un valore relativo, come nell'antico Egitto esaltato dai maghi, e come nella malfamata Babilonia, concentrazione di tutte le iniquità e di tutti gli imbrogli religiosi e magici.
Anche Buonaiuti, pur avendo una più consistente visione cristiana delle cose rispetto alla Yates, non ebbe particolari remore nel riconoscere ad alcuni maghi come Giovanni Pico della Mirandola la patente di una fervente fede cristiana. Tuttavia, a proposito di Marsilio Ficino, osservò: «Si illudeva Marsilio Ficino di riprodurre Agostino, ma l'Agostino dell'Accademia platonica fiorentina è l'Agostino di Cassiciacum, l'Agostino iniziato alla conoscenza di Plotino dall'anonimo amico milanese, cui si accenna vagamente nelle Confessioni. L'Agostino che aveva dato una teologia e una filosofia della storia al Medioevo era, invece, l'Agostino della polemica antipelagiana e del De Civitate Dei. Con il rinato dualismo Agostino si era costituito dottore della grazia. Attenendosi unicamente all'Agostino dei Dialoghi e delle opere antimanichee, Marsilio Ficino registrava l'atto di morte del cristianesimo costruttivo del Medioevo. In realtà, il sincretismo filosofico è la caratteristica dell'insegnamento ficiano.» (16) E qui Buonaiuti ricorrse ad una citazione di Marsilio: «Ermete, il massimo sacerdote e re dell'antico Egitto, condivise appieno l'insegnamento di Mosè e fece sua in ciò la sapienza ebraica. Platone era così permeato di lui che può essere designato come un Mosè che parla greco. Zoroastro, considerato da molti come maestro della teurgia, della Cabbala e della magia, non aveva altro di mira che conoscere ed adorare Dio... Numenio, Ammonio, Plotino, Amelio, Giamblico, avendo tutti letto il Vangelo di Giovanni e oltre questo i libri di Dionigi l'Areopagita, ne presero cose arieggianti il mistero della Trinità e ne derivarono nomi e ordini di angeli, come cose perfettamente coerenti all'insegnamento di Platone, discepolo di Mosè, per cui Aurelio Agostino, già altra volta platonico,e argomentante in cuor suo di una possibile professione cristiana, avendo trovato tutto ciò nei libri platonici, e avendo constatato come le sacre realtà cristiane avevano trovato suffragio nella imitazione di costoro, rese grazie a Dio ed apparve pronto ad accogliere la verità cristiana... Non è senza decreto della Divina Provvidenza, la quale ha voluto tutto chiamare a sé a norma del genio di ciascuno, che si è verificato che una certa pia filosofia nascesse prima presso i Persiani e gli Egiziani, si nutricasse presso i Traci per opera di Orfeo, raggiungesse la sua adolescenza presso i Greci e gli Italici sotto Pitagora, per giungere con Platone alla sua più alta manifestazione.»
Ora è dubbio che tutti i pensatori antichi citati da Ficino abbiano letto, e poi compreso, il Vangelo di Giovanni. Nelle loro opere non c'è alcun riferimento esplicito a verità cristiane. Con molte riserve si potrebbe solo accennare a vaghe convergenze spirituali che, tuttavia, non portarono ad una vera e reciproca comprensione. I motivi sono diversi, ma si possono ricondurre ad un comune irrigidimento. I filosofi pagani guardarono al costituirsi del movimento cristiano con l'altezzosità tipica di chi è convinto di possedere verità ben più nobili. D'altro lato, i convertiti al cristianesimo reagirono esibendo le loro ragioni o in modo altrettanto dogmatico, o in modo confuso e balbettante. Se ci fu confronto, fu dialogo tra sordi. Purtroppo, leggendo le carte, si ha spesso la sensazione che c'è qualcosa di peggio rispetto alla discussione tra sordi: il confronto-scontro tra esaltati. A cui si aggiunge la "diabolica" capacità politica di strumentalizzare gli esaltati per fini di potere e di ricchezza.

(continua)
Introduzione e prima parte


Note
1) Ernesto Buonaiuti - Storia del cristianesimo - Newton Compton 2002
2) Fumagalli Beonio Brocchieri e Parodi - Storia della filosofia medioevale - Laterza 2002 / Anche Edward Grant concorda sulla sopravvivenza di Nicola in Le origini medioevali della scienza moderna - Einaudi 2001
3) si vedano: Attilio Agnoletto - Lutero - Mondadori 1986 e Roger H. Bainton - Martin Lutero . Einaudi ristampa 2013
4) Agnoletto, cit.
5) Bainton, cit
6) metànoia, termine di origine greca, composto di meta (dopo, oltre, cambio di prospettiva) e nous (intendere, pensare, comprendere). Profondo mutamento nel modo di pensare, di sentire, di giudicare le cose. Rispetto alle scritture neotestamentarie, il termine significa capovolgimento e conversione che si devono operare in chi aderisce al messaggio di Cristo incondizionatamente.
Nella liturgia greca, atto reverenziale (compiuto, per es., davanti a un’icona, o entrando nella chiesa), consistente in un inchino profondo, fino a toccar terra con la mano destra, seguito dal bacio delle estremità delle dita riunite (sempre della mano destra) e dal segno di croce. Il secondo significato deriva dal vocabolario Treccani on line e può necessitare di approfondimenti.
7) Buonaiuti, cit.
8) Bainton, cit.
9) Sergio Landucci - I filosofi e Dio - Laterza 2005
10) Buonaiuti, cit.
11) Paola Zambelli - L'ambigua natura della magia - Il Saggiatore 1991
12) Bainton, cit.
13) Agnoletto, cit.
14) Frances A. Yates - Giordano Bruno e la tradizione ermetica - Laterza 2000
15) Yates, cit.

gm - 20 settembre 2013

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Platone - Leggi
maghi e sofisti (prestigiatori di retorica assimilati ai maghi) «con il loro disprezzo... si impadroniscono dell'anima di molti... e si vantano di saper evocare i morti e promettono di persuadere gli dei allettandoli ciarlatanescamente con sacrifici, preghiere e scongiuri, e intraprendono a scardinare dalle fondamenta individui, intere famiglie e stati per avidità di denaro.»
(Leggi, X)



Anselmo d'Aosta - benedettino e dottore della Chiesa
«Insegnami a ricercarti, mostrati a chi ti desidera. Non mi è concesso di cercarti se tu non mi ammaestri Ti cerchi io dunque con desiderio, ti desideri nella ricerca, ti trovi nell'amore, ti ami nel trovarti.»

«O Signore Dio mio, tu esisti con tale reale verità che a buon diritto non ti si può neppur pensare come non esistente. Che se ci fosse un intelletto umano capace di raffigurarsi qualcosa di più grande di te, vorrebbe dire che la creatura sopravanza il Creatore e si atteggerebbe a giudice del Creatore: il che è l'assurdità spinta agli ultimi limiti»

Anselmo d'Aosta

Tommaso d'Aquino - domenicano e dottore della Chiesa
La quarta prova dell'esistenza di Dio

«La quarta via è ricavata dalla molteplicità di gradazioni di essere e di perfezione delle cose. Il più e il meno si predica di numerosi soggetti in ragione del loro vario accostarsi alla perfezione assoluta delle loro qualità derivate. Il vero, il bello e il buono, che sono disseminati nella più policroma diversità nel mondo, esigono e postulano l'esistenza del massimo vero, del massimo bello, del massimo buono, che è perciò stesso massimamente essere. Ora la perfezione di un genere è la somiglianza di tutte le realtà parziali, che in quel genere rientrano. Esiste dunque una sostanza prima, da cui rampolla, come da causalità sussistente, quanto di essere e con l'essere, di buono e di vero, e al mondo tale sostanza battezziamo col nome di Dio»

Tommaso d'Aquino: bozza d'una biografia non autorizzata

Gugliemo di Ockham - francescano scomunicato
«Qualsiasi cosa realmente prodotta da un ente, per tutto il tempo in cui si mantiene nell'essere reale viene conservata da un ente; ora è certo che il mondo è prodotto, dunque è conservato da un ente per tutto il tempo in cui si mantiene nell'essere.»




Gugliemo di Ockham - considerazione sulla salvezza
di chi sta fuori dalla Chiesa

«Non è impossibile che Dio ordini che colui che vive secondo i dettami della retta ragione e non crede nulla che non gli sia dimostrato dalla ragione naturale, sia degno della vita eterna. In tal caso, può anche salvarsi chi nella vita non ebbe altra guida che la retta ragione.»
(da Quodlibeta, III)



Marsilio da Padova
«Ma se la legge umana non vieta che l'eretico o qualunque infedele conviva nella stessa regione insieme ai fedeli, io dico che non spetta ad alcuno giudicare e punire l'eretico o l'infedele con una pena o punizione nella persona o nella proprietà nello stato della vita presente. E la causa generale di ciò è la seguente: nessun uomo che pecchi contro qualsiasi disciplina teoretica o pratica può essere punito in quanto tale, in questo mondo, bensì solo in quanto pecca contro il comando della legge umana»
(Defensor pacis, II)


Marsilio da Padova
«L'ufficio di governante coattivo nei confronti di qualsiasi individuo o gruppo non spetta al pontefice romano né ad alcun altro vescovo o presbitero. E ciò è quanto sostiene anche Aristotele nei riguardi del sacerdozio di ogni religione, quando dice nel quarto libro della Politica: "non si devono considerare governanti tutti quelli che sono stati eletti o sorteggiati, per esempio i sacerdoti, il cui ufficio è diverso dal governo politico.» (Defensor pacis, I)

peste nera

Nicola Cusano




Marsilio Ficino - prete cattolico e mago (1433-1499)
«Qualsiasi oggetto materiale, quando venga posto in contatto con le cose superiori...è colpito immediatamente da un influsso celeste tramite quel potentissimo agente, di meravigliosa forza vitale, che è ovunque presente.... come uno specchio riflette un volto, o Eco il suono di una voce. Di ciò fornisce un esempio Plotino quando, imitando Mercurio, afferma che gli antichi sacerdoti, o Magi, solevano introdurre qualcosa di divino e di mirabile nelle loro statue e nei loro sacrifici. .Egli (Plotino) sostiene, concordando con Trismegisto, che essi non vi introducevano spiriti separati dalla materia [e cioè demoni], ma mundana numina, come ho già detto all'inizio, conformemente all'opinione di Sinesio, .. Lo stesso Mercurio - seguito da Plotino - afferma di aver composto, per mezzo di demoni aerei, e non celesti e superiori, , .. e servendosi di erbe, alberi, pietre e sostanze aromatiche, certe statue che avevano in sé (egli dice) un naturale potere divino. Ci furono abili sacerdoti egiziani che non riuscendo a persuadere razionalmente gli uomini dell'esistenza degli dei, e cioè di spiriti al di sopra di essi, inventarono quella illecita arte magica per mezzo della quale, attirando i demoni, nelle statue facevano sì che queste sembrassero dei... In un primo momento ho ritenuto, seguendo l'opinione di san Tommaso d'Aquino, che, se essi costruivano statue parlanti, ciò non poteva avvenire soltanto grazie a influssi stellari, ma anche grazie all'aiuto di demoni, ... Ma ora ritorniamo a Mercurio e a Plotino. Mercurio dice che i sacerdoti estraevano opportune virtù dalla natura del mondo, e che le mischiavano fra loro. Plotino lo segue, e ritiene che tutto possa essere agevolmente conciliato nell'anima del mondo, perché questa genera e muove.le forme delle cose naturali per mezzo di certe ragioni seminali intrinseche alla sua divinità. Queste ragioni egli le chiama dei, perché sono separate dalle Idee della mente suprema.»
(da De vita coelibus comparanda)






Pietro Pomponazzi - morto suicida il 18 maggio 1524
«Diciamo con Platone nel Timeo e Aristotele nel XII della Metafisica, che Dio è causa di tutto quanto esista [...] Secondo i medesimi Platone ed Aristotele, Dio non causa tutto quanto esista se non tramite intelligenza e volontà; ragion per cui disse Aristotele nel medesimo Libro della Metafisica, che Dio è il primo intelletto e la prima volontà, e Platone, nel Parmenide, che lascia stupefatti sentir dire che Dio non avrebbe conoscenza, ed anche nel Filebo. Tutti i sapienti sono d'accordo che a reggere il cielo e la terra è un intelletto, e che quindi Dio causa ogni ente per conoscenza e volontà»
(Tractatus acutissimi, utillimi et mere peripatetici)

Teresa de Capeda y de Ahumada (d'Avila)
«Possiamo dire che i principianti nella preghiera sono coloro che attingono acqua dal pozzo, il che è una gran fatica, come ho detto. Poiché essi devono fare un notevole sforzo per raccogliere i sensi, quando questi sono abituati ad una vita di distrazione. I principianti devono abituarsi a non prestare nessuna attenzione a ciò che vedono od odono, e a mettere in pratica tale esercizio durante le loro ore di preghiera, rimanendo in solitudine e pensando appartati alla loro vita passata»


Carlo Augusto Viano (da Le imposture degli antichi e i miracoli dei moderni)
«William Fleetwood, un prelato anglicano, avvertì subito il pericolo di ammettere violazioni all'ordine naturale che non fossero miracoli biblici e sostenne con decisione che il potere di fare miracoli spetta solo a Dio, e non al diavolo: così si tagliava corto contro i pretesi miracoli dei santi cari alla Chiesa di Roma. A Fletwood rispose un altro anglicano, Benjamin Hoadley, sostenendo che Dio ha "conferito potere e conoscenza" in gradi diversi a "innumerevoli ordini di esseri creati", sicché ci sono infiniti ordini di creature sotto gli uomini, ma anche sopra, tutti in grado di compiere cose che sfuggono alla nostra comprensione.. Nella disputa tra Fleetwood e Hoadley intervenne Locke con il Discorso sui miracoli, scritto nel 1702 e pubblicato postumo nel 1706. Secondo Locke quei due non disponevano di una definizione adeguata di miracolo, che lui definiva come "una operazione sensibile che uno spettatore ritiene divina, perché va al di là della sua comprensione e, secondo la sua opinione, è contraria al corso della natura". Così i miracoli diventano relativi all'idea che ciascuno ha del corso della natura, e i medesimi eventi potevano essere miracoli per uno e per un altro no. Ma una volta che si fossero constatate eccezioni vistose, numerose e coerenti dell'ordine della natura, riconoscibili da tutti, quali che fossero le immagini individuali del corso della natura, potevano essere accettati come miracoli quelli che si presentavano come conferma di una rivelazione.»