Ateismo e religione tra Cinquecento e Settecento
Seconda parte
di Guido Marenco
«La vitalità del mondo è insita in
tutte le cose, si propaga in modo evidente
nelle erbe e negli alberi, come se fossero
peli e capelli del suo corpo. Anzi, ciò accade
inoltre con le pietre e i metalli, come se
fossero i suoi i suoi denti e le sue ossa.
Pullula anche nelle conchiglie (con i loro
molluschi) che vivono attaccati alla terra
e alle rocce. Tutti questi enti non vivono
tanto di vita propria, quanto della vitalità
comune del tutto. Questa vitalità comune
sulla terra ha certo molto maggior vigore
nei corpi più sottili in quanto essi sono
più prossimi all'anima. E' per il suo intimo
vigore che l'acqua, l'aria, il fuoco possiedono
e vengono mossi dalle loro (specie) viventi.
Questa vitalità riscalda e agita di moto
perpetuo l'aria e il fuoco anche più della
terra e dell'acqua. E infine i corpi celesti,
come se fossero il capo o il cuore oppure
gli occhi del mondo vegetano al massimo grado.
Onde, per mezzo delle stelle, come fossero
occhi, diffonde ovunque raggi non solo visibili,
ma capaci anche di vedere.»
Marsilio Ficino (De vita coelibus comparanda, III)
Aristotele proibito
Si è accennato nel capitolo precedente al
fallimento di tutti i tentativi di presentare
una dimostrazione razionale dell'esistenza
di Dio. Va da sé che il termine "fallimento"
è opinabile. Appartiene ad un modo di intendere
la storia della filosofia come superamento
continuo delle idee e delle convinzioni precedenti
mediante confutazioni riuscite e nuove elaborazioni.
In realtà, si possono ancora incontrare individui
persuasi della dimostrazione di Anselmo,
o delle cinque vie di Tommaso. Tali convinzioni
si distribuiscono nella storia e si trasmettono
da una generazione all'altra, sia pure con
qualche difficoltà. In ogni epoca successiva
ad Anselmo e a Tommaso, è possibile incontrare
sostenitori del loro pensiero che rifiutano
le confutazioni di Ockham, che esamineremo
nel prossimo paragrafo. Uno degli eventi
'che aveva messo temporaneamente in crisi
la scuola tomistica era stata la condanna
di alcune proposizioni relative ad una presunta
"doppia verità" insegnata dai maestri
delle arti all'università di Parigi da parte
del vescovo EtienneTempier nel 1277. Non
era possibile che da un lato si ragionasse,
come Aristotele, di eternità del mondo, e
dall'altro si presentasse la verità d fede
consistente nel dogma della creazione. La
soluzione, secondo Tempier, stava nel proibire
l'insegnamento di Aristotele. L'argomento
impiegato era però di carattere schiettamente
aristotelico, centrandosi sul principio di
non-contraddizione. Sicché, diventa difficile
comprendere come si sia potuto ricorrere
a quello stesso principio con l'intenzione
di oscurare il suo scopritore, se non rimuovendolo
dalla sfera delle argomentazioni consapevoli
e delle proposizioni concatenate. Il mistero
si svela facilmente. Le autorità ecclesiastiche
non vietarono di continuare ad insegnare
la logica aristotelica e perfino di ricorrervi.
Si proposero unicamente di proibire il filosofo
della natura, in particolare l'autore del
De coelo. Operazione che non rendeva giustizia alla
verità storica ed al diritto di sapere. D'altra
parte, il principio funziona ugualmente,
non c'è bisogno di richiamarlo come tale.
Sembra essere innato nel maggior numero delle
menti umane addestrate a cogliere il vero
ed il falso nelle proposizioni affermate
da chicchesia. Era culminato nella teoria della verità proposta da Tommaso d'Aquino, la corrispondenza intellectus et rei. Sarebbe stato molto più sensato riconoscere
che era stato Aristotele a scoprirlo, e provare
a rimproverare i suoi seguaci tomisti di
incoerenza, risalendo fino allo stesso pensiero
di Aristotele. Decidere in modo arbitrario
cosa non si poteva insegnare fu una forma
di violenza intellettuale e psicologica,
realizzata mediante un abuso del potere d'interdizione
e di censura. Di fronte all'evento, lo storico
può sentirsi in dovere di non prendere immediatamente
partito per la libertà d'insegnamento, e
di seguire le acutissime riflessioni di alcuni
interpreti che lessero l'evento stesso come
provvidenziale, seguendo in ciò Proclo ed
Hegel. In, realtà, le cose stanno molto più
semplicemente. I tomisti erano andati pericolosamente
vicini a negare la libertà di Dio. Più dei tomisti l'impavido Sigieri
di Brabante, probabilmente la vera pietra
dello scandalo, anche se Dante Alighieri
decise misteriosamente di collocarlo in Paradiso.
La tesi di Tempier era questa: un dio necessitato non sarebbe più libero di rifare il mondo
a suo piacimento, o di annichilirlo. Tempier
saltava disinvoltamente il capitolo dagli
impegni presi da Dio con le creature, il
suo popolo, Il che, sotto il profilo di una
teologia fondata sulle scritture bibliche,
sarebbe la vera eresia. La decisione presa
all'inizio e costantemente ribadita, vincola
Dio a mantenre la promessa. Altrimenti, sarebbe
un ciarlatano. Basti pensare che anche uno
scettico come Sesto Empirico si sentì in
dovere di offrire la stessa spiegazione:
un dio è quello che mantiene le promesse.
Posto di fronte al principio della libera
e capricciosa onnipotenza di Dio, un teologo
realmente coerente avrebbe dovuto affermare
che la promessa non consente ripensamenti
nemmeno a Dio. Ovvero, che il principio dell'onnipotenza
non può essere messo in discussione, ma che
l'impegno preso mediante la parola rivelata
ha valore vincolante anche per Dio. Allora,
tutto sta ad intendersi su quel tipo di promessa si possa ricavare da una retta interpretazione
delle scritture. Questione che non coinvolge
gli atei, avendo essi deciso che i testi
sacri son tutte frottole, e nemmeno i fideisti
propensi ad accettare tutto ciò che viene
affermato dalle autorità ecclesiastiche,
o dalle scritture intese come totalità coerente.
Ockham il terribile
Le stesse idee ritornano
anche in presenza
di mutamenti importanti
nell'organizzazione
sociale, tecnica e scientifica
delle società.
L'attacco più corrosivo
alle posizioni del
tomismo domenicano, trascurando
Duns Scoto,
che non sarebbe affatto
da trascurare perché
afflitto dal problema di
dimostrare l'unicità di Dio e la immacolata concezione di Maria
'madre di Gesù', venne da Ockham, il quale
sostenne che la conoscenza astratta non garantisce
l'esistenza di ciò che non è percepibile
dai sensi. Ockham definì intuitiva la conoscenza
concreta delle cose esistenti, le quali sono
uniche essendo le specie ed i generi, ossia
gli universali, delle costruzioni mentali.
Contro l'esistenza dell'universale di specie
e di genere, argomentò ai limiti dell'assurdo,
asserendo che se Dio avesse annichilito l'universale
di un individuo, avrebbe al contempo annichilito
tutti gli individui. L'intelligenza non diviene
più perfetta mentre conosce di quanto non
lo fosse prima di conoscere. Tutto dipende
dalla presenza o meno di oggetti intellegibili.
Ciò che è vero dell'intelletto lo è anche
per le sensazioni. Rifacendosi ad Agostino
(De musica), Ockham ritenne che gli oggetti corporei
non agissero sull'anima, ma solo sul corpo,
e, dato che l'anima veniva considerata presente
negli organi sensibili, questa modificazione
corporea non le sfuggiva. Il che è sicuramente
più esatto che affermare l'impatto immediato
della musica sulla psiche, ma non sposta di molto il problema della
ricezione musicale.
La più grande lezione di
Ockham fu quella
di segnalare i rischi che
si corrono quando
si confonde il linguaggio
astratto dei concetti
con la realtà. «Non
si devono porre
una pluralità di cose quando
non è necessario.»
Ne va della sobrietà del
pensiero. Contestò
le categorie aristoteliche,
in primo luogo
quella di quantità, ragionando su un pezzo di ferro che si
dilata o si riduce se si mette in un forno,
o lo si toglie. Le credenze tomistiche sono
così sfidate. Si deve supporre che il numero
di accidenti in grado di modificare la forma
di un solido metallo è infinita. Si può infatti
allungare od accorciare di un pollice, di
due, di tre ecc.. Anche sulle qualità trovò da ridire. Di quelle poste da Aristotele
- a) le disposizioni; b) le capacità innate;
c) le proprietà sensibili, il colore, il
gusto, e il colore; d) le forme - egli fece
un'analisi radicale, Provò ad eliminare diverse
qualità del primo gruppo, ed intervenne chirurgicamente
su quelle del quarto tipo, osservando: «Quando
una proposizione è vera della realtà, e per
renderla vera è sufficiente una sola cosa,
allora è superfluo porne due. Ma proposizioni
come "questa sostanza è quadrata"
e "questa sostanza è rotonda" sono
vere della realtà; e una sostanza disposta
in questa e quest'altra maniera è del tutto
sufficiente alla verità. di essa. Se le parti
di una sostanza sono disposte lungo linee
rette,, non sono mosse, né si espandono o
si restringono, allora è contraddittorio
che essa debba essere prima quadrata e poi
rotonda. Così l'essere quadrato o rotondo
non aggiunge alcunché alla sostanza e alla
sue parti.» (Opera theologica)
L'analista logico ed empirico prevale quindi
sulle sfrenate fantasie - associazioni mentali
- attorno a ciò che potrebbe stare in cielo,
tante belle immaginazioni. Belle, bellissime,
ma non per questo vere. Il desiderio di Dio
non fa esistere Dio se Dio non esiste.
Uno dei bersagli di Ockham diventò la causa
finale di aristotelica memoria, piegata dai
tomisti ai fini delle proprie speculazioni.
Non è detto che ciò che viene da qualcosa, la pianta da un seme, accada per noi umani in termini di provvidenza. A Duns
Scoto che aveva tentato una sua dimostrazione
dell'esistenza di Dio, un Dio che non fosse
solo causa prima, ma ente intelligente e volente in ogni
istante su tutto ciò che accade, aveva replicato
nei Quodlibeta: «Rispondo che non si può dimostrare,
che qualcuno conosca ciò per cui agiscono
le cause naturali, e ve le diriga, perché
questo (che siano dirette ad un fine da qualcuno
che lo conosca) è vero solo per quelle cose
che non sono determinate dalla propria natura
ad un effetto univoco. ma possono essere
mosse diversamente, in uno o altro modo [...]
Ad esempio, per una freccia che di suo può
dirigersi indifferentemente in alto o in
basso, in avanti o all'indietro, si richiede
quindi che qualcuno sappia in anticipo a
quale obiettivo dirigerla, e ve la indirizzi.
[...] Invece, per una causa meramente naturale,
che per sua natura è determinata ad un certo
effetto, e non ad altro, non si richiede
qualcuno che lo conosca in anticipo e ve
lo indirizzi - o per lo meno non lo si può
concludere con la ragione naturale (in contrapposizione
alla fede).»
Ciò che ci tiene in essere:
il mistero della
conservazione
Affermazioni di questo genere potrebbero
indurre a credere in una totale rinuncia
alla dimostrazione dell'esistenza di Dio.
In realtà, Ockham, come evidenziato nello
specchietto qui a fianco, si aggrappò ad
un paradigma "conservativo'' che, pur
annullando tutte le dimostrazioni precedenti,
non rinunciava completamente alla via della
dimostrazione. Ciò che ci mantiene in vita,
insomma, può essere il papa o l'imperatore,
la terra messa a coltura o il vicino di casa
che dona verdura e frutta fresca. Ciascuno
con la propria azione a distanza, o con la
propria azione ravvicinata, aiuta a conservarci.
Ockham vedeva la luce ed il calore del sole
attraversare il "vuoto" siderale
per arrivare sulla terra con una feconda
piemezza e proporzione di effetti, dunque,
come successivamente Newton, credeva nell'azione
a distanza e, forse, ad una sincronicità
degli eventi. Per questo, come molte anime
pie prima e dopo di lui, fu tentato di decifrare
il futuro mediante l'astrologia, ma - probabilmente
- vi rinunciò, essendo impresa al di là delle
possibilità umane elaborare oroscopi della
terra, della Chiesa e di quant'altro. Sicché,
in definitiva, o siamo nelle mani di Dio,
o viaggiamo sotto la cattiva stella di un
destino a volte cinico e baro, a volte gustoso
e promettente, ma volatile e davvero capriccioso.
Si può usare Ockham per tornare ad una fede
senza bisogno di dimostrazioni, e lo si può
citare per negare l'esistenza di Dio in base
ad argomenti razionali, ossia per tentare
di distruggere la fede nell'incerta e superficiale consapevolezza
dei credenti. Il rasoio di Ockham è ormai diventato moneta corrente su siti
e riviste militanti a favore dell'ateismo.
Nicola d'Autrecourt portò i ragionamenti
di Ockham ai limiti estremi e, nonostante
l'abiura, fu dato alle fiamme davanti all'università
di Parigi il 25 novembre del 1345. O no?
Dato per morto in numerosi testi di storia,
nel pregevole lavoro di Fumagalli Beonio Brocchieri e Parodi si afferma
che visse almeno fino al 1350. (2) Sono informazioni
da verificare e si consiglia prudenza prima
di dichiarare definitive le verità storiche.
Ockham passò il testimone a Gabriel Biel
e questi lo passò a Martin Lutero
Dopo essere rimasto sotto il torchio inquisitorio
di Giovanni XXII ad Avignone per qualche
anno, Ockham riuscì a fuggire a Pisa, dove
si mise sotto la protezione di Ludovico il
Bavaro. Con lui riparò in Germania, dove
morì a Monaco di Baviera, non senza aver
fatto proseliti, anche con i suoi scrtti
politici. Pressoché contemporaneamente cominciavano
a circolare gli scritti di Marsilio da Padova,
nei quali, tra le molte cose rilevanti, veniva
perentoriamente affermato che Pietro non
era mai stato vescovo di Roma. Sicché anche
la leggenda del martirio e della crocifissione
a testa in giù veniva sfatato, insieme ad
una recisa confutazione di considerare Roma
centro del mondo e sede del potere spirituale
per decreto divino. Il pensiero di Marsilio
è stato associato a quello di Giovanni di
Jandun, una sorta di coautore delle tesi
contro la legittimità del potere politico
del papa. Ockham, Marsilio, Giovanni di Jandun
e John Wycliff sembravano convergere attorno
ad una duplice tesi: l'autorità politica
aveva il diritto di rigettare i tentativi
del papato di immischiarsi nelle vicende
secolari; la Chiesa doveva tornare ad essere
unicamente un centro di irradiazione spirituale.
In sostanza: tornare ad essere la Chiesa
di Paolo e non quella di Costantino.
Divulgatore del pensiero
di Ockham in terra
tedesca, con il suo Collectorium ex Occamo super quator libros
Sententiarum, Gabriel Biel aveva conquistato la facoltà
di teologia di Erfurt. Sicché, quando il
giovane Martin Lutero comunciò a studiare
proprio ad Erfurt, rimase certamente impressionato
dalle confutazioni del tomismo domenicano
una volta per tutte. L'opera di Biel fu stampata
a Tubinga nel 1498, ma era circolata con
copie manoscritte in alcuni centri universitari
tedeschi da ben prima. Negli studi su Lutero
si trovano opinioni che danno maggiore importanza
all'influenza di Johannes Staupitz, presente
in carne ed ossa, nonché in spirito, come
superiore di Lutero nell'ordine degli agostiniani.
(3) Però è vero che anche Staupitz aveva
letto Biel e ne era rimasto colpito. Così,
il cerchio si stringe attorno alle fonti
delle più profonde convinzioni del monaco
ribelle. All'influenza di Biel e Staupitz
andrebbe aggiunta una profonda agitazione
di fronte al mistero del sacro, estesa successivamente
agli oggetti da impiegare nelle cerimonie
e nella celebrazione dei sacramenti. Quando
gli toccò dir messa per la prima volta, il
giovane Martin fu attanagliato dalla tremarella.
Non si sentiva all'altezza in quanto "peccatore",
pur essendolo assai meno di tutti quelli
che parlavano di Dio a vanvera, esibendo
condotte di vita scandalose. Sentirsi peccatore
per il giovane monaco poteva avere un solo
significato: masturbarsi senza ricorrere
alla risibile ipocrisia delle polluzioni
notturne "involontarie", come era
negli scritti di Agostino. In definitiva,
anche Lutero sentiva di avere «una
spina nella carne» come Paolo di Tarso,
ed aveva scelto di non sposarsi, contrariamente
a quanto predicato da Paolo come rimedio
al peccato della carne.
Anche così, è difficile trovare l'elemento
determinante nella tormentata coscienza in
formazione del poco più che adolescente Martino.
In gioventù Lutero fu una mente agitata ed
impulsiva. Si ha ragione di credere che anche
successivamente continuò ad essere impulsivo,
a non calcolare freddamente costi e benefici
delle proprie azioni e delle proprie parole.
In questo non somigliò affatto ai suoi maestri
ed ispiratori. Staupitz era un mistico convinto.
Cercò di guidare Lutero ad un abbandono totale
all'amore divino ed alla dimenticanza di
sé e dell'importanza personale, ma non ottenne
grandi risultati. E forse fu un bene. Il
difetto principale del misticismo è spesso
la rinuncia ad impugnare la bandiera della
giustizia. Faccenda che era assai chiara
a Lutero, anche se, proprio sul terreno della
giustizia, si possono incontrare riflessioni
non del tutto coerenti. La migliore descrizione
fu offerta da Bainton, che pure non perse
tempo ad indagare gli antecedenti filosofici
e teologici di Ockham e di Biel, di Taulero
e di Gersone. «L'ultimo tremendo dubbio
assalì il giovane frate: forse Dio stesso
non è giusto. Questa perplessità si manifestò
in due modi, in relazione sia al carattere
di Dio sia quella della sua azione: ambedue
si basano sul concetto che Dio è troppo assoluto
per essere influenzato da considerazioni
di giustizia umana. I tardi scolastici, coi
quali Lutero aveva studiato, insegnavano
che Dio è talmente libero che nessuna regola
lo vincola, salvo quelle che pone egli stesso.
Dio non ha nessun obbligo di ricompensare
le azioni umane, per quanto meritorie; normalmente
ci si può aspettare che lo faccia, ma non
ne abbiamo la certezza assoluta. Per Lutero,
questo significava che Dio è capriccioso
e il destino dell'uomo imprevedibile. La
seconda idea era ancora più sconcertante
perché affermava che il destino dell'uomo
è già determinato, magari a suo danno. Dio
è così assoluto che nulla può essere contingente
e la sorte umana è già stata decretata fin
dalla fondazione del mondo e persino il carattere
dell'uomo è già fissato in larga misura.
Questo concetto si raccomandava particolarmente
all'attenzione di Lutero perché era stato
sostenuto da Sant'Agostino, il fondatore
del suo ordine, il quale, seguendo San Paolo,
pensava che Dio abbia già scelto alcuni vasi
per uso nobile ed altri per uso ignobile,
senza alcun riguardo ai meriti rispettivi.
I dannati, per quanto si sforzino, son dannati
e i salvati sono salvati, qualunque cosa
facciano. Per coloro che pensano di essere
salvati questa dottrina è un indicibile conforto,
ma per quelli che credono di essere dannati
è un orrendo tormento.»
Di fronte a simili considerazioni non si
può che alzare bandiera bianca, chi ci crede
potrebbe salvarsi, chissà? Però verrebbe
la pena di considerare che anche chi ha ricevuto
la grazia di credere, alla luce di questa
dottrina, non disporrà mai di argomentazioni
sufficienti per dichiararsi sicuro predestinato
alla salvezza. Accettando di allontanare
Dio dall'uomo, rendendolo dissimile e misterioso,
imperscrutabile e persino capriccioso, non
si può che vivere in un perenne stato psicologico
di agitazione. Anziché camminare con Dio,
si rischia di camminare con la paura di essere
dannati. Il buon Staupitz consigliò a Lutero
di considerare la grazia «un volto
amichevole e sorridente.» Il Padre,
insomma. Un rinvio alla prima lettera di
Giovanni, «nell'amore non c'è timore»
è spesso la migliore risposta alla teologia
del terrore di Dio. Nel Vangelo di Luca viene
affermato che «l'Altissimo è misericordioso».
Altro fortissimo argomento contro le dannazioni
estreme.
Il mercato della vita eterna
Nel secondo decennio del
Cinquecento circolava
in Germania un opuscolo
stampato a cura dell'Arcivescovo
di Magonza, intitolato
Summaria instructio sacerdotium ad praedicandas
indulgentias. Il testo conteneva il seguente passo:
«Dio e San Pietro vi chiamano. Disponetevi
a conseguire una grazia
così grande per la
salvezza vostra e dei vostri
morti. Non vogliate
dunque tardare, perché
"nell'ora che
voi non immaginate il Figliol
dell'Uomo sopraggiungerà!".
Tu sacerdote, tu nobile,
tu mercante, tu
sposa, tu giovinetto, tu
giovane, tu vecchio,
entra in questa chiesa
che è diventata la
chiesa di San Pietro e
visita la santissima
croce che per te è stata
innalzata e ti chiama
di continuo! Ti vergogni
di visitare la croce
tenendo la candela in mano
e non ti vergogni
di visitare le osterie...
Comprare una lettera
confessionale è sempre
un buon affare; infatti,
se foste obbligati d'andare
a Roma - per
il giubileo - o in qualche
luogo pericoloso,
non sareste costretti a
mettere i vostri
denari in banca e a pagare
il 5, il 6, il
10 per cento per riaverli
sicuri a Roma od
altrove mediante le lettere
credenziali della
banca? E non volete per
un quarto di fiorino
ricevere queste lettere
per la cui efficacia,
non denaro ma un'anima
divina ed immortale
potete ritrovare nella
patria celeste?» (4)
L'appello concludeva:
«Non volete forse acconsentire? Aprite
le orecchie: udite quel che il padre dice
al figlio, la madre alla figlia. "Ti
abbiamo dato la vita, nutrito, allevato,
ti abbiamo lasciato i nostri beni e tu sei
così crudele che non vuoi liberarci a così
poco prezzo? Vuoi lasciarci in questo fuoco?Vuoi
ritardare la gloria che ci è stata promessa?"
Ricordate che voi potete liberarli, perché
appena il soldo in cassa
ribalta
l'anima via dal purgatorio salta.» (5)
L'autore dell'opuscolo
era un domenicano
e si chiamava Johann Tetzel,
abile venditore
di tickets per il paradiso, con tanto di feedback per i defunti. Tetzel stesso girava per
le contrade in pompa magna
e leggeva il proclama
sulle piazze, a beneficio
degli analfabeti
e di tutti coloro che non
si curavano troppo
del bene dell'anima, ma
erano attratti dallo
spettacolo e dalla coreografia..
La garanzia della vita eterna per sé ed i
propri morti, insomma, si poteva acquistare
al mercato dell'Arcivescovo ed in tanti supermercati
affini, cardinalizi e curiali, sparsi per
l'Europa e presenti soprattutto in Italia,
nel cuore della cosiddetta cristianità. Solo
a Roma, lo aveva visto Lutero con i propri
occhi, esistevano in ogni angolo della città,
centinaia di reliquie in grado di dispensare
benedizioni, riscatti, promozioni ai gironi
superiori del purgatorio e veri e propri
trasferimenti definitivi in paradiso. Bastava
versare un obolo. Nella collezione privata
di Federico il Savio, il principe di Wittenberg,
c'erano, acquistati a caro prezzo, una spina
della corona di Gesù e un frammento del roveto
ardente di Mosè, ossa di morti che venivano
spacciati come ossa di santi e di profeti.
L'industria della reliquia, un colossale
imbroglio ordito alle spalle dei gonzi, era
diventata parte integrante dei finanziamenti
della Chiesa romana, iscritto a bilancio
dai ragionieri dell'epoca. Le loro santità
saltuariamente e con estrema parsimonia concedevano
il franchising alle periferie. Magonza era una di queste
fortunate appendici. L'arcivescovo era diventato arcivescovo mediante
un versamento di diecimila
ducati, e doveva
rientrare nelle spese.
In Italia Leone X era stato fatto cardinale
a sette anni, grazie alle
manovre ed agli
appoggi di famiglia, essendo
figlio di Lorenzo
de Medici. Diventò papa
con lo stesso sistema
e prese uno di quegli abbagli
che possono
solo procurare una grassa
risata (di compatimento).
Proclamò Enrico VIII d'Inghilterra
Difensore della fede. Questi, in realtà, sarebbe stato di lì
a poco il primo sovrano, in epoca moderna,
a costruirisi una chiesa ad personam.
Questa era la Chiesa cattolica
all'inizio
del Cinquecento ed è una
verità storica sicura.
Lutero, al colmo dell'indignazione,
reagì
scrivendo 95 tesi in latino che poi andò ad affiggere alla vigilia del
giorno dei santi, ossia
il 31 ottobre del
1517, sul portale della
chiesa del castello
di Wittenberg. Nelle sue
intenzioni, le tesi
erano destinate alla lettura
dei soli teologi,
preti, vescovi e principi.
Altrimenti le
avrebbe scritte in tedesco
e non si sarebbe
limitato ad affiggerle,
ma avrebbe cominciato
a predicarle come un qualsiasi
eretico errante.
Non pensava ad uno scisma,
ma solo alla fine
di un malcostume, ormai
ridicolo anche agli
occhi dei più avveduti,
perchè il numero
dei gonzi da spennare sembrava
in diminuzione
ed il numero degli increduli
ai limiti dell'ateismo
in aumento. Martin era
cresciuto con un "mangiapreti"
in casa, suo padre Hans,
definito genericamente
"minatore" dagli
storici, ma in
realtà una specie di ingegnere
minerario
e capo cantiere. Erano
in molti a ragionare
come il signor Hans?
Tanto rumore per nulla?
A leggere le carte, oggi si può stupire.
Le novantacinque tesi non
rappresentavano
alcunché di rivoluzionario.
Organizzate,
o meglio, semplicemente
allineate un po'
alla rinfusa, come un controcanto
a testi
biblici ed evangelici,
scelti con cura ed
intenzione, esse partivano da affermazioni come «Il
Signore e Maestro nostro
Gesù Cristo, prescrivendo
- Fate penitenza - (Mt, IV, !7), volle che tutta la vita dei fedeli fosse
una penitenza.» Nella seconda tesi: «Il quale
vocabolo penitenza non può in nessuna maniera intendersi di
quella penitenza sacramentale
consistente
nella confessione auricolare
e nella soddisfazione
(con le opere), la quale
si celebra mediante
il ministero sacerdotale.»
Il giudizio
di Buonaiuti può tornar
utile: «Si
direbbe a prima vista che
queste modeste
rettifiche di significato,
in cui cogliamo
quella amplificazione del
valore della metànoia
evangelica (6), di cui
Lutero era debitore
allo Staupitz, non contengano
alcunché di
pericolosamente nuovo e
di dogmaticamene
azzardato. Che cosa di
più edificante, moralmente,
che un riconoscimento esplicito
del carattere
penitenziale, diciamo così,
della vita del
credente, chiamato a realizzare,
nella compunzione
e nella consapevolezza
di sé, il proprio
riscatto?» (7) Anche
Bainton concorda:
«Fino a questo punto
l'attacco di Lutero
non si poteva affatto considerare
come eretico
o innovatore.» (8)
Senonché, Bainton
avvertì il dovere di precisare
che Lutero
andò un po' oltre un passabile
accordo con
teologi amici (francescani,
agostiniani,
o "cani sciolti"
come Erasmo da
Rotterdam). La parola più
radicale giunse
da questo passo scritto
da Lutero. «Le
indulgenze sono positivamente
dannose per
chi le riceve, perché impediscono
la salvezza
in quanto sviano dalla
carità e inducono
ad un falso senso di sicurezza.
Ai cristiani
si dovrebbe insegnare che
chi dà ai poveri
fa meglio che chi riceve
un'indulgenza. Chi
spende denaro in esse,
anziché soccorrere
i bisognosi, riceve non
il perdono del papa,
ma l'ira di Dio.»
C'è un altro punto a cui
prestare massima
attanzione. Quello in cui
la predicazione
luterana, ancora sommessa
e riservata a potenti
e sapienti, incontra il
comune sentire del
popolo tedesco oppresso
da eccessi di fiscalità.
«Le entrate di tutta
la cristianità
- scrisse Lutero - sono
assorbite da questa
irresistibile basilica.
I Tedeschi ridono
quando la si chiama il
tesoro comune della
cristianità. Tra non molto
tutte le chiese,
palazzi, mura e ponti di
Roma saranno costruiti
col nostro denaro.»
Da ciò si può inferire
l'immediato valore e significato
politico
delle proposizioni luterane.
Questione di
soldi e di redistribuzione.
Non più un Cesare
e un Dio a cui rendere
rispettivamente il
dovuto, ma due Cesari,
e ormai quasi nessun
vero portavoce di Dio.
Il successo fu quindi
superiore alle aspettative
di Lutero, allargando
di molto lo spettro delle
sue responsabilità
oggettive ed attirando,
ovviamente, le più
grandi ostilità. Sul suo
conto cominciarono
a circolare dicerie e calunnie.
Alcuni cercarono
di assimilarlo ad Hans
Böhm, il predicatore
che aveva infiammato i
cuori dei contadini
e dei poveri qualche decennio
innanzi, finendo
regolarmente sul rogo.
Ma Lutero non aveva
alcuna intenzione di diventare
un leader
politico, avendo ben altri
progetti per la
testa, come la traduzione
della Bibbia in
tedesco, ovvero in dialetto
sassone, per
renderla finalmente disponibile
a tutti i
credenti che sapevano leggere.
Il suo vero
scopo era fare tutto il
possibile per eliminare
la mediazione sacerdotale,
spingendo i credenti
ad attingere direttamente
al pozzo delle
scritture. Impresa che
non portava il marchio
dell'originalità assoluta.
In Inghilterra,
John Wyclif, dopo una sbornia
di delusioni
al seguito del Cesare che
lo aveva ingaggiato
- il duca di Lancaster
- tentò di dar vita
ad una chiesa spirituale
composta esclusivamente
da uomini retti, dedicandosi
alla traduzione
della Bibbia in inglese.
Impresa che non
riuscì a condurre a termine.
Il singolare
destino delle spoglie di
quest'uomo offre
ulteriore occasione per
un'amara considerazione
sulle paranoie degli inquisitori,
burattini
senza fili e senza rispetto.
Dopo il Concilio di Costanza del 1429 che
ne aveva reiterato la condanna,
scoprirono
il luogo in cui era stato
sepolto molti decenni
prima. Fecero riesumare
il cadavere per bruciarlo
pubblicamente.
Meister Eckhart, i sermoni dell'anima e l'Anonimo
di Francoforte
Tra le molte influenze accolte e rielaborate
più o meno coscientemente da Lutero, si è
finora evitato di nominare Meister Eckhart,
domenicano, allievo di Tommaso d'Aquino,
destinato a diverse resurrezioni e riscoperte
nel pensiero filosofico e teologico tedesco.
Non si tratta di una dimenticanza. E' proprio
che, a mio avviso, la tarda scolastica, anche
quando prese strade mistiche così diverse
da quelle di Tommaso, rimase un boccone difficile
da digerire per Lutero. Non si trattò solo
di ostilità preconcetta nei confronti di
tutto ciò che vestiva l'abito domenicano.
I Trattati ed i Sermoni di Eckhart esibivano tratti nei confronti
del non-concetto di Dio come risultato di
un tormentato percorso speculativo che sfidava
uno dei pilastri delle convinzioni luterane:
l'aver ricevuto la grazia di credere. Con Eckhart si era giunti troppo
vicini al provare per credere, a patto che l'individuo fosse già orientato
alla ricerca del bene. Probabilmente, per afferrare qualcosa del
pensiero di Erckhart è necessario cogliere
una distinzione apparentemente assurda: quella
tra Divinità e Dio. La Divinità è la costante
potenzialità che contiene in sé tutte le
distinzioni non ancora sviluppate e maturate.
Pertanto la Divinità non può essere oggetto
di culto e di conoscenza. E' Oscurità - anche
Schelling parlerà nei suoi scritti teologici
di "un fondo scuro" in Dio - è
ciò che non ha forma. Al contrario, la santa
Trinità è "ciò che si evolve",
è "ciò che fluisce". Su tale distinzione
si comprende meglio il senso di espressioni
come questa: «L'anima,di solito, qualunque
cosa compia la compie con le proprie facoltà.
Quando comprende, comprende con il proprio
intelletto. Quando ricorda, lo fa con la
propria memoria. Quando ama, lo fa con la
propria volontà Essa perciò opera con le
proprie facoltà e non con la propria essenza.
Ogni atto esteriore è collegato a qualche
mezzo. Il potere di vedere si realizza solo
per mezzo degli occhi; altrimenti essa non
potrebbe realizzare un atto come il vedere.
E lo stesso accade con gli altri sensi; le
loro operazioni sono effettuate sempre per
mezzo di qualche strumento. Ma nell'essenza
dell'anima non c'è alcuna attività; le facoltà
con cui essa opera scaturiscono dal fondo
dell'essenza, e nel suo vero fondo vi è silenzio
assoluto; qui soltanto c'è quiete e la sede
appropriata per questa nascita, per questo
atto, per mezzo del quale Dio-Padre pronuncia
il Verbo; infatti l'anima ha la potenzialità
intrinseca di ricevere l'essenza divina,
senza strumenti. Qui Dio entra nell'anima
con tutto se stesso, e non solo con una parte.
Dio entra nel fondo dell'anima. Nessun altro,
oltre a Dio, può toccare il fondo dell'anima.
Nessuna creatura viene ammessa nel suo fondo,
ma deve fermarsi al di fuori nelle sue facoltà.»
Da cui viene la domanda. «Che cosa
deve fare un uomo per meritare e procurare
questa nascita interiore?» Cui segue.
«E' meglio che s'impegni, che immagini
e pensi Dio, oppure che se ne stia in pace
e quiete, in modo che Dio possa parlare ed
agire in lui mentre attende semplicemente
l'iniziativa divina? Desidero ripetere che
questo parlare, questo agire divino, è soltanto
per i buoni e perfetti, per coloro che hanno
così assorbito e assimilato l'essenza della
virtù che essa scaturisce da loro spontaneamente,
senza nessuna ricerca; e soprattutto devono
essere vivi in loro la nobile esistenza e
l'elevato insegnamento del nostro Signore
Gesù Cristo.» (tutte le citazioni dal
Sermone I. scritto appositamente per la Stille Nacht, in preparazione alla rinascita del Verbo
interiore)
Ovviamente, le mie affermazioni sul silenzio
di Lutero a proposito di Meister Eckhart
necessitano di una verifica. Per certi aspetti,
infatti, è sorprendente che Lutero abbia
pubblicato, scrivendo un'introduzione, il
libretto di autore anonimo - si dice un cavaliere
di Francoforte - che sostanzialmente aveva
ripreso, sebbene in forma assai meno speculativa,
alcune tematiche di Eckhart. E' molto interessante
questo passaggio: «All'inferno brucia
soltanto la volontà personale. Ecco perché
è stato detto "se elimini la tua volontà,
eliminerai l'inferno." Ora, Dio desidera
ardentemente aiutare l'uomo e fargli raggiungere
ciò che per lui è meglio e che è meglio in
generale. Ma, a questo scopo, l'intera volontà
personale deve essere eliminata, come abbiamo
detto. E Dio sarebbe lieto di dare all'uomo
il suo aiuto e inoltre di consigliarlo, perché,
finché l'uomo ricerca il proprio bene, non
cerca ciò che è meglio per lui, né mai lo
troverà. Il più alto bene, per un uomo, dovrebbe
essere, e in effetti è, il non cercare né
se stesso né i propri interessi; egli non
deve porsi come fine a se stesso sotto nessun
riguardo, né nelle cose spirituali né nelle
cose materiali, ma deve cercare soltanto
la lode e la gloria di Dio e la sua Santa
volontà. Questo ci insegna Dio, e così ci
ammonisce.» (http://www.gregoriopalamas.it/teologia_tedesca.htm - testo completo) In poche righe erano concentrate
considerazioni degne di essere rinviate a
tutta la storia della filosofia, compresa
quella futura, da Platone a Schopenhauer,
appunto. Ma, dal punto di vista dell'individuo
e di quella che si potrebbe chiamare "speranza
di realizzazione" nella società concreta,
suonava come una veglia funebre. Non è quindi
sorprendente che il libretto sia stato attaccato
e scomunicato da Calvino. Le strade della
Riforma cominciavano a separarsi, e non fu certamente
un caso che uno degli oggetti della contesa
fosse il pensiero dell'anonimo cavaliere
teutonico. Ci torneremo, dopo un necessario
viaggio in Italia, culla del Rinascimento,
della corruzione ecclesiastica e della magia.
Digressioni platonico-aristoteliche, un Concilio
apparentemente conciliante
e un tocco di
magia
Per avere un quadro più esatto del dibattito
europeo tra i dotti sul problema di Dio e
del suo ruolo nella determinazione del mondo,
dobbiamo spingere lo sguardo oltre il romanzo
della vita di Lutero, delle vicende tedesche.
e del dibattito tra i riformati.
Una delle questioni è stata
ben individuata
da Sergio Landucci in I filosofi e Dio. (9) Aristotele non può essere il fondamento
di una dottrina creazionista. Si ritorna
così alle questioni sollevate dalla condanna
del vescovo Tempier. L'azione di una potenza
sovrannaturale è limitata alle qualità noetiche
della conoscenza e al riconoscimento di Dio
quale causa finale, il motore immobile che
attrae per amore e genera il movimento. Al
più, speculando sul termine "motore",
si può far coincidere la causa finale con
quella efficiente. Il motore genera movimento.
Il passaggio dal piano fisico a quello biologico
è parzialmente spiegato dalla generazione
spontanea provocata dalla materia organica
in decomposizione. Ma la genesi degli animali
superiori e dell'uomo non ha altra spiegazione
che la fissità e l'eternità della specie.
Sia la vita che gli esseri umani esistono
da sempre. Il divino nell'uomo è l'intelligenza,
stop. Per avere quello che Landucci chiama
artificialismo, ossia un intervento divino nella creazione
della natura, occorre rimontare
a Platone.
E' ciò che fece il Cusano,
il quale fissò
la differenza tra Platone
ed Aristotele nell'ammissione
o meno della creazione.
Cusano era informato
delle filosofie preplatoniche
da Diogene
Laerzio; ma nella sua assimilazione
di Aristotele
ad Anassagora, ripeteva
Giorgio Gemisto Pletone.
Chi era costui? Nato a Costantinopoli attorno
al 1355, era giunto in Italia per partecipare
al Concilio di Firenze del 1439, convocato
per discutere la riunificazione della Chiesa
romana e quella greca. La ricostruzione di
Buonaiuti del Concilio e la figura di Pletone
offre ragguagli indispensabili. «Possiamo
immaginare come i sentimenti dell'adunanza
fossero contrastanti. Che cosa doveva pensare,
ad esempio, di quella riconciliazione, ispirata
unicamente da preoccupazioni di politica
internazionale, come era per esempio per
l'imperatore di Costantinopoli, la minaccia
incombente dei Turchi, Gemisto Pletone, avversario
irreconciliabile del cristianesimo e sognatore
di una revivescenza sincretistica? Più di
un cinquantennio prima, quando sotto il pacifico
Maometto I, i Turchi avevano segnato un trattato
di pace con l'imperatore Emanuele, e cessato
quindi l'incubo del pericolo esterno, era,
sembrato giunto il momento per una riforma
capitale all'interno dell'Impero d'Oriente,
Gemisto aveva indirizzato all'imperatore
un'orazione altisonante in cui, oltre ad
alcuni suggerimenti di tecnica militare difensiva,
aveva dato il consiglio di ricostituire l'unità
spirituale del popolo, abolendo la professione
cristiana, e ritornando all'antica religione
ellenica, a cui la Grecia di Platone aveva
dovuto la sua impareggiabile grandezza. E
pochi anni più tardi Gemisto, con la sua
opera capitale intitolata Leggi, era tornato alla carica, mostrando come
ad una riforma integrale
ed organica della
struttura giuridica e sociale
dell'Impero,
non avrebbe dovuto mancare
una trasformazione
completa della mentalità
religiosa e delle
tradizioni sacre. La riconciliazione
ecclesiastica
di Firenze non doveva apparire
decisione propizia allo spirito del vecchio mistico platonizzante.»
(10) Il giudizio su Gemisto Pletone "anticristiano"
pare suffragato dai dati in possesso di Buonaiuti.
Resta che il pensiero di Pletone si fece
valere sugli orientamenti di Bessarione di
Trapezunte, primate della legazione greca
al Concilio, e che anche mediante il suo
pensiero, si diffuse in Italia una forte
corrente neo-platonica, influente su precise
e documentate tendenze a recuperare una dimensione
magica e mistica dell'esperienza umana. Altro
potenziale polo d'attrazione fu il coevo
bizantino Giorgio Argiropulo. Marsilio Ficino
e Giovanni Pico della Mirandola, per intenderci,
passarono da Gemisto, Bessarione ed Argiropulo,
insieme a Cusano. Bessarione non rientrò
a Bisanzio, rimase in Italia e fu nominato
cardinale della Chiesa cattolica. L'unità
raggiunta a Firenze tra latini e greci durò
assai poco. Cusano cominciò ad affermare
l'identità degli opposti, mettendo esplicitamente in discussione
il principio aristotelico-tomista della non-contraddizione
come fondamento della conoscenza.. Nel 1453,
Bisanzio-Costantinopoli fu conquisatata dai
turchi di Maometto II a suon di cannonate
che sparavano pesanti palle di pietra. Queste,
frantumandosi contro le imponenti mura di
cinta, e contro gli edifici oltre le mura,
schizzavano schegge letali. Finiva l'impero
romano d'oriente, ma anche il rinnovato impero
d'occidente non se la passava troppo bene,
essendo ormai destinato a spezzettarsi in
principati autonomi, monarchie nazionali,
libere repubbliche come quelle marinare sorte
in Italia., nonché una Chiesa ostinata nel
ritenersi una potenza politica. Senza contare
che l'espansionismo turco avrebbe potuto
diventare ben presto una minaccia per tutto
l'occidente latino.
Scienze occulte
Nell'eccellente impostazione di Landucci,
la questione sembra limitarsi ad una disputa
su chi, tra Aristotele e Platone, fosse considerato
maggiormente "anticipatore" del
pensiero cristiano. Indagine che porta a
scoprire vicende intellettuali interessanti,
quali quelle di Bessarione, Pomponazzi e
Vimercati, che conduce alla correzione di
luoghi comuni come quello di Pomponazzi "purissimo
aristotelico", ma che non tocca questioni
più profonde, le quali stavano alle spalle
delle convinzioni filosofiche e teologiche.
Come si vedrà, buona parte del problema che
avevano a cuore degli intellettuali del Rinascimento
era di carattere esoterico, nel senso che non tutto quello che veniva scritto corrispondeva a
quello che era stato oggetto di preoccupazione
e meditazione. Il motivo era duplice. Da
un lato, il clima non era favorevole alla
libera circolazione delle idee . specie quelle
esplicitamente critiche nei confronti del
potere politico ed ecclesiastico - dall'altro
tornava immensamente comodo ammantarsi e
spacciarsi come detentori esclusivi di un''antica
scienza dimenticata e, comunque, occulta. Queste considerazioni rischiano, ovviamente,
di gettare cattiva luce su un gran numero
di pensatori in buona fede, ma è un rischio
che vale la pena di correre se si è armati
di magnanimità. Le parole chiave sono: divinazione, astrologia, alchimia e magia. Una trattazione unitaria di queste discipline
distinte o non esiste, o appartiene a quella
grossolanità pressapochista tipica del mondo
intellettuale dei ciarlatani e non a quello
della sensata ricerca storica.
La più misteriosa e negletta tra le discipline
fu l'alchimia, una pratica che imponeva di
"sporcarsi le mani" con i vili
materiali, e che spesso si risolveva - la
cosa può far sorridere - in ricette gastronomiche
e bevande tipo elisir. Era la timida alchimia
dei buoni frati baconiani. Sciroppi e tisane.
Ad essa si opponeva la presunta cattiva alchimia
degli stregoni e delle streghe, del tipo
"aglio e prezzemolo" per procurare
aborti, anche involontari. Se non si tiene
conto che a volte l'aborto è necessario per
i più svariati motivi, la ricetta dell'aglio
e prezzemolo diventa sapere del demonio.
A questa alchimia elementare - nel significato
di sostanze mescolate l'una all'altra in
intima fusione e reazione - si opponeva un
sapere simbolico e ieroglifico assai più
torbido e sospetto. Introducendo una lepre
- simbolo della velocità - nella stanza di
una donna gravids, si acceleravano i processi
biologici del parto, dando luogo ad una diminuzione
temporale dei dolori. Ma si potevano anche
procurare aborti ed espulsioni premature.
Credenze di questo genere - ormai lo si può
asserire con certezza - appartenevano all'ordine
della magia teorica assai più che a quello
dell'alchimia empirica e delle credenze popolari.
Tuttavia, con altrettanta certezza, si tratta
di riconoscere che senza una primitiva credenza
popolare, non si sarebbe mai data una magia
simbolica come quella della lepre. In termini
di psicologia contemporanea, la presenza
di una lepre nella stanza di una donna gravida
provoca sentimenti di angoscia che alterano
la situazione di tranquillità che dovrebbe
caratterizzare la situazione psichica della
puerpera.
La domanda investe il carattere dell'alchimia.
può venir considerata esclusivamente come
scienza empirica? E perché mai la magia centrata
sui simboli dovrebbe venir trattata esclusivamente
coem sapere teorico?
Ciò, tutto sommato, conduce
ad un punto morto,
perché, alla fine di un'estenuante
discussione,
non credo se ne verrebbe
realmente a capo.
Il mito del demiurgo proposto
da Platone
non deriva necessariamente
dalla conoscenza
delle scritture giudaiche,
essendo elemento
condiviso dalla mitologia
mesopotamica e
da altre ancora. Poi si
tratterebbe di stabilire
quale fosse il vero significato
della parola
"dio" sia per
Platone che per Aristotele.
Nessuno dei due aveva certamente
in testa
l'idea del "giudice"
che sentenzia
su chi deve andare all'inferno
o al purgatorio.
Sulla questione della sopravvivemza
dell'anima,
inoltre, si potrebbe ancora
discutere all'infinito.
Se intesa nel significato
di psiche, o qualcosa di più essenziale. Nella dottrina
paolina della resurrezione
della carne, la
psiche muore, non per risorgere
tale e quale.
E' l'individuo a risorgere
in un corpo incorruttibile
come quello guadagnato
da Gesù. Si ha a che
fare con un massimo di
spiritualismo, l'annichilimento
della psiche legata alla concupiscenza materiale, il
sonno della morte, ed un massimo di materialismo,
il ricevimento di un corpo nuovo ed incorruttibile.
Le difficoltà sono queste e non sono conciliabili
se non nella formula generica di vita ultraterrena, della quale non sappiamo nulla. L'immaginazione
più fervida ha posto come premio finale la
visione di Dio. L'ateo burlone si mette a
ridere e ribatte "sai che palle".
Cecco Angiolieri rischia di battere Dante
Alighieri sia in casa che in trasferta. Bisogna
leggere il Paradiso di Dante, ovviamente, per avere una visione
filosofica della suprema beatitudine, ma
nulla garantisce che esista un cielo e che
sia così. L'invettiva di Pietro contro i
pontefici corrotti nel XXVII canto del Paradiso riporta coi piedi per terra.
«Se io mi trascoloro,
non ti maravigliar; ché,
dicend'io,
vedrai trascolorar tutti
costoro.
Quelli ch'usurpa in terra
il luogo mio,
il luogo mio, il luogo
mio, che vaca
nella presenza del Figliuol
di Dio,
fatt'ha del cimiterio mio
cloaca
del sangue e della puzza;
onde 'l perverso
che cadde di qua su, là
giú si placa».
Arrivati così in alto nella visione, ci si
trova risospinti in basso, a curarsi delle
vicende terrene. Verrebbe da chiedersi se
il messaggio contenuto nella Tavola di smeraldo, un testo di alchimia, di origine araba,
ma tradotto in latino, abbia valore di verità.
«Verità senza menzogna,
certa, assolutamente
vera
Ciò che è in basso è come
ciò che è in alto
e ciò che è in alto è come
ciò che è in basso,
per compiere i miracoli
dela realtà unica.
E come tutte le cose ebbero
origine dall'uno
nella disposizione di un'unica
cosa,
così tutte le cose nacquero
da questa realtà
unica
una volta ottenuta tangibilmente.
Suo padre è il Sole, sua
madre è la Luna,
il Vento l'ha portata nel
suo grembo,
la Terra è la sua nutrice.
Genera tutte le virtù segrete
di questo mondo
La sua potenza è completa se si trasforma
in terra.
Separerai la terra dal
fuoco, il sottile
dal denso
con dolcezza e con grande
attenzione.
Sale dalla terra al cielo , poi scende di
nuovo sulla terra,
riceve la forza di ciò
che è in alto e di
ciò che è in basso
Così otterrai la gloria
di tutto il mondo
e si allontanerà da te
ogni oscurità.»
Sicché, quando entra in ballo il termine
"magia", la faccenda si complica
non poco. Il dio del neoplatonismo rinascimentale
non si era limitato a forgiare il mondo,
ma a mostrare agli uomini a dominarlo mediante
la magia. Anche trascurando tutti i Dialoghi platonici in cui si condannano il ricorso alla magia
ed ai trucchi verbali dei
ciarlatani, e quindi
ricorrendo alle cosiddette
dottrine esoteriche
non scritte. Fragile fondamento
fin che si
vuole, ma quando nella
testa dei pensatori
entra la suggestione di
un vero Platone da contrapporre a quello apparente,
non ci sono argomentazioni che tengano. Diventa
fede cieca inei confronti di un'altra verità,
più o meno alternativa a quella ufficiale
dei testi scritti. Se non fosse che le dottrine
esoteriche giunte alla conoscenza degli intellettuali
rinascimentali erano tutte di molti secoli
posteriori a Platone, non varrebbe nemmeno
la pena di discuterle. Un nutrito gruppo
di studiosi ha provato a sostenere che il
mito di Ermete Trismegisto, unica fonte di
autentiche conoscenze sovraumane, con tutti
gli annessi e connessi, fu un'invenzione
della tarda antichità successiva a Cristo,
cui concorsero in diversa ed individuabile
misura, uomini come Celso, l'imperatore Giuliano
l'apostata, Plotino, Giamblico, Porfirio
e Proclo, nonché tanti anonimi autori di
testi magici. Sullo sfondo le dottrine gnostiche
di Basilide e Valentiniano, convinti di avere
in pugno le verità supreme. Tra gli scrittori
cristiani della prima ora, il mito di Trismegisto
era stato accolto, se non esaltato, da Lattanzio,
lo stesso individuo che dichiarò la terra
piatta, una specie di zatterone posto al
centro dell'universo. Non si tratta di infierire
sul povero Lattanzio, uno dei tanti illusi
convinti di possedere la sapienza superiore,
ma solo di prendere le giuste misure alla
verità storica. Una delle cose di cui si
va certi è che Lattanzio fu scelto da Costantino
come precettore per il proprio figlio.
Magia contro astrologia, o meglio: autodeterminazione
contro determinismo e fatalismo
L'astrologia predittiva ha una vocazione
deterministica, saltuariamente temperata
dalla modestia e dal buon senso di chi la
usa. Gli astrologi sono convinti di azzeccare
le loro previsioni, altrimenti non le farebbero.
Vi sono altri modi di divinare il futuro,
e praticamente non c'è popolo e civiltà antica che non abbia espresso uno o più sistemi
di divinazione, compresa l'interpretazione
dei sogni (Giuseppe in Egitto) e l'esplorazione
delle visceri degli animali sacrificati.
Ai tempi che stiamo considerando era diffusa
la chiromanzia, ed è sbagliato considerarla
una sottoarte divinatoria destinata alle
ignoranti zingarelle. Pietro Pomponazzi cercò
di elevarla a materia di insegnamento universitario.
(11)
In sostanza, quando viene
emesso un verdetto
di tipo divinatorio, chi
lo riceve risulta
informato del proprio destino
spesso spiacevole.
L'astrologia ereditata dagli intellettuali
rinascimentali dipendeva in misura essenziale
dal pensiero di al-Kindi, soprattutto sotto
il profilo ideologico della considerazione
del valore della disciplina. Quanto ai metodi,
il serbatoio era sincretistico e variava
in misura considerevole in ragione dei testi
disponibili, sparpagliati in biblioteche
spesso geograficamente distanti l'una dall'altra.
Poter attingere ad un testo in arabo in un
luogo in cui nessuno era in grado di tradurlo
non rendeva la vita facile. Con l'invenzione
della stampa e l'intensificazione degli scambi,
la situazione migliorò relativamente. Molti
testi finirono all'indice e non vennero mai
stampati. Altri finirono nel dimenticatoio
senza nessuna apparente ragione. Ancora Galilei
insegnò astrologia all'università di Padova.
Quale astrologia insegnò non ci è dato di sapere,
per ora.
L'astrologia è sempre stata la più attraente
di tutte le teorie e pratiche previsionali,
perché legata a fattori visibili ed osservabili
come il movimento dei corpi celesti, inteso
come macrocosmo, il quale incide sul microcosmo
ritagliato sulla carta di nascita dell'individuo
vivente. Rispetto a tutte le altre pratiche
previsionali, richiede un grado superiore
di capacità intellettuali e matematiche,
nonché una lunga esperienza, spesso costellata
di errori. Diventare l'astrologo ufficiale
di qualche potente signorotto non è sicuramente
una bella vita. In ogni caso, sembra chiarito
che non è la sapienza astrologica oggettiva
a fare l'astrologo veramente in gamba, ma
l'astrologo dotato di intelligenza ed intuizione
a fare la propria abilità interpretativa,
con studi spesso estenuanti di sapienza oggettiva
ed inaspettate scoperte di eccezioni alle
regole, che consumano una vita intera. Per
arrivare a che? Probabilmente, il sogno dell'epistemologia
assoluta, l'illusione frustrata di pervenire
al punto di vista di Dio sul destino di singoli
individui, od anche al punto di vista del
demone di Laplace, ed in sottordine al diavoletto
di Maxwell. Alle pretese deterministiche
degli astrologi, o meglio, di una consistente
parte di essi, si ebbe una reazione. I seguaci
della magia, tra cui Marsilio Ficino e Giovanni
Pico della Mirandola, pretesero a loro volta
di mostrare che gli uomini si possono sottrarre
al determinismo astrologico ed oracolare
mediante una vita di magie. Una di queste,
nell'interpretazione di Filippo Melantone,
il braccio umanistico e rinascimentale di
Martin Lutero, si realizzò nel cambiare l'oroscopo di Lutero. Melantone, che non
era sicuramente uno stupido, pensò di giovare
al suo caro amico, mutandone la data di nascita.
(12) Il che non gli impedì di erigere in
ripetute occasioni previsioni di morte imminente
per Lutero. (13) I tentativi invero un po'
goffi e pasticciati di Melantone, trovavano
spiegazione nelle dottrine di diversi maghi
e filosofi. Tra questi, indubbiamente, la
figura di Marsilio Ficino spicca sia per
chiarezza che per oscurità di pensiero. (14)
Alcune parti cozzano frontalmente con le
convinzioni moderne e contemporanee dominanti.
Può l'utilizzo di talismani offrire sicura
protezione alla sfortuna pronosticata da
un oroscopo? Ficino cominciò a rispondere
sì, asserendo che il talismano incorpora
potenza celeste e recondite armonie. Se l'abitazione
diventava essa stessa un talismano, l'effetto
protettivo aumentava. L'architettura del
tempo incorporava questi principi, pittori
e scultori s'ingegnavano per servire l'ideale.
L'apogeo della dottrina ficiniana si può
trovare nel duomo di Siena, soprattutto nel
celebre pavimento. Il punto debole della
teoria magica, ovvero la sua falsificazione, sarebbe facile da trovare. Di fronte ad
eventi come la peste nera
che aveva colpito
tutta l'Europa tra il 1347
e il 1353, la
magia non aveva funzionato.
Il problema non
era estetico, ma igienico. Una delle spiegazioni, infatti, rimonta
all'insufficienza parziale o totale di un
sistema di smaltimento dei rifiuti organici
e di una rete di fognature. L'illusione di
potersi blindare in palazzi foggiati sul
principio delle armonie celesti si frantuma
praticamente di fronte ai veicoli d'infezione
assai più potenti. Firenze era stata, tra
l'altro, una delle città più colpite, a differenza
di Milano, che stranamente costituì una specie
di isola felice, assieme ad un'ampia zona
con l'epicentro attorno a Cracovia.
Tuttavia, il pensiero di Ficino merita un
supplemento di attenzione perché il fervore
dell'attivista indefesso contiene sempre
un fondo di verità. In Ficino si può trovare
la verità delle più antiche professioni mediche,
quando gli uomini lottavano contro la malattia
senza sapere che pesce pigliare,.da dove
cominciare. La magia di Ficino diventa più
comprensibile se viena vista come parte integrante
del sapere terapeutico, ovviamente quello
dei tempi. L'azione magica iniziava dai talismani,
procedeva attraverso le abitazioni, per arrivare
alla cura del corpo e della mente. Era una
ribellione al destino inesorabile decretato
dai deterministi da un lato, dai fatalisti
dall'altro, essendo questa una tipologia
caratteriale diffusa in ogni grado della
gerarchia sociale . Ma, uno dei suoi presupposti
era la conoscenza dell'astrologia. Il gatto
si morde dunque la coda. Nell'oroscopo di
Ficino un buon astrologo avrebbe potuto "vedere"
ed intuire la sua predestinazione alla magia,
e la lotta al fatalismo. Non si può dubitare
del fatto che lo stesso Ficno si fosse fatto
un oroscopo e lo avesse confrontato con altre
interpretazioni del suo.
La domanda dello storico potrebbe concentrarsi
su un punto prioritario. Era davvero necessario
che l'atteggiamento di Ficino nei confronti
della magia passasse per il ricorso alla
credenza di una superiore "rivelazione"
di verità supreme provenienti dalla tradizione
del Trismegisto e della sapienza conservata
nella città santa di Ermopoli, in cui, secondo
Ficino, studiarono praticamente tutti gli
illuminati dell'antichità, compreso lo stesso
Gesù.? La risposta è disarmante. Sì, era
necessario per Ficino, il quale aveva postulato
una evidenza suprema originaria. Il suo fu
un tentativo di raccontarne la genealogia., muovendo dalla convinzione di una derivazione
comune del pensiero di Mosè e di quello della
più antica sapienza egiziana. Convinzione
del tutto legittima esaminando le scritture.
Mosè aveva studiato in Egitto. Poi, dopo
l'uccisione di un aguzzino, era fuggito nel
deserto, approdando tra i nomadi della tribù
di Jethtro. Per una mentalità come quella
di Ficino era del tutto incomprensibile che
proprio l'esperienza dell'incontro con una
civiltà inferiore, più semplice e meglio
amministrata di quella egiziana, avesse inciso
radicalmente sul senso di Dio e la sua giustizia
nell'uomo Mosè. Eppure è questo il significato
originario della scrittura. Tutto il ricamo
magico-miracolistico che la rende incredibile
e perfino ridicola agli occhi dei moderni
ha sortito il nefasto effetto di allontanare
gli studiosi e gli esegeti dalla verità.
Probabilmente, non ci fu un esodo ma solo
la fuga di alcuni gruppi. Forse, non ci fu
nemmeno un Mosè, un'invenzione letteraria.
Però ci fu chi scrisse il Decalogo, e questa
è la verità storica. Altro fatto su cui meditare:
la scrittura, ossia il sistema di segni impiegato
per comunicare, era alfabetico-consonantico,
e non ieroglifico. Lo aveva inventato Ermete
Trismegisto? La debolezza filologica di Ficino
di fronte ai fatti nudi e crudi narrati nelle
Scitture non può che sorprendere negativamente.
Età dell'oro, età di dolori
Secondo diverse fonti, la crescita esponenziale
di un interesse attivo per la teoria e la
pratica magica rinascimentale, fu dovuto
all'affermarsi di un paradigma illustrato
da Frances A. Yates. «I maggiori e
più avanzati movimenti del Rinascimento derivano
tutto il loro vigore, il loro impulso essenziale,
guardando al passato. La concezione ciclica
del tempo inteso come un moto perpetuo avanzante
da primitive età dell'oro, dominio della
purezza e della verità, attraverso successive
età bronzee e ferree, era quello dominante
e perciò la ricerca della verità veniva ad
identificarsi con la ricerca di quell'oro
primitivo, antico e originario, rispetto
al quale i più vili metalli dell'età presente
e di quella immediatamente trascorsa, costituivano
corrotte degenerazioni.» Ancora. «L'umanista,
mentre veniva recuperando la letteratura
e i monumenti dell'antichità classica, provava
la sensazione di fare ritorno ad un'aurea
e genuina civiltà di gran lunga superiore
alla propria. Il riformatore religioso tornava
allo studio delle scritture e degli antichi
Padri provando la sensazione di un recupero
del tesoro genuino del Vangelo, rimasto sepolto
sotto le successive degenerazioni.»
(15)
Abbracciare in un unico concetto fenomeni
così diversi come il rimpianto dell'oro e
quello del Vangelo, mi pare francamente insostenibile..
Il ritorno al Vangelo è una costante di tante
storie individuali. Praticamente non c'è
giorno in cui non accadde e non accada qualcosa
del genere. Diversamente, l'auspicato ritorno
all'età dell'oro, fu sostanzialmente una
moda culturale, anche a sbottonarsi per dichiararla
una corrente filosofica. L'età dell'oro è
un mito greco e non una verità storica, e
quindi nemmeno una verità cristiana, se i
cristiani credono alla verità delle loro
scritture. Nel paradiso terrestre non c'era
oro ma ricchezza naturale. Inoltre, il mito
greco si lega alla figura di Saturno, non
a quella del Sole, di Giove e di Venere.
Se poi si guarda alla sostanza della lezione
biblica, l'età dell'oro è sempre stata il
paese di bengodi di lor signori, tutti gli
altri a lavorare come schiavi. Il Vangelo
sorse in un'epoca tra le più ferree e desolanti,
diventando oro interiore, ovvero padronanza
di sé e rispetto del prossimo in una società
in cui la vita umana aveva un valore relativo,
come nell'antico Egitto esaltato dai maghi,
e come nella malfamata Babilonia, concentrazione
di tutte le iniquità e di tutti gli imbrogli
religiosi e magici.
Anche Buonaiuti, pur avendo una più consistente
visione cristiana delle cose rispetto alla
Yates, non ebbe particolari remore nel riconoscere
ad alcuni maghi come Giovanni Pico della
Mirandola la patente di una fervente fede
cristiana. Tuttavia, a proposito di Marsilio
Ficino, osservò: «Si illudeva Marsilio
Ficino di riprodurre Agostino, ma l'Agostino
dell'Accademia platonica fiorentina è l'Agostino
di Cassiciacum, l'Agostino iniziato alla
conoscenza di Plotino dall'anonimo amico
milanese, cui si accenna vagamente nelle
Confessioni. L'Agostino che aveva dato una teologia e
una filosofia della storia al Medioevo era,
invece, l'Agostino della polemica antipelagiana
e del De Civitate Dei. Con il rinato dualismo Agostino si era costituito
dottore della grazia. Attenendosi unicamente
all'Agostino dei Dialoghi e delle opere antimanichee, Marsilio Ficino
registrava l'atto di morte del cristianesimo
costruttivo del Medioevo. In realtà, il sincretismo
filosofico è la caratteristica dell'insegnamento
ficiano.» (16) E qui Buonaiuti ricorrse
ad una citazione di Marsilio: «Ermete,
il massimo sacerdote e re dell'antico Egitto,
condivise appieno l'insegnamento di Mosè
e fece sua in ciò la sapienza ebraica. Platone
era così permeato di lui che può essere designato
come un Mosè che parla greco. Zoroastro,
considerato da molti come maestro della teurgia,
della Cabbala e della magia, non aveva altro
di mira che conoscere ed adorare Dio... Numenio,
Ammonio, Plotino, Amelio, Giamblico, avendo
tutti letto il Vangelo di Giovanni e oltre
questo i libri di Dionigi l'Areopagita, ne
presero cose arieggianti il mistero della
Trinità e ne derivarono nomi e ordini di
angeli, come cose perfettamente coerenti
all'insegnamento di Platone, discepolo di
Mosè, per cui Aurelio Agostino, già altra
volta platonico,e argomentante in cuor suo
di una possibile professione cristiana, avendo
trovato tutto ciò nei libri platonici, e
avendo constatato come le sacre realtà cristiane
avevano trovato suffragio nella imitazione
di costoro, rese grazie a Dio ed apparve
pronto ad accogliere la verità cristiana...
Non è senza decreto della Divina Provvidenza,
la quale ha voluto tutto chiamare a sé a
norma del genio di ciascuno, che si è verificato
che una certa pia filosofia nascesse prima
presso i Persiani e gli Egiziani, si nutricasse
presso i Traci per opera di Orfeo, raggiungesse
la sua adolescenza presso i Greci e gli Italici
sotto Pitagora, per giungere con Platone
alla sua più alta manifestazione.»
Ora è dubbio che tutti i pensatori antichi
citati da Ficino abbiano letto, e poi compreso,
il Vangelo di Giovanni. Nelle loro opere
non c'è alcun riferimento esplicito a verità
cristiane. Con molte riserve si potrebbe
solo accennare a vaghe convergenze spirituali
che, tuttavia, non portarono ad una vera
e reciproca comprensione. I motivi sono diversi,
ma si possono ricondurre ad un comune irrigidimento.
I filosofi pagani guardarono al costituirsi
del movimento cristiano con l'altezzosità
tipica di chi è convinto di possedere verità
ben più nobili. D'altro lato, i convertiti
al cristianesimo reagirono esibendo le loro
ragioni o in modo altrettanto dogmatico,
o in modo confuso e balbettante. Se ci fu
confronto, fu dialogo tra sordi. Purtroppo,
leggendo le carte, si ha spesso la sensazione
che c'è qualcosa di peggio rispetto alla
discussione tra sordi: il confronto-scontro
tra esaltati. A cui si aggiunge la "diabolica"
capacità politica di strumentalizzare gli
esaltati per fini di potere e di ricchezza.
(continua)
Introduzione e prima parte
Note
1) Ernesto Buonaiuti -
Storia del cristianesimo - Newton Compton 2002
2) Fumagalli Beonio Brocchieri e Parodi - Storia della filosofia medioevale - Laterza 2002 / Anche Edward Grant concorda sulla sopravvivenza
di Nicola in Le origini medioevali della scienza moderna
- Einaudi 2001
3) si vedano: Attilio Agnoletto - Lutero - Mondadori 1986 e Roger H. Bainton - Martin Lutero . Einaudi ristampa 2013
4) Agnoletto, cit.
5) Bainton, cit
6) metànoia, termine di origine greca, composto
di meta (dopo, oltre, cambio di prospettiva)
e nous (intendere, pensare, comprendere).
Profondo mutamento nel modo di pensare, di
sentire, di giudicare le cose. Rispetto alle
scritture neotestamentarie, il termine significa
capovolgimento e conversione che si devono
operare in chi aderisce al messaggio di Cristo
incondizionatamente.
Nella liturgia greca, atto reverenziale (compiuto,
per es., davanti a un’icona, o entrando nella
chiesa), consistente in un inchino profondo,
fino a toccar terra con la mano destra, seguito
dal bacio delle estremità delle dita riunite
(sempre della mano destra) e dal segno di
croce. Il secondo significato deriva dal
vocabolario Treccani on line e può necessitare
di approfondimenti.
7) Buonaiuti, cit.
8) Bainton, cit.
9) Sergio Landucci - I filosofi e Dio - Laterza 2005
10) Buonaiuti, cit.
11) Paola Zambelli - L'ambigua natura della magia - Il Saggiatore 1991
12) Bainton, cit.
13) Agnoletto, cit.
14) Frances A. Yates - Giordano Bruno e la tradizione ermetica - Laterza 2000
15) Yates, cit.
gm - 20 settembre 2013
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Platone - Leggi
maghi e sofisti (prestigiatori di retorica
assimilati ai maghi) «con il loro disprezzo...
si impadroniscono dell'anima di molti...
e si vantano di saper evocare i morti e promettono
di persuadere gli dei allettandoli ciarlatanescamente
con sacrifici, preghiere e scongiuri, e intraprendono
a scardinare dalle fondamenta individui,
intere famiglie e stati per avidità di denaro.»
(Leggi, X)
Anselmo d'Aosta - benedettino e dottore della
Chiesa
«Insegnami a ricercarti, mostrati a
chi ti desidera. Non mi è concesso di cercarti
se tu non mi ammaestri Ti cerchi io dunque
con desiderio, ti desideri nella ricerca,
ti trovi nell'amore, ti ami nel trovarti.»
«O Signore Dio mio, tu esisti
con tale
reale verità che a buon diritto non
ti si
può neppur pensare come non esistente.
Che
se ci fosse un intelletto umano capace
di
raffigurarsi qualcosa di più grande
di te,
vorrebbe dire che la creatura sopravanza
il Creatore e si atteggerebbe a giudice
del
Creatore: il che è l'assurdità spinta
agli
ultimi limiti»
Anselmo d'Aosta
Tommaso d'Aquino - domenicano e dottore della
Chiesa
La quarta prova dell'esistenza di Dio
«La quarta via è ricavata dalla molteplicità
di gradazioni di essere e di perfezione
delle
cose. Il più e il meno si predica di
numerosi
soggetti in ragione del loro vario
accostarsi
alla perfezione assoluta delle loro
qualità
derivate. Il vero, il bello e il buono,
che
sono disseminati nella più policroma
diversità
nel mondo, esigono e postulano l'esistenza
del massimo vero, del massimo bello,
del
massimo buono, che è perciò stesso
massimamente
essere. Ora la perfezione di un genere
è
la somiglianza di tutte le realtà parziali,
che in quel genere rientrano. Esiste
dunque
una sostanza prima, da cui rampolla,
come
da causalità sussistente, quanto di
essere
e con l'essere, di buono e di vero,
e al
mondo tale sostanza battezziamo col
nome
di Dio»
Tommaso d'Aquino: bozza d'una biografia
non
autorizzata
Gugliemo di Ockham - francescano scomunicato
«Qualsiasi cosa realmente prodotta
da un ente, per tutto il tempo in cui si
mantiene nell'essere reale viene conservata
da un ente; ora è certo che il mondo è prodotto,
dunque è conservato da un ente per tutto
il tempo in cui si mantiene nell'essere.»
Gugliemo di Ockham - considerazione sulla
salvezza
di chi sta fuori dalla Chiesa
«Non è impossibile che Dio ordini che
colui che vive secondo i dettami della retta
ragione e non crede nulla che non gli sia
dimostrato dalla ragione naturale, sia degno
della vita eterna. In tal caso, può anche
salvarsi chi nella vita non ebbe altra guida
che la retta ragione.»
(da Quodlibeta, III)
Marsilio da Padova
«Ma se la legge umana non vieta
che
l'eretico o qualunque infedele conviva
nella
stessa regione insieme ai fedeli, io
dico
che non spetta ad alcuno giudicare
e punire
l'eretico o l'infedele con una pena
o punizione
nella persona o nella proprietà nello
stato
della vita presente. E la causa generale
di ciò è la seguente: nessun uomo che
pecchi
contro qualsiasi disciplina teoretica
o pratica
può essere punito in quanto tale, in
questo
mondo, bensì solo in quanto pecca contro
il comando della legge umana»
(Defensor pacis, II)
Marsilio da Padova
«L'ufficio di governante coattivo nei
confronti di qualsiasi individuo o gruppo
non spetta al pontefice romano né ad alcun
altro vescovo o presbitero. E ciò è quanto
sostiene anche Aristotele nei riguardi del
sacerdozio di ogni religione, quando dice
nel quarto libro della Politica: "non si devono considerare governanti tutti quelli che sono stati eletti o sorteggiati,
per esempio i sacerdoti, il cui ufficio
è
diverso dal governo politico.»
(Defensor pacis, I)
peste nera
Nicola Cusano
Marsilio Ficino - prete cattolico e mago
(1433-1499)
«Qualsiasi oggetto materiale, quando
venga posto in contatto con le cose superiori...è
colpito immediatamente da un influsso celeste
tramite quel potentissimo agente, di meravigliosa
forza vitale, che è ovunque presente....
come uno specchio riflette un volto, o Eco
il suono di una voce. Di ciò fornisce un
esempio Plotino quando, imitando Mercurio,
afferma che gli antichi sacerdoti, o Magi,
solevano introdurre qualcosa di divino e
di mirabile nelle loro statue e nei loro
sacrifici. .Egli (Plotino) sostiene, concordando
con Trismegisto, che essi non vi introducevano
spiriti separati dalla materia [e cioè demoni],
ma mundana numina, come ho già detto all'inizio, conformemente
all'opinione di Sinesio, .. Lo stesso Mercurio - seguito da Plotino -
afferma di aver composto, per mezzo di demoni
aerei, e non celesti e superiori, , .. e
servendosi di erbe, alberi, pietre e sostanze
aromatiche, certe statue che avevano in sé
(egli dice) un naturale potere divino. Ci
furono abili sacerdoti egiziani che non riuscendo
a persuadere razionalmente gli uomini dell'esistenza
degli dei, e cioè di spiriti al di sopra
di essi, inventarono quella illecita arte
magica per mezzo della quale, attirando i
demoni, nelle statue facevano sì che queste
sembrassero dei... In un primo momento ho
ritenuto, seguendo l'opinione di san Tommaso
d'Aquino, che, se essi costruivano statue
parlanti, ciò non poteva avvenire soltanto
grazie a influssi stellari, ma anche grazie
all'aiuto di demoni, ... Ma ora ritorniamo
a Mercurio e a Plotino. Mercurio dice che
i sacerdoti estraevano opportune virtù dalla
natura del mondo, e che le mischiavano fra
loro. Plotino lo segue, e ritiene che tutto
possa essere agevolmente conciliato nell'anima
del mondo, perché questa genera e muove.le
forme delle cose naturali per mezzo di certe
ragioni seminali intrinseche alla sua divinità.
Queste ragioni egli le chiama dei, perché
sono separate dalle Idee della mente suprema.»
(da De vita coelibus comparanda)
Pietro Pomponazzi - morto suicida il 18 maggio
1524
«Diciamo con Platone nel Timeo e Aristotele nel XII della Metafisica, che Dio è causa di tutto quanto esista
[...] Secondo i medesimi Platone ed Aristotele,
Dio non causa tutto quanto esista se non
tramite intelligenza e volontà; ragion per
cui disse Aristotele nel medesimo Libro della
Metafisica, che Dio è il primo intelletto e la prima
volontà, e Platone, nel Parmenide, che lascia stupefatti sentir dire che Dio
non avrebbe conoscenza, ed anche nel Filebo. Tutti i sapienti sono d'accordo che a reggere
il cielo e la terra è un intelletto, e che
quindi Dio causa ogni ente per conoscenza
e volontà»
(Tractatus acutissimi, utillimi et mere peripatetici)
Teresa de Capeda y de Ahumada (d'Avila)
«Possiamo dire che i principianti nella
preghiera sono coloro che attingono acqua
dal pozzo, il che è una gran fatica, come
ho detto. Poiché essi devono fare un notevole
sforzo per raccogliere i sensi, quando questi
sono abituati ad una vita di distrazione.
I principianti devono abituarsi a non prestare
nessuna attenzione a ciò che vedono od odono,
e a mettere in pratica tale esercizio durante
le loro ore di preghiera, rimanendo in solitudine
e pensando appartati alla loro vita passata»
Carlo Augusto Viano (da Le imposture degli antichi e i miracoli dei
moderni)
«William Fleetwood, un prelato anglicano,
avvertì subito il pericolo di ammettere violazioni
all'ordine naturale che non fossero miracoli
biblici e sostenne con decisione che il potere
di fare miracoli spetta solo a Dio, e non
al diavolo: così si tagliava corto contro
i pretesi miracoli dei santi cari alla Chiesa
di Roma. A Fletwood rispose un altro anglicano,
Benjamin Hoadley, sostenendo che Dio ha "conferito
potere e conoscenza" in gradi diversi
a "innumerevoli ordini di esseri creati",
sicché ci sono infiniti ordini di creature
sotto gli uomini, ma anche sopra, tutti in
grado di compiere cose che sfuggono alla
nostra comprensione.. Nella disputa tra Fleetwood
e Hoadley intervenne Locke con il Discorso sui miracoli, scritto nel 1702 e pubblicato postumo nel
1706. Secondo Locke quei due non disponevano
di una definizione adeguata di miracolo,
che lui definiva come "una operazione
sensibile che uno spettatore ritiene divina,
perché va al di là della sua comprensione
e, secondo la sua opinione, è contraria al
corso della natura". Così i miracoli
diventano relativi all'idea che ciascuno
ha del corso della natura, e i medesimi eventi
potevano essere miracoli per uno e per un
altro no. Ma una volta che si fossero constatate
eccezioni vistose, numerose e coerenti dell'ordine
della natura, riconoscibili da tutti, quali
che fossero le immagini individuali del corso
della natura, potevano essere accettati come
miracoli quelli che si presentavano come
conferma di una rivelazione.»
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