Ateismo e religione tra Cinquecento e Settecento
Introduzione e prima parte
di Guido Marenco
«Des Périers incarna quella che può
già dirsi l'angoscia esistenziale intrinseca
alla civiltà occidentale, il male di vivere
degli uomini che, insoddisfatti delle risposte
predefinite delle religioni, si volgono alla
ragione per dover constatare che essa è insieme
troppo e troppo poco per chiarire il senso
dell'esistenza. Troppo, perché crea delle
speranze di liberazione e di comprensione
del mistero dell'universo, e troppo poco
perché i suoi limiti si toccano rapidamente
e lasciano nell'animo un senso di amara frustrazione.
La ragione ha un grande poter di distruggere
la fede; ma non ne ha altrettanto per sostituirla;
essa abbatte le certezze, senza però colmare
il vuoto che apre, lasciando così l'uomo
a metà strada, conscio di una sola cosa:
la propria ignoranza, fardello da portare
sulle spalle in silenzio per tutta una vita,
ormai priva di senso.» (Georges Minois - Storia dell'ateismo)
Introduzione
Per quanto mi senta più che un agnostico
imbalsamato nel suo stesso
concetto, non
possiedo la stoffa del
sostenitore di certezze
che non ho. Non so se Dio
esista, anche se
me lo auguro, non provo
alcuna necessità
di negarne l'esistenza
ed impegnarmi in campagne
pubbliche per corrompere
le credenze di chicchessia.
Compresa la fede degli
atei nella natura
e nel caso. A me interessano
più i comportamenti
che le fedi. Quando scoprii
di pensarla come
il profeta Amos, ebbi una
specie di shock.
L'unica vera prova dell'esistenza
di Dio
è sentire in se stessi
la verità della "parola"
del Dio di Amos. A quei
tempi ero ateo nel
senso più superficiale
del termine. Oggi
sono indefinibile. Potrei
accettare le qualifiche
di storico e di antropologo,
ma non hanno
molto a che vedere con
ciò in cui potrei
credere, se non per il
fatto che credo nella
trasmissione della "parola",
nella
ricostruzione - per quanto
possibile - della
storia vera e non di quella
scritta dagli
apologeti a vantaggio della
propria dottrina.
Democrito, Epicuro, Lucrezio,
Machiavelli
e Darwin convergono in
un ideale banchetto
di individui che contestano
l'esistenza di
divinità o, come in Epicuro,
le rendono superflue.
Anche esistessero, non
si occuperebbero dell'umanità.
Rinnegato in un sol colpo
di spugna il mito
di Prometeo e il suo tragico
significato,
Epicuro poteva andar fiero
di avere aperto
un villaggio vacanze per
giovani ricchi mantenuti
dal lavoro degli schiavi.
Un giardino di
delizie da vivere con moderazione
ed autocontrollo
- innegabili virtù - senza
bisogno di uscire
dal recinto e di tornare
nel mondo vero,
fondato sullo sfruttamento
del lavoro umano.
"Vivi nascosto"
è un suggerimento
di grande saggezza. D'accordo,
per fare cosa?
L'epicureo conseguente
è quasi inutile alla
società e poco utile a
se stesso. Gestisce
piccoli piaceri, svolazza
tra godurie estetiche,
ripudia la conoscenza scientifica,
perché
tutto ciò che c'è da sapere
lo ho già svelato
il maestro. Esaltato nella
tesi di laurea
come campione della libertà
umana contro
il determinismo di Democrito,
Epicuro fu
successivamente contestato
da Marx, ma indirettamente,
senza ritrattazione palese
delle sue idee
giovanili. Marx scrisse
contro tutti gli
esponenti di rilievo della
cultura tedesca
del suo tempo, in modo
brillante e perfino
divertente, ma un briciolo
d'autocritica
è difficile trovarlo. Non
ho mai prestato
eccessiva attenzione al
Carteggio Marx-Engels e lascio volentieri agli studiosi il compito
di esaminarlo da cima a
fondo e trovare tracce
di ripensamenti. Resta
che l'epicureismo
ammodernato - quello del
genero di Marx,
Paul Lafargue - è la negazione
del marxismo
militante. Lenin raccomandò
ai bolscevichi
una condotta di vita irreprensibile
anche
agli occhi di un prete
ortodosso e una totale
dedizione alla causa. La
società vera non
è un villaggio vacanze
e non lo sarà mai
nemmeno con il comunismo,
perché la verità
della vita umana è il lavoro.
Poi si può
giungere a vedere il mondo
con gli occhi
di Lucrezio, e scoprire
che nemmeno la natura
è un luogo di delizie.
Sicché, quando si
legge il Salmo che esorta tutte le creature a lodare Dio,
mi chiedo se non sia il caso di sorridere.
I testi considerati sacri mancano di umorismo.
Nella Bibbia c'è un solo punto in cui si
rivela un briciolo di divertita reazione
alla monumentale retorica delle scritture
sacre. Quando l'angelo di Dio va a cercare
Gedeone per affidargli il comando di una
guerra a scopo difensivo, lo proclama "Benedetto,
uomo forte e valoroso", Gedeone risponde
con una battuta fulminante: se io sono forte,
chissà come stanno i deboli. Le traduzioni
correnti non rendono a sufficienza il pungente
umorismo di Gedeone. Potrebbe spezzare castelli
di retorica falsa ed ipocrita e nei testi
biblici se ne trova molta. Gedeone fece il
suo dovere, condusse l'esercito alla vittoria,
ma il suo cuore non era certo felice. Come
si fa a sentirsi benedetti quando si è costretti
ad uccidere ed a portare i propri uomini
a farsi uccidere? Gedeone, prima di partire
per la guerra, eresse un altare al "Signore
della pace". La citazione di Amos posta
qui a fianco si chiude con il nome di Dio
caro ai profeti: "Signore degli eserciti".
Per gli olimpi esiste Ares-Marte come simbolo
del bellicoso, uno stereotipo. Per Amos esiste
un solo Dio, ed è simile all'uomo, realizzato
a sua immagine. Quando è necessario, si fa
Signore degli eserciti. Tuttavia è chiaro
che nemmeno ad Amos piaceva la guerra. Chi di spada ferisce, di spada perisce. Sia Gedeone che Amos dovettero nutrire qualche
dubbio sul significato di "terra promessa".
Calata in una striscia, circondata da popolazioni
ostili e predoni, anche sventolando ramoscelli
d'ulivo, la guerra era inevitabile. Amos
non negò la necessità della guerra, ma sentì
il dovere di testimoniare che secondo il
suo Dio, i peggiori nemici erano all'interno
del popolo, i capi del popolo, all'interno
dei singoli individui sregolati. Erano i religiosi convinti che bastassero
olocausti per guadagnarsi
il favore divino.
Ma, quando si cercava di
far passare l'idea
opposta, si veniva contraddetti
dalle turbe,
eccitate e manovrate da
abili sobillatori.
Il Signore della pace e della guerra non
premia chi afferma la verità. Né gli fa acquisire
facili consensi. Questa è la vera fonte dell'ateismo
degli individui onesti. Le preghiere non
hanno efficacia. Le imprecazioni si perdono
nel vento. Ci si deve rassegnare al trionfo
degli iniqui e dei ciarlatani, tenendo vivo
il lumicino della speranza, scrivendo qualche
frottola, infinite lamentazioni, nonché profezie
sempre più fosche. Il sapere dei profeti
di Giuda e d'Israele trascendeva quello dei
magi e degli astrologi, anche se non si può
escludere che vi facesse ricorso. Guardava
al destino dei popoli e delle nazioni secondo
una logica del tutto diversa, quello della
caduta inesorabile dei sistemi piramidali
fondati sulla violenza e la schiavitù. Una
vicenda di tempi lunghi e lunghissimi che,
quando sembra sul punto di compiersi, fallisce
regolarmente. Il regno millenario promesso
dall'Apocalisse, ultimo singhiozzo della
profezia, non è mai arrivato, nemmeno dopo
la seconda guerra mondiale, quando sembrò
che il male assoluto rappresentato da Hitler
fosse stato definitivamente sconfitto.
La ricerca storica arranca
ed è più volte
costretta ad arrestarsi
di fronte alla mancanza
di dati sufficienti. Sono
partito da quei
dati. Esistono scritture
che parlano di Dio,
e individui che cercano
di metterle in pratica.
Pochi, rispetto a chi ne
parla a vanvera.
La prima redazione del
decalogo conteneva il comandamento: "Non nominare
Dio". Successivamente
fu aggiunto "invano".
Questa è una certezza,
una delle poche. Ma,
rispetto al concetto di
solidarietà umana, non si può negare che esista una tradizione
buddhista assai vicina
all'ateismo, prima
che lo stesso Buddha e
le sue ripetute reincarnazioni
fossero divinizzate dal
fervore religioso
popolare, e poi stabilizzate
da una casta
sacerdotale meno sfrontata
di quelle sorte
ad Occidente. In Cina si
arrivò a divinizzare
Confucio. Questa spinta
ad elevare al rango
di divinità esseri umani
particolarmente
sensibili alla sofferenze
sembra corrispondere
al bisogno di trovare parole
più salde delle
altre. Parole che durano,
come insegnò Gesù.
Sicché, si potrebbe anche
dire, che quando
tra le masse non si insinuano
agitatori interessati,
sorgono bisogni spontanei
originati sia dallo
stomaco che dalla fantasia,
per ridirla con
Marx. Elevare al rango
di divinità qualche
essere umano realmente
esisitito è diverso
dall'adorare forze naturali,
animali, astri
celesti. E' vero che nell'antico
Egitto Akhenaton
tentò una riforma religiosa
in senso monoteista,
ma non seppe trovare di
meglio che indicare
come Dio supremo il disco
solare: un dio
visibile. Non sappiamo se nei suoi insegnamenti vi
fosse qualche richiamo
alla verità interiore
e al Dio invisibile. Possiamo solo prendere atto che i sobillatori,
facilmente individuabili
nella casta sacerdotale
spodestata e smascherata,
riuscirono nella
loro impresa, ponendo sul
trono un fanciullo
imbelle e viziato, circondandolo
di immagini
e simboli impressionanti.
Il Dio di Mosé e di Amos
era invece invisibile, quindi non dimostrabile more geometrico e nemmeno facendo ricorso all'evidenza.
Non un'unica mano, ma tante manine interessate
a confondere e una sola
manina volta alla
verità interiore
Una delle mie poche capacità
di investigatore
della storia (da scrivania,
sia chiaro) consiste
nel demolire certezze,
senza cadere in quello
scetticismo estremo che
caratterizzò il lavoro
di Hume. Eliminando certezze,
arrivai a salvarne
qualcuna. Invece di occuparmi
delle palle
da biliardo, decisi di
indagare il testo
biblico e portare alla
luce alcune "incoerenze".
(incoe.pdf) La conclusione cui giunsi mi impone di
credere che la Bibbia non
fu scritta da "un'unica
mano" - come ancor
oggi sostengono alcuni
mistici, i cabalisti e
importanti professori
di teologia - ma da una
molteplicità di individui,
alcuni dei quali non solo
fantasiosi e di
manica larga circa i miracoli,
ma anche fondamentalmente
disonesti, veri e propri
imbroglioni, con
un senso di Dio ed un rispetto
del prossimo
miserabile. Il che porta
ad un paradosso.
Il luogo della denigrazione
di Dio è la Bibbia,
nessun ateo è stato capace
di innescare tanta
incredulità, se non ricorrendo
al testo biblico.
Si può diventare atei leggendo
libri come
Numeri o Samuele 1 e 2 e la teorizzazione della guerra santa di
sterminio. Se questo accade,
è perché l'individuo
si sente migliore degli scribi che scrissero quelle cronache,
senza aggiungere una parola
di commento.
Cronache che tornano utili
per acquisire
coscienza della storia
e, come sostengo da
tempo, sarebbe criminale
rimuovere o distruggere,
L'umanità ha diritto di
sapere. Ciò che unisce
un ricercatore ateo ad
uno agnostico e a
uno credente potrebbe essere
l'onestà e l'obiettività
dei resoconti. L'ateismo
degli individui
onesti è un grado di maturità
che esige rispetto.
Andrebbe apprezzato. Invece,
fu deriso e
perseguitato, anche se,
a ben guardare, il
vero bersaglio degli inquisitori
non fu l'ateismo,
ma l'eresia, perché per
molto tempo e in
molti casi, fu più vicina
alla solidarietà con i sofferenti e i deboli. A leggere il
De rerum natura di Lucrezio, non si prova alcun brivido lungo
la schiena; a sentire di
Pietro Valdo e Jan
Hus, ci si può commuovere.
Più l'eresia avvicinava
temi cari a profeti biblici
come Amos, più
veniva perseguita. Uno
dei primi nomi che
viene in mente è Arnaldo
da Brescia, messo
a morte dall'azione congiunta
di Federico
Barbarossa e del pontefice
Adriano IV. Si
rimane amareggiati nel
constatare che quest'uomo
venne citato solo "di
corsa" nella
Storia del cristianesimo scritta da Ernesto Buonaiuti. (1) Testo che
rimane tuttavia essenziale
per capire l'involuzione
delle dottrine cristiane
dalla prassi all'utopia
e per acquisire conoscenze
su passaggi particolarmente
critici nella trasmissione
della parola che
il supposto Dio rivolge
all'umanità, mediante
uomini che parlano e che
scrivono. Seguendo
Buonaiuti, si scopre Marcione,
e si viene
a sapere che costui ebbe
l'ardire di ritoccare
il Vangelo di Luca, gli Atti degli apostoli ed alcune epistole paoline, se non tutte.
Ovviamente, non si può
sapere fino a che
punto. Ma la manipolazione,
finalizzata ad
opporre il Dio dell'amore
del nuovo testamento
al Dio della violenza dell'antico,
non può
non suscitare sospetti,
in particolare su
alcuni passaggi del testo
di Luca che non
hanno riscontro negli altri
Vangeli sinottici.
Primo fra tutti l'ampio
prologo sul concepimento
di Gesù per opera dello
Spirito Santo nel
ventre di Maria, rimasta
vergine fino al
parto, essendo evidente
che dopo una gravidanza,
una donna non è più vergine,
a meno che lo
Spirito Santo non intervenga
una seconda
volta per ricucire la rottura.
Questa narrazione
prevalse su quella di Matteo
(Gesù figlio
di Giuseppe, che discendeva
da David nella
carne) e diventò dogma.
Per essere considerati
credenti occorre ritenere
veritieri resurrezione
ed ascesa in cielo.
Miracoli che si aggiungono
ad altri miracoli,
finendo col ridurre progressivamente
l'area
dei potenziali credenti.
Ma desta sensazione
il dato che in pochissimo
tempo, la notizia
dell'evento si sparse nella
forma della moltitudine
di testimoni che vi avevano
assistito. Razionalmente,
si può solo arrivare ad
ammettere che gli
apostoli non vollero che
quei pochi fedeli
rimasti a Gesù dopo la
crocifissione, l'agonia
e la morte, fossero travolti
dal dubbio sulla
verità dei suoi insegnamenti.
"Dio non
ci ha abbandonati".
La ragione che si
richiama all'esperienza
sensibile non può
che negare l'evento ed
imputare agli apostoli
la bugia più spudorata.
Ma essi furono creduti
testimoni veritieri. Così,
davvero in un
batter d'occhio, la buona
novella si diffuse
ed allo storico razionale
e di sensate esperienze
non rimarrebbe altra via
che l'indagine psicologica
sui motivi per i quali
si accettò la verità
dell'impossibile. Erano
tempi in cui si credeva
facilmente, certo più facilmente
di oggi,
ma la resurrezione e l'ascesa
in cielo di
un uomo di modesti natali - figlio d'un padre adottivo
artigiano e di una povera
fanciulla rimasta
incinta per motivi misteriosi
- si incontrò
con la speranza dei miseri,
prima ancora
che con le speculazioni
dei dotti. La speranza
è probabilmente qualcosa
di istintivo, assai
più naturale dell'amore per il prossimo. Su questo punto,
la mia opinione è l'esatto
contrario di quella
di Lutero (2), che ritenne
innaturale la
speranza ed istintiva la
disperazione. Probabilmente
abbiamo ragione tutti e
due. Non sto scherzando.
E' possibile che anche
la disperazione abbia
cause naturali oltre che
sociali. Tuttavia,
non rinuncio ad insistere:
l'individuo di
ragione dovrebbe inchinarsi
di fronte al
ritorno della speranza,
cercare di comprenderla,
astenersi dal dichiararla
irrazionale. Non
è il principio perfetto,
perché è comune
anche agli individui privi
di scrupoli, ma
torna utilissima a chi
si sente a posto con
la propria coscienza e
si è trovato più di
una volta depresso.
Il senso della storia: rifarsi piccoli per maturare diversamente
D'altra parte, il senso
della storia è chiarissimo.
Il Dio degli ebrei e dei
cristiani non si
rivelò ai potenti ma, agli
ignoranti, agli
oppressi, ai deboli, agli
istintivi. Dapprima
in un campo nomadi, insegnando
un regolamento
condominiale per la convivenza
civile. Penso
alle zuffe per le donne,
a gente che orinava
sulla tenda del vicino,
a infoiati che sodomizzavano
le pecore davanti ai bambini,
infettandosi
e trasferendo le loro impurità
alle donne.
Chi trova rigido e dogmatico
il Dio di Mosè,
manca del senso della storia
concreta ed
anche del presente, dove
si vede di peggio
nei piani alti e bassi
delle società contemporanee.
Molti secoli dopo lo stesso
Dio di Mosè e
di Amos apparve in Galilea,
presentandosi
a pescatori e giovani discepoli
di Giovanni
il battista. Erano uomini
piccoli, ma già
condizionati da scetticismo
e supponenza.
Dovevano "tornare
ad essere come bambini".
Crebbe un movimento sostenuto
dai possessi
materiali di alcune donne
influenti come
la moglie di Cuza, amministratore
di Erode
Antipa. Sono notizie ricavabili
dal Vangelo di Luca e non destano particolare incredulità. Anzi,
profumano di realismo. Senza finanziamenti
non si va da nessuna parte. Quelle donne
godevano evidentemente di una relativa libertà
d'azione e di una modesta indipendenza. Forse
anche di una cultura non propriamente giudaica
nel senso maschilista del termine. Per quanto
segregate da una tradizione etica di rigidità
impressionante, ad esse poteva essere giunta
notizia della storia di Ruth, tenuta ben
nascosta dai bacchettoni dei tempi precedenti.
Al seguito di Gesù non c'erano solo uomini
rudi e prostitute, streghe liberate da spiriti
cattivi come Maria di Magdala, ma anche donne
pie e generose, sinceramente animate dall'intenzione
di attenuare le sofferenze umane. Purtroppo,
la storia fu interrotta in modo violento
e da quanto sappiamo dai documenti essa finì
nel breve volgere di una generazione. Spazzate
via la sinagoga degli ellenisti e la Chiesa
di Gerusalemme, dispersi gli apostoli per
il mondo, pochi di essi lasciarono memorie
scritte. Forse Pietro, probabilmente Giovanni.
ancora più probabilmente Matteo. Per il resto,
come affermano i più autorevoli storici,
l'unico anello di congiunzione tra il movimento
suscitato da Gesù e gli eventi successivi
fu Policarpo, vescovo di Smirne, il quale
aveva ricevuto un'istruzione diretta da alcuni
apostoli. Purtroppo, nemmeno Policarpo lasciò
qualcosa di scritto, ed il suo insegnamento
trapassò ad Ireneo, uno scrittore sistematico
e dogmatico, capace di rendere la dottrina
cristiana pedante e noiosissima anche ai
santi. Ad Ireneo andrebbe riconosciuto il
merito di aver combattuto lo gnosticismo
mentre tentava di impadronirisi della figura
di Gesù per avallare le proprie dottrine.
La prima delle quali era l'assimilazione
del "creatore" al demiurgo di Platone,
una divinità inferiore e materialista. La
seconda pretendeva di considerare Gesù come
espressione dell'eone superiore, non il Figlio
di quel demone che aveva creato il mondo,
ma il Figlio del Dio purissimo di un altro
mondo superiore alla materia. Non è quindi
un caso che nella Chiesa esista una corrente
tradizionalista che fa dell'antisemitismo
uno dei propri perni. E' un chiaro residuo
di gnosticismo e di disprezzo per il materialismo
giudaico.
Ovviamente, in tale vuoto di informazioni,
assunsero progressiva importanza le epistole
paoline, fossero o meno state ritoccate da
Marcione. Nella seconda lettera attribuita
a Pietro apparve la non troppa nota raccomandazione
di leggere e meditare gli scritti di Paolo,
nonostante la difficoltà "di cose un
po' difficili a capirsi". Fu una legittimazione
tardiva capace di orientare, tuttavia, in
modo decisivo le comunità cristiane all'assimilazione
delle dottrine di Paolo. La Chiesa che si
affermò storicamente non sarebbe quella che
conosciamo senza tale vittoria di Paolo,
che a mio avviso si può riassumere nella
formula del "trapasso da movimento a
organizzazione". Non ispirata a criteri
di unità nella diversità, ma a ferrei principi
di unità delle specializzazioni. Mediante
il centralismo autoritario, la libertà individuale
fu abolita su punti essenziali. Pietro venne
criticato per la debolezza di consumare i
pasti nelle mense tra compaesani invece che
in mezzo ai pagani convertiti. Ovvero di
fare preferenze tra individui in base all'origine
etnica e culturale. Non era una critica da
uomo a uomo lontano da orecchie indiscrete,
ma rilievo molto forte e pubblico al primo
apostolo di Gesù. Non si conosce la risposta
di Pietro, che forse non ci fu mai. La seconda
lettera di Pietro è quasi sicuramento un
falso combinato da qualche seguace di Paolo
o di Marcione. Per Paolo, il cristiano deve
essere "organico" alla Chiesa proclamata
dogmaticamente "corpo di Cristo".
Il fine della Chiesa è l'indottrinamento
che conduce alla salvezza metafisica, mediante
una futura resurrezione in una carne incorruttibile.
Questa si ottiene mediante il ricevimento
della grazia di credere e la fede che ne
consegue. Il cristiano è giustificato dalla
fede e non dalle opere. Il che non vietò
a Paolo di dettare una propria etica che
imponeva molte opere. Il cristiano deve "correre
come un atleta allo stadio", esporsi
pubblicamente onde guadagnare "onore,
gloria ed immortalità". Facendo il bene,
le autorità civili lo loderanno. Le autorità
civili sono costituite da Dio. Ciò sarebbe
l'esatto contrario di quanto affermano i
profeti e i libri storici della Bibbia, in
totale contrasto con quanto sarebbe accaduto
anche a Paolo, imprigionato e giustiziato,
La contraddizione più stridente sarà con
il Vangelo di Matteo: Gesù risorto affermerà
che "questo mondo è in potere del maligno".
Dopo l'editto di Costantino ed il Concilio
di Nicea, si potrebbe dire che l'organizzazione
di Paolo prevalse definitivamente sul movimento
ancora presente in qualche comunità di cui
sappiamo ben poco. Per uno di quei paradossi
della storia a cui sono affezionati i seguaci
di Hegel, quando il filosofo Proclo scrisse
il canto del cigno della filosofia greca,
fosse stato più attento alle vicende dei
movimenti e delle organizzazioni cristiane,
si sarebbe trovato a constatare che la divina
provvidenza da lui concepita aveva operato
non solo per Temistocle, ma anche per Paolo
e la sua Chiesa. (3) Interpretazione incompleta
perché in realtà la Chiesa organizzata da
Paolo, e già dogmatica di per sé, finì nelle
mani dell'imperatore Costantino. Era ancora
divina provvidenza, o non si trattò di diabolica
provvidenza? O di una strana ed assurda mistura
dell'una e dell'altra?
La trasformazione della Chiesa ai tempi di
Costantino
Estraendo dall'Apocalisse un passo dimenticato, Satana non è il sovrano
che regna all'inferno sui
dannati, ma colui
che sta di fronte a Dio
ad accusare gi uomini
di tutti i peccati. E'
l'inquisitore prima
ancora che nascesse l'inquisizione,
perché
in realtà la procedura
ha radici molto più
antiche. Se ne possono
trovare tracce nell'Egitto
di Tutankhamon, nell'Atene
di Anassagora
e Socrate, a Roma. La dimensione
che rende
l'inquisizione possibile
è quella della "religione
civile". Dietro ad
ogni religione civile
si nascondono interessi
generali di ordine
pubblico e gli interessi
materiali di una
casta di sommi sacerdoti
mantenuti a spese
di svariati contribuenti.
Dove non basta
il beneficio ecclesiastico
garantito dalla
rendita dei terreni agricoli
ed altre attività
imprenditoriali, arriva
l'inganno e la truffa,
l'indulgenza come sconto
di pena (penitentia) in cambio di sostanziosi oboli, l'invenzione
di mete turistiche spacciate
come luoghi
di pellegrinaggio utili
a conseguire benefici
di proprietà esclusiva.
Per evitare un giudizio
all'ingrosso si dovrà allora
entrare in qualche
dettaglio. Non tutti gli
uomini di Chiesa
parteciparono in ugual
misura alle grandi
abbuffate, come quella
preparata dall'imperatore
Costantino al Concilio
di Nicea. Secondo
la testimonianza di Eusebio
di Cesarea, l'unico
ingrediente mancante alla
soddisfazione di
tutti i desideri terreni
erano le donne.
Per il resto, si trattò
di uno sfoggio mirabolante
di vanità , in particolare
del lusso sfrenato,
di oro e gioielli, di cibarie
prelibate offerte
a digiunatori accaniti.
In un sol colpo il
potere e la ricchezza ebbero
ragione di eremiti,
chierici, e santi presunti,
nonché delle
divisioni filosofiche su
cosa è Dio. Sembrò ai partecipanti di essere finalmente
entrati nel regno dei cieli.
Ovviamente,
questo resoconto rischia
di non rendere giustizia
e verità ad eventuali dissenzienti,
a coloro
che non si fecero ingannare
dalle apparenze,
ad altri che rifiutarono
di farsi strumentalizzare
dalle manovre politiche
dell'abile Cesare.
Sarebbe bastato rammentare
gli ammonimenti
di Tertulliano - un cristiano
non può essere
Cesare - per rimettere
tutto in discussione.
Ma, sembra sia storia di
minoranze poco conosciute.
Il dato decisivo è che
in pochi decenni la
situazione degli appartenenti
alle comunità
cristiane si era rovesciata.
Non più perseguitati,
alcuni di essi, in particolare
vescovi e
chierici del Nordafrica,
avevano avuto l'opportunità
di abbandonare il lavoro
ed intraprendere
la professione di insegnante
e chierico a
tempo pieno con cospicui
finanziamenti imperiali.
Si stava preparando così
la strada a trasformare
il sacerdozio in una carriera
all'interno
di una struttura piramidale.
Sarebbe miope
limitarsi a queste osservazioni.
Grazie a
Costantino, gli appartenenti
alle comunità
cristiane furono realmente
liberati da un
giogo infame. Per uno di
quei paradossi tipici
delle società organizzate
attorno ad una
religione civile, in passato
i cristiani
erano stati perseguitati
anche ricorrendo all'accusa di ateismo. Seguaci
delle dottrine di un uomo,
e non dei veri
dei. Secondo Celso, citato
qui a fianco,
un verme maestro di vermi.
'Come già detto, l'attenzione
delle guide
delle comunità cristiane
si era progressivamente
spostata dalla predicazione
della parola
di Dio, senza se e senza
ma, poi con qualche
se, infine troppi ma, alla
natura di Dio,
a "cos'è Dio",
ossia a trasformare
"Dio" in un oggetto
d'indagine
su cui sentenziare. Il
filosofo tende a festeggiare
l'evento come una riabilitazione
della ragione
nei confronti della fede,
soprattutto quella
più irrazionale, quella
degli invasati che
massacrarono Ipazia di
Alessandria. Sarebbe
sciocco negare l'importanza
di questi sviluppi
per il formarsi di una
coscienza, ma va da
sé che il proliferare delle
ipotesi su Dio
è stato spesso il motore
di contese senza
senso, culminate in violenze
senza senso.
Il ragionamento su Dio
poggia sul bisogno
esteriore di imporre la
propria presunta
migliore visione del mondo.
Non ha molto
a che fare con il comportamento
dei primi
propagandisti del Vangelo
che, dopo aver
bussato alla porta di tutti
quelli che capitavano
a tiro, ed incontrato un
rifiuto, se ne andavano
in pace, mostrando la schiena
e "sollevando
la polvere con i propri
calzari". Atteggiamento
poco rispettoso e permeato
d'una impazienza
incoerente con altri passi
evangelici, ma
più tollerante di tutto
quello che venne
dopo la trasformazione
del cristianesimo
in una "religione
civile". Tra
la "via" predicata
dai primi seguaci
di Gesù e ciò che venne
in seguito trasformato
in dogma è palese la discontinuità.
Dalla
proposta si è passati all'imposta,
ed anche
all'impostura.
Costantino fu un Cesare
indubbiamente saggio
ed astuto, ma pur sempre
un uomo che aveva
fatto assassinare moglie
e figlio accusandoli
di relazione incestuosa.
Quest'uomo risolse
la questione di "cosa
è Dio" con
un atto d'imperio, accontentando
anche Eusebio
di Cesarea, che era arrivato
al Concilio
come seguace "critico"
della dottrina
di Ario, il quale, con
un procedimento logico
apparentemente ineccepibile,
aveva contestato
l'eterna coesistenza di
Padre e Figlio. Se
è Figlio, cosa autorizza
a predicarlo come
già esistente da sempre
accanto al Padre?
Costantino gettò sulla
bilancia il peso dell'oro
e della spada, si fece
teologo e impose la
soluzione che sembrava
più conveniente anche
in una logica di conservazione
dei "misteri"
divini, quale appunto quello
della Trinità.
Da allora la Chiesa non
è la Chiesa di Pietro,
e nemmeno quella di Paolo,
ma quella di Costantino.
La Riforma luterana si risolse con un tentativo di tornare
alla Chiesa di Paolo sostanzialmente
fallito
perché i principi tedeschi
che la appoggiarono
erano dei Cesari in formato
mignon. Bisogna giungere al Novecento perchè accada
qualcosa di veramente nuovo
nella Chiesa
romana e nel mondo dei
teologi luterani.
Con un'eccezione significativa:
proprio tra
i protestanti si fece strada
tra mille difficoltà
un uomo legato alla persistente
eresia di
Jan Hus. Si chiamava Jan
Amos Komenskji (Comenio)
ed ebbe l'ardire di definire
Catholica la sua ispirazione di "insegnare tutto
a tutti", in opposizione alla falsa
cattolicità della Chiesa di Roma. Comenio
fu combattuto anche dai teologi luterani.
In Comenio ricorreva il tema del "tornare
ad essere come bambini", partire dai
bambini e dalle bambine per una corretta
istruzione. Inutile dire che anche Comenio
fu un perdente, in ciò identico ai profeti.
Gli inquisitori e la perdita del comandamento
fondamentale
Sul piano strettamente
logico, se si crede
alla verità delle scritture
evangeliche,
l'inquisizione fu un non-senso che acquistò senso, il suo perverso significato
man mano che ci si allontanava
dall'origine
e papi e vescovi della
Chiesa acquistavano
potere. Il governo della
Chiesa era passato
nelle mani di uomini senza
carisma reale
rispetto a ciò che dicevano di propagandare. La loro autorità poggiava sulla repressione
e su pseudoargomentazioni.
L'inquisizione
mandava a dire, mediante
bolle ed editti,
che il comandamento di
"amare il prossimo
come se stessi" era
sospeso a tempo
indefinito.
Gli inquisitori perseguitarono
soprattutto
gli eretici, l'accusa di
ateismo era spesso
aggiunta, con qualche acrobazia
mentale,
per rendere più potente
e terribile la condanna.
In realtà, l'eretico in
genere si appellava
alle scritture per criticare
gli aspetti
più scandalosi dei comportamenti
degli ecclesiastici.
Sul piano formale, se gli
accusati avessero
avuto a disposizione un
collegio di difesa
a conoscenza delle scritture,
se la sarebbero
cavata nella stragrande
maggioranza dei casi.
Non fu così perché la concezione
del diritto
e dei diritti umani che
avevano gli inquisitori
era aberrante. In tale
contesto si comprende
perché, proprio nel periodo
di cui ci stiamo
occupando, emerse un paradigma
inquisitorio
che distingueva tre forme
di violenza: quella
ingiusta, quella giusta,
quella legale. La
violenza ingiusta era quella
usata dagli
eretici. Quella giusta
veniva impugnata dalla
Chiesa cattolica e dai
principi fedeli contro
le sovversioni eretiche:
era lecito torturare.
Quella legale trovava un
formidabile appiglio
nella categoria del sospetto. Si poteva e doveva esercitare violenza contro
chi era sospettato di eresia,
anche solo
in base a "dicerie"
e soffiate
anonime, spesso prefabbricate.
(3) Era la
logica della guerra preventiva
usata indiscriminatamente,
sparando a tutto ciò che
si muoveva in modo
insolito. Anche fosse stata
zizzania - il detto di Gesù non autorizzava ad intervenire
per estirparla. Tuttavia,
occorre riconoscere
che bisognerebbe distinguere
tra eretici
veri o presunti. Storicamente,
le azioni
di Dolcino e la sua banda
rientrano senza
troppi sforzi nella categoria
della violenza.
Quella di Dolcino assomigliò
in modo impressionante
alla vita di David: un'esistenza
da bandito
e da predone. Non era un'eresia,
ma un accumulo
di reati comuni quali l'omicidio,
il furto,
il brigantaggio.
Pietro Aretino ed altri
atei famosi: le due
misure dei vertici ecclesiastici
romani ed
il trionfo dell'estetica
Di contro, l'indagine storica
non può che
ammutolire di fronte all'estrema
tolleranza
mostrata dai vertici della
Chiesa nei confronti
di atei semidichiarati
come Pietro Aretino,
nonché altre importanti
figure del mondo
dell'arte, della cultura,
della medicina.
Tra essi, spicca la figura
di Machiavelli,
ambiguo scrittore di testi
teatrali fortemente
ironici contro i cristiani
osservanti, e
di testi storici e politici
che esaltavano
la religione civile, perché
senza di essa
le repubbliche e i regni
vanno in rovina.
Protetti dai potenti, da
importanti cardinali,
avevano libero accesso
alle residenze vescovili,
cardinalizie e vaticane
quegli esprits forts che altrove venivano destinati alla tortura
ed al rogo mediante la
violenza "giusta
e legale". Giordano
Bruno appartenne
a questa specie di individui
intimi ai potenti,
e fu ad un passo dal successo
anche nei confronti
della curia romana, essendo
in corrispondenza
con importanti cardinali
ai quali aveva prospettato
una riforma della religione
cattolica ispirata
a quella dell'antico Egitto
(sic). Fu solo
per un rovescio della fortuna,
che la sua
sorte prese una piega negativa
e cadde nelle
mani dell'inquisizione,
prima quella veneziana
e poi quella romana.
La ragione di questo doppio
trattamento,
spiegazione a rischio di
manicheismo, era
che gli spiriti forti accolti
e protetti
dai vertici ecclesiastici,
si prestavano
ad un asservimento al loro
potere e funzionali
al loro divertimento, al
loro senso estetico,
ad eccitare le loro fantasie
e rimpinguare
il loro bisogno di nutrimento
materiale e
spirituale. Non di solo
pane vivevano il
vescovo ed il principe.
Di fronte alla "miseria"
spirituale e materiale
predicata dagli "eretici",
da Pietro Valdo in poi,
la grandiosità cattolica
si stagliava superba ed
inarrivabile, e si
poteva far beffe dei semplici,
trasformati
in "sempliciotti"
ed "ignoranti",
sicuramente incompetenti
nel gustare una
Missa di Palestrina o un
dipinto di Michelangelo.
Entrando in quest'ordine
di ragionamento,
l'individuo di cultura
non può evitare di
riconoscere che proprio
la Chiesa cattolica
finì con col risultare
l'inestimabile patrona
delle arti religiose e
profane. Ovvero, arrivando
a proporsi come la più
seria candidata al
riconoscimento universale
per i meriti acquisiti
con il mecenatismo rivolto
alla produzione
di "beni culturali".
Sicché, mentre
gli storici dell'arte non
possono che tesserne
gli elogi, gli storici
delle eresie e dell'ateismo
perseguitato dovrebbero
vestirsi di abiti
iconoclasti. Esito alquanto
improbabile perché
ormai i consumatori di
cultura più consolidati
- mi ci metto anch'io -
hanno acquisito un
abito mentale congelato
in una visione estetica
ed estatica dell'arte che
separa i suoi effetti
dalle condizioni della
sua concreta produzione,
anche quella risultata
dall'iniquità più
odiosa. Bisognerebbe guardare
alle opere
d'arte, soprattutto ai
monumenti della più
sfacciata grandiosità,
con maggiore consapevolezza
della storia nel suo insieme.
Faccenda che,
con molte riserve, porta
a suggerire di riprendere
in mano testi di Benjamin
ed Adorno. Dico
"riserve" perché
non tutti si è
in grado di sopportare
il peso di una costruzione
intellettuale così ardita
ed anche così asfissiante,
come nel caso di Adorno.
Lanzichenecchi e logica di guerra
Quando il 6 maggio del
1527 i lanzichenecchi
protestanti al soldo del
cattolico Carlo
V entrarono in Roma, si
abbandonarono ad
inenarribili violenze,
stupri, massacri di
poveracci e religiosi di
basso rango. Si
accanirono contro le opere
d'arte: sfigurarono
dipinti, decapitarono sculture,
rubarono
oro ed argento conservato
nelle chiese e
nei palazzi patrizi. Iconoclasti
privi di
sensibilità, ignoranti
come capre, avidi
di ogni cosa che capitava
a tiro e smaniosi
di sfogare i loro istinti
più bassi. Anche
per costoro il comandamento
di rispettare
gli altri come se stessi
non era mai entrato
in vigore. Già classificarli
"protestanti"
potrebbe ingenerare il
solito equivoco. Le
milizie mercenarie erano
costituite dalla
"feccia" delle
società, ossia da
individui privi di ogni
senso morale, ed
anche di istruzione religiosa.
Molti di loro
ignoravano di essere considerati
luterani,
e nemmeno sapevano chi
fosse Lutero.
Una delle riflessioni storiche
più imbarazzanti
emerse recentemente è che
un'improvvisa epoca
di pace dopo secoli di
guerre avrebbe originato
problemi enormi di ordine
pubblico e sicurezza
nelle società di provenienza
delle milizie,
oppure costi insopportabili
per i principi
e i sovrani, che avrebbero
dovuto incrementare
la pressione fiscale per
mantenere eserciti
inattivi. La logica della
guerra permanente
consentiva di trasferire
il problema sui
territori del nemico. Costava
assai meno
fare la guerra che proclamare
la pace universale,
perché gli eserciti venivano
pagati con la
rapina sistematica organizzata
dai comandanti,
ed i saccheggi individuali
e di gruppo. Si
badi che non si tratta
di piccoli numeri,
ma di formazioni dell'ordine
di quarantamila,
cinquantamila uomini impegnati
in ogni unità
attiva sullo scacchiere.
Una volta costituite,
le milizie non si potevano
sciogliere, e
nemmeno mantenere inattive,
senza ricadute
negative. Noi non sappiamo
se i sovrani e
le autorità religiose fossero
consapevoli
fino alle estreme conseguenze
del prezzo
della pace e della guerra,
tuttavia resta
difficile credere che i
consiglieri realisti
dei quali sapevano a volte
circondarsi, non
lo fossero. Fino al punto
di inventarsi un
motivo anche futile per
evitare di pagare
un prezzo troppo alto alla
pace. Sappiamo
anche che le corti erano
luoghi infidi, popolate
da individui in competizione
per emergere,
disposti a tutto per arrivare
alla meta.
Le fosche tinte degli intrighi
sceneggiati
da Shakespeare rendono
l'idea. Ovunque si
potrebbe trovare un Amleto
alle prese con
il fantasma del padre che
reclama vendetta
o giustizia, o un Macbeth
illuso dalle promesse
delle streghe e posseduto
da smisurate ambizioni.
Comunque sia andata, qui
interessa evidenziare
che uno dei motori dell'ateismo
dei dissoluti,
di quei piccoli dissoluti che erano gli energumeni presenti
nelle milizie mercenarie,
trovava esatta
corrispondenza nella dissolutezza
dei potenti,
ossia di chi si sente costantemente
al di
là del bene e del male
unicamente per soddisfare
i propri istinti e le proprie
ambizioni.
In una logica della predestinazione,
nascere
ricchi e potenti sarebbe
una maledizione,
da cui il "beati i
poveri". Ma
i lanzichenecchi non erano
forse poveri?
E gli operatori di pace,
beati anche loro,
non diventavano a loro
volta complici, prestandosi
a reimmettere nelle dinamiche
sociali potenziali
delinquenti?
Considerazioni sull'ateismo
Nell'antichità, l'ateismo
si sviluppò come
critica delle religioni
politeiste e di filosofie
prive di fondamenti fisici.
Nell'epoca che
stiamo considerando, si
andò condensando
attorno al rifiuto di credere
negli insegnamenti
dei religiosi, nella rivelazioni
e nelle
promesse del giudaismo
e del cristianesimo,
soprattutto di quest'ultimo.
Rifiuto che
poteve essere spiccio ed
immediato, ma anche
maturare lentamente, mediante
esperienze
di vita deludenti e frustranti,
se non peggio.
Rigetto che poteva anche
andare e venire
quando non si disponeva
di convinzioni stabili,
o persino incrollabili.
Rifiuto che era conveniente
mantenere celato, dato
il carattere totalitario
assunto dalle società con
radici cristiane.
Questo suggerisce di credere
siano esistiti
molti più atei di quanti
realmente emersi
mediante la circolazione
dei loro scritti.
Le statistiche arrivano
solo a cogliere aspetti
esteriori. Esse parlano
di un progressivo
allontanamento dalla frequentazione
delle
cerimonie religiose, ma
- come si vedrà -
alla luce di un esame scrupoloso,
sia prima
che durante e dopo il Concilio
di Trento,
la Chiesa romana non fece
molto per incrementatare
la partecipazione. In un
certo senso cercò
di deprimerla. Alcuni cardinali
attaccarono
l'eucarestia frequente
perché incoraggiava
«a prendersi troppa
confidenza con
Dio». Sembra un'assurdità,
ma le carte
cantano, come si vedrà
nei paragrafi successivi.
(5)
Un'ulteriore complicazione
viene dal fatto
che resta difficile considerare
atei individui
sostanzialmente politeisti
e panteisti come
Giordano Bruno e tutta
la tradizione risalente
ad Ermete Trismegisto,
ossia quella dei maghi
antichi, medioevali e rinascimentali.
Anche
negli ancestrali culti
della fertilità ancora
diffusi sia nell'area del
Mediterraneo che
nel Nord dell'Europa diventa
avventuroso
rinvenire tracce di ateismo.
Alcune "fedi"
e credenze nell'azione
benigna della deità
femminile furono perfino
più radicate e solide
della tradizionale fede
religiosa. Non solo
tra le donne. Questo vuol
dire che il trapasso
e l'assorbimento del culto
della dea madre
nella venerazione per Maria
non si era compiuto
che in minima parte. Nell'immaginario
di
molte donne esisteva a
pieno titolo l'altra
Maria, la Maddalena, sentita
come più vicina
alla condizione femminile
e come promessa
di riscatto. Oltre la stessa
Maddalena pulsavano
memorie più antiche di
riti celtici e germanici,
latini e greci. Memorie
che solo i dotti
avrebbero potuto allungare
a radici ancora
più antiche, ad esempio
a Iside egiziana.
Si dovrebbe allora parlare
di ateismo con
molte cautele. Riconoscendo
la natura come
madre, non si distrugge
l'idea di Dio, ma
la si riduce a deità femminile,
unica radice,
oppure ad un dio che gioca
ai dadi, il caso.
In senso stretto veri atei
dovrebbero essere
coloro che rifiutano di
credere nelle leggende
di ogni genere. L'ateo
non implora forze
cosmiche e naturali, semmai
tenta di dominarle.
L'ateismo schietto implica
una rottura con le superstizioni e le "divine"
provvidenze. L'individuo
non deve sentirsi
sovrastato da forze cosmiche,
costretto in
un destino, svegliarsi
ogni mattina angosciato
da ciò che lo attende nella
vita. Ciò comporta
una certa dose di coraggio
o, in alternativa,
una disinvolta incoscienza.
Quest'ultima
appare meglio distribuita
in tutti gli strati
sociali fin dall'antichità
e dall'alto Medioevo.
I coraggiosi - termine
che uso senza ironia
- sono stati assimilati
dai più tetragoni
difensori della fede agli
esprits forts, ossia ai libertini francesi che cominciarono
a farsi avanti con timidi
e circospetti scritti
nel Cinquecento. Nel 1546,
a Parigi, fu bruciato
sul rogo Etienne Dolet,
uno stampatore reo
di aver fatto circolare
la propria opinione
troppo libera. L'anno successivo,
a Ginevra,
Calvino ordinava di bruciare
Jacques Gruet
all'incirca per gli stessi
motivi. Nel periodo
delle grandi contrapposizioni
tra riformati
e cattolici non mancò una
singolare convergenza
nei metodi di governo delle
chiese e delle
società. Quello del Cinquecento
era ancora
un mondo totalitario, con
livelli di tolleranza
prossimi allo zero. Ogni
opinione fuori dal
coro del conformismo religioso
e teologico
era sospettabile ed inquisibile,
specie se
attaccava i comportamenti
delle autorità.
La Riforma luterana, reazione ad uno dei punti più bassi
e degenerati toccati dai
capi della Chiesa
cattolica, finì con il
legittimare nuove
autorità. Secondo molti
storici, la Riforma riuscì perché godette il favore di alcuni
principi tedeschi, interessati
a proclamare
la loro autonomia contro
l'impero e contro
la Chiesa cesaro-papista.
Ma essi non erano
diversi dai vecchi padroni.
L'ateismo degli ignoranti e il "progresso"
Un certo Derodon, citato da Minois (6), scrisse
di tre specie di ateismo: quello degli atei
raffinati, quello dei dissoluti, e quello
degli ignoranti. La classificazione, per
quanto azzeccata a prima vista, soprattutto
in relazione ai dissoluti, ossia a quela
tipologia di individui che si consente di
vivere al di sopra di ogni regola umana e
divina e tratta gli altri come arnesi usa
e getta, non soddisfa pienamente. Anche gli
ignoranti possono essere raffinati, e i raffinati
più che ignoranti, ovvero privi della capacità
di connettere ed elaborare saperi ed informazioni
di diversa provenienza. Il vero ignorante
è colui che pretende di parlare di cose che
non conosce con leggerezza e saccenza. La
categoria andrebbe redistribuita equamente
a tutti i piani delle gerarchie sociali e
culturali. Dal punto di vista di un religioso
dei tempi di Cristoforo Colombo - prendiamo
il 1492 come la data della svolta verso nuovi
orizzonti aperti - non si capisce bene cosa
si possa intendere per ignoranza. Non conoscenza
del Vangelo, o del catechismo cattolico,
del pensiero dei dotti, o di cosa altro?
La domanda andrebbe girata a difensori della
fede ad oltranza nella Chiesa di Costantino,
dimentichi della loro trascuratezza e delle
loro più vistose incoerenze.
D'altra parte, la nozione
di ignoranza necessita
di un criterio in grado
di raggruppare ed
ordinare diverse tipologie
individuali. Per
l'epoca che stiamo considerando,
ha senso
richiamarsi alla capacità
di leggere, scrivere,
far di conto. Ossia all'alfabetizzazione
elementare. Nel primo Medioevo,
uno dei pochi
modi per imparare l'indispensabile
era quello
di entrare in un monastero.
Con la nascita
dei borghi comunali e di
alcune importanti
città, si realizzò una
vera e propria svolta.
Sorsero due scuole di tecniche e di vita, la bottega artigiana e l'ufficio del mercante.
A lungo andare, l'alfabetizzazione
delle
masse, trascurata dagli
ecclesiastici, cominciò
a passare per queste scuole
professionali
private, o semi-private
in quanto espressioni
di gilde e corporazioni.
Soprattutto ai mercanti
occorreva gente che sapesse
scrivere e far
di conto, ma anche le botteghe
si trovarono
subito nella necessità
di comunicare, sia
coi mercanti che con le
clientele a distanza.
Le nuove esigenze della
produzione e del
commercio divennero quindi
il principale
motore del cambiamento,
non solo in termini
di alfabetizzazione, ma
di vera e propria
cultura, dove il saper
fare si intrecciava
strettamente al saper parlare
e spiegarsi,
al ragionare sugli investimenti
di tempo
e denaro, e dove, in definitiva,
la nuova
"magia" era quella
degli speculatori:
cavare denaro dal denaro
investito o prestato.
Lentamente si fece strada
un terzo ufficio:
quello del banchiere.
Si dovrebbe evitare un
frettoloso giudizio
di laicizzazione, ossia la conquista di una immediata autonomia
dal sapere e dal potere
controllato dai religiosi.
Analogamente, bisognerebbe
guardarsi dallo
sposare la vulgata marxista
più triviale,
quella delle nuove strutture
produttive e
mercantili che erigono
le proprie sovrastrutture
culturali. Fu un processo
molto più articolato,
lento, faticoso. Saper
scrivere e calcolare
era semmai diventata un'esigenza
produttiva, necessaria a chi non voleva rischiare di
"essere tagliato fuori"
dalle più
promettenti dinamiche dell'economia
e del
lavoro. Era quindi anche
un'esigenza vitale.
Le scuole erano separate
dalle Università
e dai centri di cultura
religiosa, ma risentivano
della loro influenza determinante.
Non è
plausibile pensare che
un ignorante possa
insegnare ad un ignorante,
se non la propria
esperienza e le proprie
convinzioni, spesso
imbalsamate in qualche
detto proverbiale.
Artigiani e mercanti non
possono essere immaginati
come totalmente indipendenti
dalla cultura
universitaria, che a sua
volta era ancora
sottoposta al controllo
religioso. L'intreccio
non ha nulla di misterioso
se si comincia
a supporre che alcuni accademici
ed alcuni
chierici, cominciarono
ad istruire artigiani
e mercanti, invece che
limitarsi alla propria
replicazione in ambito
accademico e chiesastico.
Conviene fare almeno un
esempio precedente
all'invenzione della stampa.
Ruggero Bacone
Quello del francescano
Ruggero Bacone (nato
in qualche giorno tra il
1214 e il 1220,
deceduto nel 1292), uomo
del Medioevo a pieno
titolo, suggerisce itinerari
diversi dal
consueto. La sua convinzione
più profonda
rimase quella che «tutto
il sapere
viene da Dio», ma
non solo dagli intellettuali,
perché Dio è un potenziale
presente in ogni
essere umano. Bacone cominciò
a considerare
le conquiste sul piano
della conoscenza come
parte di un unico sapere.
Per quanto se ne
sa, fu anche attratto per
qualche tempo dalle
dottrine occulte risalenti
alla tradizione
di Ermete Trismegisto,
ma nelle sue opere
maggiori non ne è rimasta
traccia. Rimase
convinto che venisse da
Dio anche il «sapere
aggiunto dall'uomo»,
e non lo condannò
a priori come farina del
diavolo. Cominciò
a pensare che anche dagli
"ignoranti"
e dalle loro sensate esperienze potesse venire qualcosa di utile.
Giunse a scrivere: «I
semplici, benché
considerati ignoranti,
sanno spesso cose
importanti, che rimangono
oscure ai sapienti.»
Ma la sua maggiore intuizione
era stata la
seguente: « Tutte
le scienze sono fra
loro inestricabilmente
interconnesse e reciprocamente
si scambiano aiuto, come
parti e membra di
una totalità organica.
Ciascuna opera non
per sé, ma a favore delle
altre, come l'occhio
opera per dirigere il corpo
e il piede per
sorreggerlo e muoverlo.
Al di fuori della
totalità la parte è dunque
come un occhio
tolto dal capo o come un
piede tagliato.»
(7) Questo nuovo atteggiamento
corrispondeva
a quanto stava già accadendo
nei principali
centri cittadini d'Europa,
ma allo stesso
tempo era anche una critica
allo spezzettamento
dei saperi pratici in tante
esperienze separate.
La visione unitaria di
Bacone non ebbe vita
facile e, d'altra parte,
il numero e la qualità
delle obiezioni che un
qualsiasi dotto avrebbe
potuto sollevare è parte
integrante di una
vicenda tipica di filosofi
che non smettono
di inventarsi argomenti
per demolire il pensiero
altrui, anche quando poggia
su intuizioni
ed evidenze estese, per
nulla chiuse a quel
sapere che viene dall'esperienza
del fare.
Il vile lavoro del contadino
puà insegnare
molte cose. Perché chiamarlo
vile se è indispensabile?
Con questo ragionamento
elementare, Bacone
realizzò un'autentica svolta,
nel senso che,
finalmente, sia la matematica
che l'esperienza
del lavoro vennero rivalutate.
Il principale
rimprovero che egli mosse
ai tomisti è riportato
da Etienne Gilson. «Il
difetto di Alberto
, del suo discepolo Tommaso
e di tanti altri
è di voler insegnare prima
di aver imparato.»
(8) La scolastica tomistica
di Alberto Magno
e Tommaso d'Aquino, veniva
così ridimensionata
come sapere astratto e
sentenzioso, colpevole
di avere trascurato la
matematica e le esperienze
sensibili, comprese quelle
della gente comune.
Voleva essere un bagno
di umiltà, ma i dogmatici
lo interpretarono capziosamente
come una
dimostrazione di superbia.
Resta il fatto
inoppugnabile che, una
volta messa in moto,
la dinamica sociale non
si poteva certamente
fermare con una filosofia
dogmatica. Gli
esseri umani aspirano generalmente
a migliori
condizioni di vita. Il
borgo comunale era
diventato una specie di
terra promessa anche
per chi non aveva mai sentito
parlare di
esodi biblici.
Chiarita l'impossibilità
di un vero e proprio
isolamento sociale delle classi subalterne, anche le
più subalterne come i servi
della gleba nella
società feudale, diventa
più agevole procedere
nella nostra ricerca.
Il silenzio sullo Jus primae noctis.
La linea di divisione tra alfabetizzati e
gli altri, non andrebbe intesa in senso forte,
come una muraglia invalicabile. Le dinamiche
sociali ed economiche spingevano ad un rimescolamento
anche nelle società più statiche ed arretrate.
Gli analfabeti sapevano parlare ed anche
pensare, per quanto in termini rudimentali,
con poche parole e giudizi trancianti, spesso
autoreferenziali. Oltre che a lavorare, potevano
apprendere e memorizzare, soprattutto detti
proverbiali, canzoni, cantilene e filastrocche.
Negli studi antropologici ed etnografici
questa prospettiva di ricerca è venuta a
qualificare l'oggetto dell'indagine come
cultura orale delle classi subalterne, in
particolare quelle confinate nelle campagne.
Non occorre molta fantasia per supporre che
anche tra gli analfabeti esistesse una tendenza
ad emanciparsi dalla propria ignoranza, insieme
ad un'istintiva diffidenza nei confronti
di tutto ciò che veniva "predicato"
in alternativa alle proprie usanze e credenze.
"Voci e dicerie", nonché pettegolezzi,
dunque, ma anche stupore per apparizioni
prodigiose, come quelle di bellissime dame
vestite di colori e gioielli, assimilabili
a "Madonne", nonché uomini fieri,
a volte benigni ed altre feroci, sui loro
cavalli da guerra e da caccia. In un certo
senso "esseri di un altro mondo",
ma assai vicini al mondo quotidiano, soprattutto.quando
pretendevano lo Ius primae noctis. Non una legge, ma una consuetudine assai
diffusa, e che, secondo
alcune fonti, il
futuro marito era in grado
di aggirare pagando
un riscatto e trasferandosi
altrove. (si
veda in proposito wikipedia). Una pratica aberrante contro la quale
non si trovano tracce di
condanna in documenti
ecclesiastici. ed in opere
di filosofi e
teologi medioevali consultabili
attualmente
e fino a prova contraria.
Ovviamente, il
lettore dev'essere avvisato:
non sono una
specialista di filosofia
medioevale, e quindi
mi sono avvalso solo di
diversi manuali.
Leggendoli, si può stupire
per il fatto che
nella descrizione offerta
dagli storici,
tutti o quasi questi venerabili
ricercatori
di Dio, della sua natura,
esistenza, verità,
siano stati generalmente
poco attenti alla
parola di Dio come fonte
possibile di verità
e quindi di esistenza.
Ad esempio, se Dio
disse "non desiderare
la donna d'altri"
- espressione oggi giudicata
risibile - non
avrebbe potuto esserlo
a quei tempi. Eppure,
non si sfugge alla sensazione
di un accomodamento.
Le autorità religiose concedevano
ai dissoluti
d'alto rango libertà e
diritti che si traducevano
in prepotenza e violenza
contro gli altri.
D'altro canto, disinteressandosi
completamente
anche di quello che avveniva
tra gli strati
infimi, probabilmente,
non arrivavano nemmeno
a vedere le prepotenze
quotidiane consumate
dai capifamiglia: incesti
e violenze nei
confronti di figlie, sorelle.
Per le donne
è sempre stato assai difficile
vivere, ma
in pieno feudalesimo lo
fu più che in ogni
epoca successiva.
(seconda parte)
Note:
1) Ernesto Buonaiuti -
Storia del cristianesimo - Newton Compton 2002
2) si veda il breve e leggibile:
Attilio
Agnoletto - Lutero - Mondadori 1986
3) Proclo - La provvidenza e la libertà dell'uomo - Laterza 1986
4) si veda in: Italo Mereu
- Storia dell'intolleranza - Bompiani III edizione 2000
5) per cominciare: Adriano
Prosperi - Il Concilio di Trento: una introduzione storica - Einaudi 2001
6) Georges Minois - Storia dell'ateismo - Editori Riuniti 2003
7) Le citazioni sono tratte
da Fumagalli
Beonio Brocchieri e Parodi
- Storia della filosofia medioevale - Laterza 2002 / La seconda proviene dall'Opus Tertium di Bacone
8) Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo - La Nuova Italia - terza ristampa 1990
gm - 4 luglio 2013
|
|
|
Dal libro di Amos
«Io detesto, respingo le vostre feste
solenni
e non gradisco le vostre riunioni sacre;
anche se voi mi offrite olocausti,
io non gradisco le vostre offerte,
e le vittime grasse come pacificazione
io non le guardo.
Lontano da me il frastuono dei vostri
canti:
il suono delle vostre arpe non posso
sentirlo!
Piuttosto come le acque scorra il diritto
e la giustizia come un torrente perenne.
Mi avete forse presentato sacrifici
e offerte nel deserto
per quarant'anni, o Israeliti?
Voi avete innalzato Siccut come vostro
re
e Chiion come vostro idolo,
e Stella come vostra divinità:
tutte cose fatte da voi.
Ora, io vi manderò in esilio
al di là di Damasco»,
dice il Signore, il cui nome è Dio
degli
eserciti.
Da "Contro i cristiani" di
Celso
Ebrei e cristiani si potrebbero paragonare
ad una frotta di pipistrelli o a formiche
che escono dalla loro tana o a rane che siedono
a consesso intorno ad una pozzanghera o a
vermi che tengono assemblea in un angolo
di un pantano e discutono tra loro per stabilire
chi di essi sia più grande peccatore e dicono
così: "E' a noi che Dio rivela e annuncia
ogni cosa. Tralasciando tutto quanto l'universo
e il corso del cielo, e trascurando la terra
che è così grande, solo per noi governa,
solo a noi manda messaggeri e mai cessa di
inviarli e di provvedere a che a che noi
siamo sempre uniti a Lui. Esiste Dio e, dopo
di Lui, noi vermi da Lui creati ed a Lui
in tutto simili; a noi tutte le cose subordinate:
la terra. l'acqua, l'aria e le stelle. Tutto
esiste per noi ed è stato disposto al nostro
servizio. Ora, poiché tra noi alcuni peccano,
Dio, verrà Suo figlio ad incenerire gli ingiusti
e a permettere a tutti gli altri di vivere
eternamente con Lui." Ora, tutte queste
pretese si potrebbero tollerare in una discussione
tra vermi e rane più che nella disputa tra
Ebrei e Cristiani.
da Le guerre di Dio
di Cristopher Tyerman
Le proporzioni del massacro che seguì impressionarono
perfino gli incalliti veterani della campagna,
i quali ricordarono che la zona "ribolliva
di sangue" e gli uccisori vi erano immersi
fino alle caviglie. Raimondo di Aguilers
ricorse al linguaggio dell'Apocalisse per
descrivere i cavalieri cristiani di fronte
alla moschea di di al-Aqsa, che avanzavano
nel sangue fino alle ginocchia dei cavalli.
...
Pochi scamparono al massacro di Gerusalemme.
Gli ebrei furono arsi nella loro sinagoga.
I musulmani furono fatti a pezzi senza distinzioni,
decapitati o torturati lentamente con il
fuoco...
|