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Ateismo e religione tra Cinquecento e Settecento
Introduzione e prima parte
di Guido Marenco
«Des Périers incarna quella che può già dirsi l'angoscia esistenziale intrinseca alla civiltà occidentale, il male di vivere degli uomini che, insoddisfatti delle risposte predefinite delle religioni, si volgono alla ragione per dover constatare che essa è insieme troppo e troppo poco per chiarire il senso dell'esistenza. Troppo, perché crea delle speranze di liberazione e di comprensione del mistero dell'universo, e troppo poco perché i suoi limiti si toccano rapidamente e lasciano nell'animo un senso di amara frustrazione. La ragione ha un grande poter di distruggere la fede; ma non ne ha altrettanto per sostituirla; essa abbatte le certezze, senza però colmare il vuoto che apre, lasciando così l'uomo a metà strada, conscio di una sola cosa: la propria ignoranza, fardello da portare sulle spalle in silenzio per tutta una vita, ormai priva di senso.» (Georges Minois - Storia dell'ateismo)


Introduzione
Per quanto mi senta più che un agnostico imbalsamato nel suo stesso concetto, non possiedo la stoffa del sostenitore di certezze che non ho. Non so se Dio esista, anche se me lo auguro, non provo alcuna necessità di negarne l'esistenza ed impegnarmi in campagne pubbliche per corrompere le credenze di chicchessia. Compresa la fede degli atei nella natura e nel caso. A me interessano più i comportamenti che le fedi. Quando scoprii di pensarla come il profeta Amos, ebbi una specie di shock. L'unica vera prova dell'esistenza di Dio è sentire in se stessi la verità della "parola" del Dio di Amos. A quei tempi ero ateo nel senso più superficiale del termine. Oggi sono indefinibile. Potrei accettare le qualifiche di storico e di antropologo, ma non hanno molto a che vedere con ciò in cui potrei credere, se non per il fatto che credo nella trasmissione della "parola", nella ricostruzione - per quanto possibile - della storia vera e non di quella scritta dagli apologeti a vantaggio della propria dottrina.

Democrito, Epicuro, Lucrezio, Machiavelli e Darwin convergono in un ideale banchetto di individui che contestano l'esistenza di divinità o, come in Epicuro, le rendono superflue. Anche esistessero, non si occuperebbero dell'umanità. Rinnegato in un sol colpo di spugna il mito di Prometeo e il suo tragico significato, Epicuro poteva andar fiero di avere aperto un villaggio vacanze per giovani ricchi mantenuti dal lavoro degli schiavi. Un giardino di delizie da vivere con moderazione ed autocontrollo - innegabili virtù - senza bisogno di uscire dal recinto e di tornare nel mondo vero, fondato sullo sfruttamento del lavoro umano. "Vivi nascosto" è un suggerimento di grande saggezza. D'accordo, per fare cosa? L'epicureo conseguente è quasi inutile alla società e poco utile a se stesso. Gestisce piccoli piaceri, svolazza tra godurie estetiche, ripudia la conoscenza scientifica, perché tutto ciò che c'è da sapere lo ho già svelato il maestro. Esaltato nella tesi di laurea come campione della libertà umana contro il determinismo di Democrito, Epicuro fu successivamente contestato da Marx, ma indirettamente, senza ritrattazione palese delle sue idee giovanili. Marx scrisse contro tutti gli esponenti di rilievo della cultura tedesca del suo tempo, in modo brillante e perfino divertente, ma un briciolo d'autocritica è difficile trovarlo. Non ho mai prestato eccessiva attenzione al Carteggio Marx-Engels e lascio volentieri agli studiosi il compito di esaminarlo da cima a fondo e trovare tracce di ripensamenti. Resta che l'epicureismo ammodernato - quello del genero di Marx, Paul Lafargue - è la negazione del marxismo militante. Lenin raccomandò ai bolscevichi una condotta di vita irreprensibile anche agli occhi di un prete ortodosso e una totale dedizione alla causa. La società vera non è un villaggio vacanze e non lo sarà mai nemmeno con il comunismo, perché la verità della vita umana è il lavoro. Poi si può giungere a vedere il mondo con gli occhi di Lucrezio, e scoprire che nemmeno la natura è un luogo di delizie. Sicché, quando si legge il Salmo che esorta tutte le creature a lodare Dio, mi chiedo se non sia il caso di sorridere. I testi considerati sacri mancano di umorismo. Nella Bibbia c'è un solo punto in cui si rivela un briciolo di divertita reazione alla monumentale retorica delle scritture sacre. Quando l'angelo di Dio va a cercare Gedeone per affidargli il comando di una guerra a scopo difensivo, lo proclama "Benedetto, uomo forte e valoroso", Gedeone risponde con una battuta fulminante: se io sono forte, chissà come stanno i deboli. Le traduzioni correnti non rendono a sufficienza il pungente umorismo di Gedeone. Potrebbe spezzare castelli di retorica falsa ed ipocrita e nei testi biblici se ne trova molta. Gedeone fece il suo dovere, condusse l'esercito alla vittoria, ma il suo cuore non era certo felice. Come si fa a sentirsi benedetti quando si è costretti ad uccidere ed a portare i propri uomini a farsi uccidere? Gedeone, prima di partire per la guerra, eresse un altare al "Signore della pace". La citazione di Amos posta qui a fianco si chiude con il nome di Dio caro ai profeti: "Signore degli eserciti". Per gli olimpi esiste Ares-Marte come simbolo del bellicoso, uno stereotipo. Per Amos esiste un solo Dio, ed è simile all'uomo, realizzato a sua immagine. Quando è necessario, si fa Signore degli eserciti. Tuttavia è chiaro che nemmeno ad Amos piaceva la guerra. Chi di spada ferisce, di spada perisce. Sia Gedeone che Amos dovettero nutrire qualche dubbio sul significato di "terra promessa". Calata in una striscia, circondata da popolazioni ostili e predoni, anche sventolando ramoscelli d'ulivo, la guerra era inevitabile. Amos non negò la necessità della guerra, ma sentì il dovere di testimoniare che secondo il suo Dio, i peggiori nemici erano all'interno del popolo, i capi del popolo, all'interno dei singoli individui sregolati. Erano i religiosi convinti che bastassero olocausti per guadagnarsi il favore divino. Ma, quando si cercava di far passare l'idea opposta, si veniva contraddetti dalle turbe, eccitate e manovrate da abili sobillatori.
Il Signore della pace e della guerra non premia chi afferma la verità. Né gli fa acquisire facili consensi. Questa è la vera fonte dell'ateismo degli individui onesti. Le preghiere non hanno efficacia. Le imprecazioni si perdono nel vento. Ci si deve rassegnare al trionfo degli iniqui e dei ciarlatani, tenendo vivo il lumicino della speranza, scrivendo qualche frottola, infinite lamentazioni, nonché profezie sempre più fosche. Il sapere dei profeti di Giuda e d'Israele trascendeva quello dei magi e degli astrologi, anche se non si può escludere che vi facesse ricorso. Guardava al destino dei popoli e delle nazioni secondo una logica del tutto diversa, quello della caduta inesorabile dei sistemi piramidali fondati sulla violenza e la schiavitù. Una vicenda di tempi lunghi e lunghissimi che, quando sembra sul punto di compiersi, fallisce regolarmente. Il regno millenario promesso dall'Apocalisse, ultimo singhiozzo della profezia, non è mai arrivato, nemmeno dopo la seconda guerra mondiale, quando sembrò che il male assoluto rappresentato da Hitler fosse stato definitivamente sconfitto.

La ricerca storica arranca ed è più volte costretta ad arrestarsi di fronte alla mancanza di dati sufficienti. Sono partito da quei dati. Esistono scritture che parlano di Dio, e individui che cercano di metterle in pratica. Pochi, rispetto a chi ne parla a vanvera. La prima redazione del decalogo conteneva il comandamento: "Non nominare Dio". Successivamente fu aggiunto "invano". Questa è una certezza, una delle poche. Ma, rispetto al concetto di solidarietà umana, non si può negare che esista una tradizione buddhista assai vicina all'ateismo, prima che lo stesso Buddha e le sue ripetute reincarnazioni fossero divinizzate dal fervore religioso popolare, e poi stabilizzate da una casta sacerdotale meno sfrontata di quelle sorte ad Occidente. In Cina si arrivò a divinizzare Confucio. Questa spinta ad elevare al rango di divinità esseri umani particolarmente sensibili alla sofferenze sembra corrispondere al bisogno di trovare parole più salde delle altre. Parole che durano, come insegnò Gesù. Sicché, si potrebbe anche dire, che quando tra le masse non si insinuano agitatori interessati, sorgono bisogni spontanei originati sia dallo stomaco che dalla fantasia, per ridirla con Marx. Elevare al rango di divinità qualche essere umano realmente esisitito è diverso dall'adorare forze naturali, animali, astri celesti. E' vero che nell'antico Egitto Akhenaton tentò una riforma religiosa in senso monoteista, ma non seppe trovare di meglio che indicare come Dio supremo il disco solare: un dio visibile. Non sappiamo se nei suoi insegnamenti vi fosse qualche richiamo alla verità interiore e al Dio invisibile. Possiamo solo prendere atto che i sobillatori, facilmente individuabili nella casta sacerdotale spodestata e smascherata, riuscirono nella loro impresa, ponendo sul trono un fanciullo imbelle e viziato, circondandolo di immagini e simboli impressionanti.
Il Dio di Mosé e di Amos era invece invisibile, quindi non dimostrabile more geometrico e nemmeno facendo ricorso all'evidenza.

Non un'unica mano, ma tante manine interessate a confondere e una sola manina volta alla verità interiore
Una delle mie poche capacità di investigatore della storia (da scrivania, sia chiaro) consiste nel demolire certezze, senza cadere in quello scetticismo estremo che caratterizzò il lavoro di Hume. Eliminando certezze, arrivai a salvarne qualcuna. Invece di occuparmi delle palle da biliardo, decisi di indagare il testo biblico e portare alla luce alcune "incoerenze". (incoe.pdf) La conclusione cui giunsi mi impone di credere che la Bibbia non fu scritta da "un'unica mano" - come ancor oggi sostengono alcuni mistici, i cabalisti e importanti professori di teologia - ma da una molteplicità di individui, alcuni dei quali non solo fantasiosi e di manica larga circa i miracoli, ma anche fondamentalmente disonesti, veri e propri imbroglioni, con un senso di Dio ed un rispetto del prossimo miserabile. Il che porta ad un paradosso. Il luogo della denigrazione di Dio è la Bibbia, nessun ateo è stato capace di innescare tanta incredulità, se non ricorrendo al testo biblico. Si può diventare atei leggendo libri come Numeri o Samuele 1 e 2 e la teorizzazione della guerra santa di sterminio. Se questo accade, è perché l'individuo si sente migliore degli scribi che scrissero quelle cronache, senza aggiungere una parola di commento. Cronache che tornano utili per acquisire coscienza della storia e, come sostengo da tempo, sarebbe criminale rimuovere o distruggere, L'umanità ha diritto di sapere. Ciò che unisce un ricercatore ateo ad uno agnostico e a uno credente potrebbe essere l'onestà e l'obiettività dei resoconti. L'ateismo degli individui onesti è un grado di maturità che esige rispetto. Andrebbe apprezzato. Invece, fu deriso e perseguitato, anche se, a ben guardare, il vero bersaglio degli inquisitori non fu l'ateismo, ma l'eresia, perché per molto tempo e in molti casi, fu più vicina alla solidarietà con i sofferenti e i deboli. A leggere il De rerum natura di Lucrezio, non si prova alcun brivido lungo la schiena; a sentire di Pietro Valdo e Jan Hus, ci si può commuovere. Più l'eresia avvicinava temi cari a profeti biblici come Amos, più veniva perseguita. Uno dei primi nomi che viene in mente è Arnaldo da Brescia, messo a morte dall'azione congiunta di Federico Barbarossa e del pontefice Adriano IV. Si rimane amareggiati nel constatare che quest'uomo venne citato solo "di corsa" nella Storia del cristianesimo scritta da Ernesto Buonaiuti. (1) Testo che rimane tuttavia essenziale per capire l'involuzione delle dottrine cristiane dalla prassi all'utopia e per acquisire conoscenze su passaggi particolarmente critici nella trasmissione della parola che il supposto Dio rivolge all'umanità, mediante uomini che parlano e che scrivono. Seguendo Buonaiuti, si scopre Marcione, e si viene a sapere che costui ebbe l'ardire di ritoccare il Vangelo di Luca, gli Atti degli apostoli ed alcune epistole paoline, se non tutte. Ovviamente, non si può sapere fino a che punto. Ma la manipolazione, finalizzata ad opporre il Dio dell'amore del nuovo testamento al Dio della violenza dell'antico, non può non suscitare sospetti, in particolare su alcuni passaggi del testo di Luca che non hanno riscontro negli altri Vangeli sinottici. Primo fra tutti l'ampio prologo sul concepimento di Gesù per opera dello Spirito Santo nel ventre di Maria, rimasta vergine fino al parto, essendo evidente che dopo una gravidanza, una donna non è più vergine, a meno che lo Spirito Santo non intervenga una seconda volta per ricucire la rottura. Questa narrazione prevalse su quella di Matteo (Gesù figlio di Giuseppe, che discendeva da David nella carne) e diventò dogma.
Per essere considerati credenti occorre ritenere veritieri resurrezione ed ascesa in cielo. Miracoli che si aggiungono ad altri miracoli, finendo col ridurre progressivamente l'area dei potenziali credenti. Ma desta sensazione il dato che in pochissimo tempo, la notizia dell'evento si sparse nella forma della moltitudine di testimoni che vi avevano assistito. Razionalmente, si può solo arrivare ad ammettere che gli apostoli non vollero che quei pochi fedeli rimasti a Gesù dopo la crocifissione, l'agonia e la morte, fossero travolti dal dubbio sulla verità dei suoi insegnamenti. "Dio non ci ha abbandonati". La ragione che si richiama all'esperienza sensibile non può che negare l'evento ed imputare agli apostoli la bugia più spudorata. Ma essi furono creduti testimoni veritieri. Così, davvero in un batter d'occhio, la buona novella si diffuse ed allo storico razionale e di sensate esperienze non rimarrebbe altra via che l'indagine psicologica sui motivi per i quali si accettò la verità dell'impossibile. Erano tempi in cui si credeva facilmente, certo più facilmente di oggi, ma la resurrezione e l'ascesa in cielo di un uomo di modesti natali - figlio d'un padre adottivo artigiano e di una povera fanciulla rimasta incinta per motivi misteriosi - si incontrò con la speranza dei miseri, prima ancora che con le speculazioni dei dotti. La speranza è probabilmente qualcosa di istintivo, assai più naturale dell'amore per il prossimo. Su questo punto, la mia opinione è l'esatto contrario di quella di Lutero (2), che ritenne innaturale la speranza ed istintiva la disperazione. Probabilmente abbiamo ragione tutti e due. Non sto scherzando. E' possibile che anche la disperazione abbia cause naturali oltre che sociali. Tuttavia, non rinuncio ad insistere: l'individuo di ragione dovrebbe inchinarsi di fronte al ritorno della speranza, cercare di comprenderla, astenersi dal dichiararla irrazionale. Non è il principio perfetto, perché è comune anche agli individui privi di scrupoli, ma torna utilissima a chi si sente a posto con la propria coscienza e si è trovato più di una volta depresso.

Il senso della storia: rifarsi piccoli per maturare diversamente
D'altra parte, il senso della storia è chiarissimo. Il Dio degli ebrei e dei cristiani non si rivelò ai potenti ma, agli ignoranti, agli oppressi, ai deboli, agli istintivi. Dapprima in un campo nomadi, insegnando un regolamento condominiale per la convivenza civile. Penso alle zuffe per le donne, a gente che orinava sulla tenda del vicino, a infoiati che sodomizzavano le pecore davanti ai bambini, infettandosi e trasferendo le loro impurità alle donne. Chi trova rigido e dogmatico il Dio di Mosè, manca del senso della storia concreta ed anche del presente, dove si vede di peggio nei piani alti e bassi delle società contemporanee.
Molti secoli dopo lo stesso Dio di Mosè e di Amos apparve in Galilea, presentandosi a pescatori e giovani discepoli di Giovanni il battista. Erano uomini piccoli, ma già condizionati da scetticismo e supponenza. Dovevano "tornare ad essere come bambini". Crebbe un movimento sostenuto dai possessi materiali di alcune donne influenti come la moglie di Cuza, amministratore di Erode Antipa. Sono notizie ricavabili dal Vangelo di Luca e non destano particolare incredulità. Anzi, profumano di realismo. Senza finanziamenti non si va da nessuna parte. Quelle donne godevano evidentemente di una relativa libertà d'azione e di una modesta indipendenza. Forse anche di una cultura non propriamente giudaica nel senso maschilista del termine. Per quanto segregate da una tradizione etica di rigidità impressionante, ad esse poteva essere giunta notizia della storia di Ruth, tenuta ben nascosta dai bacchettoni dei tempi precedenti. Al seguito di Gesù non c'erano solo uomini rudi e prostitute, streghe liberate da spiriti cattivi come Maria di Magdala, ma anche donne pie e generose, sinceramente animate dall'intenzione di attenuare le sofferenze umane. Purtroppo, la storia fu interrotta in modo violento e da quanto sappiamo dai documenti essa finì nel breve volgere di una generazione. Spazzate via la sinagoga degli ellenisti e la Chiesa di Gerusalemme, dispersi gli apostoli per il mondo, pochi di essi lasciarono memorie scritte. Forse Pietro, probabilmente Giovanni. ancora più probabilmente Matteo. Per il resto, come affermano i più autorevoli storici, l'unico anello di congiunzione tra il movimento suscitato da Gesù e gli eventi successivi fu Policarpo, vescovo di Smirne, il quale aveva ricevuto un'istruzione diretta da alcuni apostoli. Purtroppo, nemmeno Policarpo lasciò qualcosa di scritto, ed il suo insegnamento trapassò ad Ireneo, uno scrittore sistematico e dogmatico, capace di rendere la dottrina cristiana pedante e noiosissima anche ai santi. Ad Ireneo andrebbe riconosciuto il merito di aver combattuto lo gnosticismo mentre tentava di impadronirisi della figura di Gesù per avallare le proprie dottrine. La prima delle quali era l'assimilazione del "creatore" al demiurgo di Platone, una divinità inferiore e materialista. La seconda pretendeva di considerare Gesù come espressione dell'eone superiore, non il Figlio di quel demone che aveva creato il mondo, ma il Figlio del Dio purissimo di un altro mondo superiore alla materia. Non è quindi un caso che nella Chiesa esista una corrente tradizionalista che fa dell'antisemitismo uno dei propri perni. E' un chiaro residuo di gnosticismo e di disprezzo per il materialismo giudaico.

Ovviamente, in tale vuoto di informazioni, assunsero progressiva importanza le epistole paoline, fossero o meno state ritoccate da Marcione. Nella seconda lettera attribuita a Pietro apparve la non troppa nota raccomandazione di leggere e meditare gli scritti di Paolo, nonostante la difficoltà "di cose un po' difficili a capirsi". Fu una legittimazione tardiva capace di orientare, tuttavia, in modo decisivo le comunità cristiane all'assimilazione delle dottrine di Paolo. La Chiesa che si affermò storicamente non sarebbe quella che conosciamo senza tale vittoria di Paolo, che a mio avviso si può riassumere nella formula del "trapasso da movimento a organizzazione". Non ispirata a criteri di unità nella diversità, ma a ferrei principi di unità delle specializzazioni. Mediante il centralismo autoritario, la libertà individuale fu abolita su punti essenziali. Pietro venne criticato per la debolezza di consumare i pasti nelle mense tra compaesani invece che in mezzo ai pagani convertiti. Ovvero di fare preferenze tra individui in base all'origine etnica e culturale. Non era una critica da uomo a uomo lontano da orecchie indiscrete, ma rilievo molto forte e pubblico al primo apostolo di Gesù. Non si conosce la risposta di Pietro, che forse non ci fu mai. La seconda lettera di Pietro è quasi sicuramento un falso combinato da qualche seguace di Paolo o di Marcione. Per Paolo, il cristiano deve essere "organico" alla Chiesa proclamata dogmaticamente "corpo di Cristo". Il fine della Chiesa è l'indottrinamento che conduce alla salvezza metafisica, mediante una futura resurrezione in una carne incorruttibile. Questa si ottiene mediante il ricevimento della grazia di credere e la fede che ne consegue. Il cristiano è giustificato dalla fede e non dalle opere. Il che non vietò a Paolo di dettare una propria etica che imponeva molte opere. Il cristiano deve "correre come un atleta allo stadio", esporsi pubblicamente onde guadagnare "onore, gloria ed immortalità". Facendo il bene, le autorità civili lo loderanno. Le autorità civili sono costituite da Dio. Ciò sarebbe l'esatto contrario di quanto affermano i profeti e i libri storici della Bibbia, in totale contrasto con quanto sarebbe accaduto anche a Paolo, imprigionato e giustiziato, La contraddizione più stridente sarà con il Vangelo di Matteo: Gesù risorto affermerà che "questo mondo è in potere del maligno". Dopo l'editto di Costantino ed il Concilio di Nicea, si potrebbe dire che l'organizzazione di Paolo prevalse definitivamente sul movimento ancora presente in qualche comunità di cui sappiamo ben poco. Per uno di quei paradossi della storia a cui sono affezionati i seguaci di Hegel, quando il filosofo Proclo scrisse il canto del cigno della filosofia greca, fosse stato più attento alle vicende dei movimenti e delle organizzazioni cristiane, si sarebbe trovato a constatare che la divina provvidenza da lui concepita aveva operato non solo per Temistocle, ma anche per Paolo e la sua Chiesa. (3) Interpretazione incompleta perché in realtà la Chiesa organizzata da Paolo, e già dogmatica di per sé, finì nelle mani dell'imperatore Costantino. Era ancora divina provvidenza, o non si trattò di diabolica provvidenza? O di una strana ed assurda mistura dell'una e dell'altra?

La trasformazione della Chiesa ai tempi di Costantino
Estraendo dall'Apocalisse un passo dimenticato, Satana non è il sovrano che regna all'inferno sui dannati, ma colui che sta di fronte a Dio ad accusare gi uomini di tutti i peccati. E' l'inquisitore prima ancora che nascesse l'inquisizione, perché in realtà la procedura ha radici molto più antiche. Se ne possono trovare tracce nell'Egitto di Tutankhamon, nell'Atene di Anassagora e Socrate, a Roma. La dimensione che rende l'inquisizione possibile è quella della "religione civile". Dietro ad ogni religione civile si nascondono interessi generali di ordine pubblico e gli interessi materiali di una casta di sommi sacerdoti mantenuti a spese di svariati contribuenti. Dove non basta il beneficio ecclesiastico garantito dalla rendita dei terreni agricoli ed altre attività imprenditoriali, arriva l'inganno e la truffa, l'indulgenza come sconto di pena (penitentia) in cambio di sostanziosi oboli, l'invenzione di mete turistiche spacciate come luoghi di pellegrinaggio utili a conseguire benefici di proprietà esclusiva. Per evitare un giudizio all'ingrosso si dovrà allora entrare in qualche dettaglio. Non tutti gli uomini di Chiesa parteciparono in ugual misura alle grandi abbuffate, come quella preparata dall'imperatore Costantino al Concilio di Nicea. Secondo la testimonianza di Eusebio di Cesarea, l'unico ingrediente mancante alla soddisfazione di tutti i desideri terreni erano le donne. Per il resto, si trattò di uno sfoggio mirabolante di vanità , in particolare del lusso sfrenato, di oro e gioielli, di cibarie prelibate offerte a digiunatori accaniti. In un sol colpo il potere e la ricchezza ebbero ragione di eremiti, chierici, e santi presunti, nonché delle divisioni filosofiche su cosa è Dio. Sembrò ai partecipanti di essere finalmente entrati nel regno dei cieli. Ovviamente, questo resoconto rischia di non rendere giustizia e verità ad eventuali dissenzienti, a coloro che non si fecero ingannare dalle apparenze, ad altri che rifiutarono di farsi strumentalizzare dalle manovre politiche dell'abile Cesare. Sarebbe bastato rammentare gli ammonimenti di Tertulliano - un cristiano non può essere Cesare - per rimettere tutto in discussione. Ma, sembra sia storia di minoranze poco conosciute. Il dato decisivo è che in pochi decenni la situazione degli appartenenti alle comunità cristiane si era rovesciata. Non più perseguitati, alcuni di essi, in particolare vescovi e chierici del Nordafrica, avevano avuto l'opportunità di abbandonare il lavoro ed intraprendere la professione di insegnante e chierico a tempo pieno con cospicui finanziamenti imperiali. Si stava preparando così la strada a trasformare il sacerdozio in una carriera all'interno di una struttura piramidale. Sarebbe miope limitarsi a queste osservazioni. Grazie a Costantino, gli appartenenti alle comunità cristiane furono realmente liberati da un giogo infame. Per uno di quei paradossi tipici delle società organizzate attorno ad una religione civile, in passato i cristiani erano stati perseguitati anche ricorrendo all'accusa di ateismo. Seguaci delle dottrine di un uomo, e non dei veri dei. Secondo Celso, citato qui a fianco, un verme maestro di vermi.
'Come già detto, l'attenzione delle guide delle comunità cristiane si era progressivamente spostata dalla predicazione della parola di Dio, senza se e senza ma, poi con qualche se, infine troppi ma, alla natura di Dio, a "cos'è Dio", ossia a trasformare "Dio" in un oggetto d'indagine su cui sentenziare. Il filosofo tende a festeggiare l'evento come una riabilitazione della ragione nei confronti della fede, soprattutto quella più irrazionale, quella degli invasati che massacrarono Ipazia di Alessandria. Sarebbe sciocco negare l'importanza di questi sviluppi per il formarsi di una coscienza, ma va da sé che il proliferare delle ipotesi su Dio è stato spesso il motore di contese senza senso, culminate in violenze senza senso.
Il ragionamento su Dio poggia sul bisogno esteriore di imporre la propria presunta migliore visione del mondo. Non ha molto a che fare con il comportamento dei primi propagandisti del Vangelo che, dopo aver bussato alla porta di tutti quelli che capitavano a tiro, ed incontrato un rifiuto, se ne andavano in pace, mostrando la schiena e "sollevando la polvere con i propri calzari". Atteggiamento poco rispettoso e permeato d'una impazienza incoerente con altri passi evangelici, ma più tollerante di tutto quello che venne dopo la trasformazione del cristianesimo in una "religione civile". Tra la "via" predicata dai primi seguaci di Gesù e ciò che venne in seguito trasformato in dogma è palese la discontinuità. Dalla proposta si è passati all'imposta, ed anche all'impostura.
Costantino fu un Cesare indubbiamente saggio ed astuto, ma pur sempre un uomo che aveva fatto assassinare moglie e figlio accusandoli di relazione incestuosa. Quest'uomo risolse la questione di "cosa è Dio" con un atto d'imperio, accontentando anche Eusebio di Cesarea, che era arrivato al Concilio come seguace "critico" della dottrina di Ario, il quale, con un procedimento logico apparentemente ineccepibile, aveva contestato l'eterna coesistenza di Padre e Figlio. Se è Figlio, cosa autorizza a predicarlo come già esistente da sempre accanto al Padre? Costantino gettò sulla bilancia il peso dell'oro e della spada, si fece teologo e impose la soluzione che sembrava più conveniente anche in una logica di conservazione dei "misteri" divini, quale appunto quello della Trinità. Da allora la Chiesa non è la Chiesa di Pietro, e nemmeno quella di Paolo, ma quella di Costantino. La Riforma luterana si risolse con un tentativo di tornare alla Chiesa di Paolo sostanzialmente fallito perché i principi tedeschi che la appoggiarono erano dei Cesari in formato mignon. Bisogna giungere al Novecento perchè accada qualcosa di veramente nuovo nella Chiesa romana e nel mondo dei teologi luterani. Con un'eccezione significativa: proprio tra i protestanti si fece strada tra mille difficoltà un uomo legato alla persistente eresia di Jan Hus. Si chiamava Jan Amos Komenskji (Comenio) ed ebbe l'ardire di definire Catholica la sua ispirazione di "insegnare tutto a tutti", in opposizione alla falsa cattolicità della Chiesa di Roma. Comenio fu combattuto anche dai teologi luterani. In Comenio ricorreva il tema del "tornare ad essere come bambini", partire dai bambini e dalle bambine per una corretta istruzione. Inutile dire che anche Comenio fu un perdente, in ciò identico ai profeti.

Gli inquisitori e la perdita del comandamento fondamentale
Sul piano strettamente logico, se si crede alla verità delle scritture evangeliche, l'inquisizione fu un non-senso che acquistò senso, il suo perverso significato man mano che ci si allontanava dall'origine e papi e vescovi della Chiesa acquistavano potere. Il governo della Chiesa era passato nelle mani di uomini senza carisma reale rispetto a ciò che dicevano di propagandare. La loro autorità poggiava sulla repressione e su pseudoargomentazioni. L'inquisizione mandava a dire, mediante bolle ed editti, che il comandamento di "amare il prossimo come se stessi" era sospeso a tempo indefinito.
Gli inquisitori perseguitarono soprattutto gli eretici, l'accusa di ateismo era spesso aggiunta, con qualche acrobazia mentale, per rendere più potente e terribile la condanna. In realtà, l'eretico in genere si appellava alle scritture per criticare gli aspetti più scandalosi dei comportamenti degli ecclesiastici. Sul piano formale, se gli accusati avessero avuto a disposizione un collegio di difesa a conoscenza delle scritture, se la sarebbero cavata nella stragrande maggioranza dei casi. Non fu così perché la concezione del diritto e dei diritti umani che avevano gli inquisitori era aberrante. In tale contesto si comprende perché, proprio nel periodo di cui ci stiamo occupando, emerse un paradigma inquisitorio che distingueva tre forme di violenza: quella ingiusta, quella giusta, quella legale. La violenza ingiusta era quella usata dagli eretici. Quella giusta veniva impugnata dalla Chiesa cattolica e dai principi fedeli contro le sovversioni eretiche: era lecito torturare. Quella legale trovava un formidabile appiglio nella categoria del sospetto. Si poteva e doveva esercitare violenza contro chi era sospettato di eresia, anche solo in base a "dicerie" e soffiate anonime, spesso prefabbricate. (3) Era la logica della guerra preventiva usata indiscriminatamente, sparando a tutto ciò che si muoveva in modo insolito. Anche fosse stata zizzania - il detto di Gesù non autorizzava ad intervenire per estirparla. Tuttavia, occorre riconoscere che bisognerebbe distinguere tra eretici veri o presunti. Storicamente, le azioni di Dolcino e la sua banda rientrano senza troppi sforzi nella categoria della violenza. Quella di Dolcino assomigliò in modo impressionante alla vita di David: un'esistenza da bandito e da predone. Non era un'eresia, ma un accumulo di reati comuni quali l'omicidio, il furto, il brigantaggio.

Pietro Aretino ed altri atei famosi: le due misure dei vertici ecclesiastici romani ed il trionfo dell'estetica

Di contro, l'indagine storica non può che ammutolire di fronte all'estrema tolleranza mostrata dai vertici della Chiesa nei confronti di atei semidichiarati come Pietro Aretino, nonché altre importanti figure del mondo dell'arte, della cultura, della medicina. Tra essi, spicca la figura di Machiavelli, ambiguo scrittore di testi teatrali fortemente ironici contro i cristiani osservanti, e di testi storici e politici che esaltavano la religione civile, perché senza di essa le repubbliche e i regni vanno in rovina. Protetti dai potenti, da importanti cardinali, avevano libero accesso alle residenze vescovili, cardinalizie e vaticane quegli esprits forts che altrove venivano destinati alla tortura ed al rogo mediante la violenza "giusta e legale". Giordano Bruno appartenne a questa specie di individui intimi ai potenti, e fu ad un passo dal successo anche nei confronti della curia romana, essendo in corrispondenza con importanti cardinali ai quali aveva prospettato una riforma della religione cattolica ispirata a quella dell'antico Egitto (sic). Fu solo per un rovescio della fortuna, che la sua sorte prese una piega negativa e cadde nelle mani dell'inquisizione, prima quella veneziana e poi quella romana.
La ragione di questo doppio trattamento, spiegazione a rischio di manicheismo, era che gli spiriti forti accolti e protetti dai vertici ecclesiastici, si prestavano ad un asservimento al loro potere e funzionali al loro divertimento, al loro senso estetico, ad eccitare le loro fantasie e rimpinguare il loro bisogno di nutrimento materiale e spirituale. Non di solo pane vivevano il vescovo ed il principe. Di fronte alla "miseria" spirituale e materiale predicata dagli "eretici", da Pietro Valdo in poi, la grandiosità cattolica si stagliava superba ed inarrivabile, e si poteva far beffe dei semplici, trasformati in "sempliciotti" ed "ignoranti", sicuramente incompetenti nel gustare una Missa di Palestrina o un dipinto di Michelangelo.
Entrando in quest'ordine di ragionamento, l'individuo di cultura non può evitare di riconoscere che proprio la Chiesa cattolica finì con col risultare l'inestimabile patrona delle arti religiose e profane. Ovvero, arrivando a proporsi come la più seria candidata al riconoscimento universale per i meriti acquisiti con il mecenatismo rivolto alla produzione di "beni culturali". Sicché, mentre gli storici dell'arte non possono che tesserne gli elogi, gli storici delle eresie e dell'ateismo perseguitato dovrebbero vestirsi di abiti iconoclasti. Esito alquanto improbabile perché ormai i consumatori di cultura più consolidati - mi ci metto anch'io - hanno acquisito un abito mentale congelato in una visione estetica ed estatica dell'arte che separa i suoi effetti dalle condizioni della sua concreta produzione, anche quella risultata dall'iniquità più odiosa. Bisognerebbe guardare alle opere d'arte, soprattutto ai monumenti della più sfacciata grandiosità, con maggiore consapevolezza della storia nel suo insieme. Faccenda che, con molte riserve, porta a suggerire di riprendere in mano testi di Benjamin ed Adorno. Dico "riserve" perché non tutti si è in grado di sopportare il peso di una costruzione intellettuale così ardita ed anche così asfissiante, come nel caso di Adorno.

Lanzichenecchi e logica di guerra
Quando il 6 maggio del 1527 i lanzichenecchi protestanti al soldo del cattolico Carlo V entrarono in Roma, si abbandonarono ad inenarribili violenze, stupri, massacri di poveracci e religiosi di basso rango. Si accanirono contro le opere d'arte: sfigurarono dipinti, decapitarono sculture, rubarono oro ed argento conservato nelle chiese e nei palazzi patrizi. Iconoclasti privi di sensibilità, ignoranti come capre, avidi di ogni cosa che capitava a tiro e smaniosi di sfogare i loro istinti più bassi. Anche per costoro il comandamento di rispettare gli altri come se stessi non era mai entrato in vigore. Già classificarli "protestanti" potrebbe ingenerare il solito equivoco. Le milizie mercenarie erano costituite dalla "feccia" delle società, ossia da individui privi di ogni senso morale, ed anche di istruzione religiosa. Molti di loro ignoravano di essere considerati luterani, e nemmeno sapevano chi fosse Lutero.
Una delle riflessioni storiche più imbarazzanti emerse recentemente è che un'improvvisa epoca di pace dopo secoli di guerre avrebbe originato problemi enormi di ordine pubblico e sicurezza nelle società di provenienza delle milizie, oppure costi insopportabili per i principi e i sovrani, che avrebbero dovuto incrementare la pressione fiscale per mantenere eserciti inattivi. La logica della guerra permanente consentiva di trasferire il problema sui territori del nemico. Costava assai meno fare la guerra che proclamare la pace universale, perché gli eserciti venivano pagati con la rapina sistematica organizzata dai comandanti, ed i saccheggi individuali e di gruppo. Si badi che non si tratta di piccoli numeri, ma di formazioni dell'ordine di quarantamila, cinquantamila uomini impegnati in ogni unità attiva sullo scacchiere. Una volta costituite, le milizie non si potevano sciogliere, e nemmeno mantenere inattive, senza ricadute negative. Noi non sappiamo se i sovrani e le autorità religiose fossero consapevoli fino alle estreme conseguenze del prezzo della pace e della guerra, tuttavia resta difficile credere che i consiglieri realisti dei quali sapevano a volte circondarsi, non lo fossero. Fino al punto di inventarsi un motivo anche futile per evitare di pagare un prezzo troppo alto alla pace. Sappiamo anche che le corti erano luoghi infidi, popolate da individui in competizione per emergere, disposti a tutto per arrivare alla meta. Le fosche tinte degli intrighi sceneggiati da Shakespeare rendono l'idea. Ovunque si potrebbe trovare un Amleto alle prese con il fantasma del padre che reclama vendetta o giustizia, o un Macbeth illuso dalle promesse delle streghe e posseduto da smisurate ambizioni.
Comunque sia andata, qui interessa evidenziare che uno dei motori dell'ateismo dei dissoluti, di quei piccoli dissoluti che erano gli energumeni presenti nelle milizie mercenarie, trovava esatta corrispondenza nella dissolutezza dei potenti, ossia di chi si sente costantemente al di là del bene e del male unicamente per soddisfare i propri istinti e le proprie ambizioni. In una logica della predestinazione, nascere ricchi e potenti sarebbe una maledizione, da cui il "beati i poveri". Ma i lanzichenecchi non erano forse poveri? E gli operatori di pace, beati anche loro, non diventavano a loro volta complici, prestandosi a reimmettere nelle dinamiche sociali potenziali delinquenti?

Considerazioni sull'ateismo
Nell'antichità, l'ateismo si sviluppò come critica delle religioni politeiste e di filosofie prive di fondamenti fisici. Nell'epoca che stiamo considerando, si andò condensando attorno al rifiuto di credere negli insegnamenti dei religiosi, nella rivelazioni e nelle promesse del giudaismo e del cristianesimo, soprattutto di quest'ultimo. Rifiuto che poteve essere spiccio ed immediato, ma anche maturare lentamente, mediante esperienze di vita deludenti e frustranti, se non peggio. Rigetto che poteva anche andare e venire quando non si disponeva di convinzioni stabili, o persino incrollabili. Rifiuto che era conveniente mantenere celato, dato il carattere totalitario assunto dalle società con radici cristiane. Questo suggerisce di credere siano esistiti molti più atei di quanti realmente emersi mediante la circolazione dei loro scritti. Le statistiche arrivano solo a cogliere aspetti esteriori. Esse parlano di un progressivo allontanamento dalla frequentazione delle cerimonie religiose, ma - come si vedrà - alla luce di un esame scrupoloso, sia prima che durante e dopo il Concilio di Trento, la Chiesa romana non fece molto per incrementatare la partecipazione. In un certo senso cercò di deprimerla. Alcuni cardinali attaccarono l'eucarestia frequente perché incoraggiava «a prendersi troppa confidenza con Dio». Sembra un'assurdità, ma le carte cantano, come si vedrà nei paragrafi successivi. (5)
Un'ulteriore complicazione viene dal fatto che resta difficile considerare atei individui sostanzialmente politeisti e panteisti come Giordano Bruno e tutta la tradizione risalente ad Ermete Trismegisto, ossia quella dei maghi antichi, medioevali e rinascimentali. Anche negli ancestrali culti della fertilità ancora diffusi sia nell'area del Mediterraneo che nel Nord dell'Europa diventa avventuroso rinvenire tracce di ateismo. Alcune "fedi" e credenze nell'azione benigna della deità femminile furono perfino più radicate e solide della tradizionale fede religiosa. Non solo tra le donne. Questo vuol dire che il trapasso e l'assorbimento del culto della dea madre nella venerazione per Maria non si era compiuto che in minima parte. Nell'immaginario di molte donne esisteva a pieno titolo l'altra Maria, la Maddalena, sentita come più vicina alla condizione femminile e come promessa di riscatto. Oltre la stessa Maddalena pulsavano memorie più antiche di riti celtici e germanici, latini e greci. Memorie che solo i dotti avrebbero potuto allungare a radici ancora più antiche, ad esempio a Iside egiziana.
Si dovrebbe allora parlare di ateismo con molte cautele. Riconoscendo la natura come madre, non si distrugge l'idea di Dio, ma la si riduce a deità femminile, unica radice, oppure ad un dio che gioca ai dadi, il caso. In senso stretto veri atei dovrebbero essere coloro che rifiutano di credere nelle leggende di ogni genere. L'ateo non implora forze cosmiche e naturali, semmai tenta di dominarle. L'ateismo schietto implica una rottura con le superstizioni e le "divine" provvidenze. L'individuo non deve sentirsi sovrastato da forze cosmiche, costretto in un destino, svegliarsi ogni mattina angosciato da ciò che lo attende nella vita. Ciò comporta una certa dose di coraggio o, in alternativa, una disinvolta incoscienza. Quest'ultima appare meglio distribuita in tutti gli strati sociali fin dall'antichità e dall'alto Medioevo. I coraggiosi - termine che uso senza ironia - sono stati assimilati dai più tetragoni difensori della fede agli esprits forts, ossia ai libertini francesi che cominciarono a farsi avanti con timidi e circospetti scritti nel Cinquecento. Nel 1546, a Parigi, fu bruciato sul rogo Etienne Dolet, uno stampatore reo di aver fatto circolare la propria opinione troppo libera. L'anno successivo, a Ginevra, Calvino ordinava di bruciare Jacques Gruet all'incirca per gli stessi motivi. Nel periodo delle grandi contrapposizioni tra riformati e cattolici non mancò una singolare convergenza nei metodi di governo delle chiese e delle società. Quello del Cinquecento era ancora un mondo totalitario, con livelli di tolleranza prossimi allo zero. Ogni opinione fuori dal coro del conformismo religioso e teologico era sospettabile ed inquisibile, specie se attaccava i comportamenti delle autorità. La Riforma luterana, reazione ad uno dei punti più bassi e degenerati toccati dai capi della Chiesa cattolica, finì con il legittimare nuove autorità. Secondo molti storici, la Riforma riuscì perché godette il favore di alcuni principi tedeschi, interessati a proclamare la loro autonomia contro l'impero e contro la Chiesa cesaro-papista. Ma essi non erano diversi dai vecchi padroni.

L'ateismo degli ignoranti e il "progresso"
Un certo Derodon, citato da Minois (6), scrisse di tre specie di ateismo: quello degli atei raffinati, quello dei dissoluti, e quello degli ignoranti. La classificazione, per quanto azzeccata a prima vista, soprattutto in relazione ai dissoluti, ossia a quela tipologia di individui che si consente di vivere al di sopra di ogni regola umana e divina e tratta gli altri come arnesi usa e getta, non soddisfa pienamente. Anche gli ignoranti possono essere raffinati, e i raffinati più che ignoranti, ovvero privi della capacità di connettere ed elaborare saperi ed informazioni di diversa provenienza. Il vero ignorante è colui che pretende di parlare di cose che non conosce con leggerezza e saccenza. La categoria andrebbe redistribuita equamente a tutti i piani delle gerarchie sociali e culturali. Dal punto di vista di un religioso dei tempi di Cristoforo Colombo - prendiamo il 1492 come la data della svolta verso nuovi orizzonti aperti - non si capisce bene cosa si possa intendere per ignoranza. Non conoscenza del Vangelo, o del catechismo cattolico, del pensiero dei dotti, o di cosa altro? La domanda andrebbe girata a difensori della fede ad oltranza nella Chiesa di Costantino, dimentichi della loro trascuratezza e delle loro più vistose incoerenze.
D'altra parte, la nozione di ignoranza necessita di un criterio in grado di raggruppare ed ordinare diverse tipologie individuali. Per l'epoca che stiamo considerando, ha senso richiamarsi alla capacità di leggere, scrivere, far di conto. Ossia all'alfabetizzazione elementare. Nel primo Medioevo, uno dei pochi modi per imparare l'indispensabile era quello di entrare in un monastero. Con la nascita dei borghi comunali e di alcune importanti città, si realizzò una vera e propria svolta. Sorsero due scuole di tecniche e di vita, la bottega artigiana e l'ufficio del mercante. A lungo andare, l'alfabetizzazione delle masse, trascurata dagli ecclesiastici, cominciò a passare per queste scuole professionali private, o semi-private in quanto espressioni di gilde e corporazioni. Soprattutto ai mercanti occorreva gente che sapesse scrivere e far di conto, ma anche le botteghe si trovarono subito nella necessità di comunicare, sia coi mercanti che con le clientele a distanza. Le nuove esigenze della produzione e del commercio divennero quindi il principale motore del cambiamento, non solo in termini di alfabetizzazione, ma di vera e propria cultura, dove il saper fare si intrecciava strettamente al saper parlare e spiegarsi, al ragionare sugli investimenti di tempo e denaro, e dove, in definitiva, la nuova "magia" era quella degli speculatori: cavare denaro dal denaro investito o prestato. Lentamente si fece strada un terzo ufficio: quello del banchiere.
Si dovrebbe evitare un frettoloso giudizio di laicizzazione, ossia la conquista di una immediata autonomia dal sapere e dal potere controllato dai religiosi. Analogamente, bisognerebbe guardarsi dallo sposare la vulgata marxista più triviale, quella delle nuove strutture produttive e mercantili che erigono le proprie sovrastrutture culturali. Fu un processo molto più articolato, lento, faticoso. Saper scrivere e calcolare era semmai diventata un'esigenza produttiva, necessaria a chi non voleva rischiare di "essere tagliato fuori" dalle più promettenti dinamiche dell'economia e del lavoro. Era quindi anche un'esigenza vitale.
Le scuole erano separate dalle Università e dai centri di cultura religiosa, ma risentivano della loro influenza determinante. Non è plausibile pensare che un ignorante possa insegnare ad un ignorante, se non la propria esperienza e le proprie convinzioni, spesso imbalsamate in qualche detto proverbiale. Artigiani e mercanti non possono essere immaginati come totalmente indipendenti dalla cultura universitaria, che a sua volta era ancora sottoposta al controllo religioso. L'intreccio non ha nulla di misterioso se si comincia a supporre che alcuni accademici ed alcuni chierici, cominciarono ad istruire artigiani e mercanti, invece che limitarsi alla propria replicazione in ambito accademico e chiesastico. Conviene fare almeno un esempio precedente all'invenzione della stampa.

Ruggero Bacone
Quello del francescano Ruggero Bacone (nato in qualche giorno tra il 1214 e il 1220, deceduto nel 1292), uomo del Medioevo a pieno titolo, suggerisce itinerari diversi dal consueto. La sua convinzione più profonda rimase quella che «tutto il sapere viene da Dio», ma non solo dagli intellettuali, perché Dio è un potenziale presente in ogni essere umano. Bacone cominciò a considerare le conquiste sul piano della conoscenza come parte di un unico sapere. Per quanto se ne sa, fu anche attratto per qualche tempo dalle dottrine occulte risalenti alla tradizione di Ermete Trismegisto, ma nelle sue opere maggiori non ne è rimasta traccia. Rimase convinto che venisse da Dio anche il «sapere aggiunto dall'uomo», e non lo condannò a priori come farina del diavolo. Cominciò a pensare che anche dagli "ignoranti" e dalle loro sensate esperienze potesse venire qualcosa di utile. Giunse a scrivere: «I semplici, benché considerati ignoranti, sanno spesso cose importanti, che rimangono oscure ai sapienti.» Ma la sua maggiore intuizione era stata la seguente: « Tutte le scienze sono fra loro inestricabilmente interconnesse e reciprocamente si scambiano aiuto, come parti e membra di una totalità organica. Ciascuna opera non per sé, ma a favore delle altre, come l'occhio opera per dirigere il corpo e il piede per sorreggerlo e muoverlo. Al di fuori della totalità la parte è dunque come un occhio tolto dal capo o come un piede tagliato.» (7) Questo nuovo atteggiamento corrispondeva a quanto stava già accadendo nei principali centri cittadini d'Europa, ma allo stesso tempo era anche una critica allo spezzettamento dei saperi pratici in tante esperienze separate. La visione unitaria di Bacone non ebbe vita facile e, d'altra parte, il numero e la qualità delle obiezioni che un qualsiasi dotto avrebbe potuto sollevare è parte integrante di una vicenda tipica di filosofi che non smettono di inventarsi argomenti per demolire il pensiero altrui, anche quando poggia su intuizioni ed evidenze estese, per nulla chiuse a quel sapere che viene dall'esperienza del fare. Il vile lavoro del contadino puà insegnare molte cose. Perché chiamarlo vile se è indispensabile? Con questo ragionamento elementare, Bacone realizzò un'autentica svolta, nel senso che, finalmente, sia la matematica che l'esperienza del lavoro vennero rivalutate. Il principale rimprovero che egli mosse ai tomisti è riportato da Etienne Gilson. «Il difetto di Alberto , del suo discepolo Tommaso e di tanti altri è di voler insegnare prima di aver imparato.» (8) La scolastica tomistica di Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, veniva così ridimensionata come sapere astratto e sentenzioso, colpevole di avere trascurato la matematica e le esperienze sensibili, comprese quelle della gente comune. Voleva essere un bagno di umiltà, ma i dogmatici lo interpretarono capziosamente come una dimostrazione di superbia. Resta il fatto inoppugnabile che, una volta messa in moto, la dinamica sociale non si poteva certamente fermare con una filosofia dogmatica. Gli esseri umani aspirano generalmente a migliori condizioni di vita. Il borgo comunale era diventato una specie di terra promessa anche per chi non aveva mai sentito parlare di esodi biblici.
Chiarita l'impossibilità di un vero e proprio isolamento sociale delle classi subalterne, anche le più subalterne come i servi della gleba nella società feudale, diventa più agevole procedere nella nostra ricerca.

Il silenzio sullo Jus primae noctis.
La linea di divisione tra alfabetizzati e gli altri, non andrebbe intesa in senso forte, come una muraglia invalicabile. Le dinamiche sociali ed economiche spingevano ad un rimescolamento anche nelle società più statiche ed arretrate. Gli analfabeti sapevano parlare ed anche pensare, per quanto in termini rudimentali, con poche parole e giudizi trancianti, spesso autoreferenziali. Oltre che a lavorare, potevano apprendere e memorizzare, soprattutto detti proverbiali, canzoni, cantilene e filastrocche. Negli studi antropologici ed etnografici questa prospettiva di ricerca è venuta a qualificare l'oggetto dell'indagine come cultura orale delle classi subalterne, in particolare quelle confinate nelle campagne. Non occorre molta fantasia per supporre che anche tra gli analfabeti esistesse una tendenza ad emanciparsi dalla propria ignoranza, insieme ad un'istintiva diffidenza nei confronti di tutto ciò che veniva "predicato" in alternativa alle proprie usanze e credenze. "Voci e dicerie", nonché pettegolezzi, dunque, ma anche stupore per apparizioni prodigiose, come quelle di bellissime dame vestite di colori e gioielli, assimilabili a "Madonne", nonché uomini fieri, a volte benigni ed altre feroci, sui loro cavalli da guerra e da caccia. In un certo senso "esseri di un altro mondo", ma assai vicini al mondo quotidiano, soprattutto.quando pretendevano lo Ius primae noctis. Non una legge, ma una consuetudine assai diffusa, e che, secondo alcune fonti, il futuro marito era in grado di aggirare pagando un riscatto e trasferandosi altrove. (si veda in proposito wikipedia). Una pratica aberrante contro la quale non si trovano tracce di condanna in documenti ecclesiastici. ed in opere di filosofi e teologi medioevali consultabili attualmente e fino a prova contraria. Ovviamente, il lettore dev'essere avvisato: non sono una specialista di filosofia medioevale, e quindi mi sono avvalso solo di diversi manuali. Leggendoli, si può stupire per il fatto che nella descrizione offerta dagli storici, tutti o quasi questi venerabili ricercatori di Dio, della sua natura, esistenza, verità, siano stati generalmente poco attenti alla parola di Dio come fonte possibile di verità e quindi di esistenza. Ad esempio, se Dio disse "non desiderare la donna d'altri" - espressione oggi giudicata risibile - non avrebbe potuto esserlo a quei tempi. Eppure, non si sfugge alla sensazione di un accomodamento. Le autorità religiose concedevano ai dissoluti d'alto rango libertà e diritti che si traducevano in prepotenza e violenza contro gli altri. D'altro canto, disinteressandosi completamente anche di quello che avveniva tra gli strati infimi, probabilmente, non arrivavano nemmeno a vedere le prepotenze quotidiane consumate dai capifamiglia: incesti e violenze nei confronti di figlie, sorelle. Per le donne è sempre stato assai difficile vivere, ma in pieno feudalesimo lo fu più che in ogni epoca successiva.

(seconda parte)

Note:
1) Ernesto Buonaiuti - Storia del cristianesimo - Newton Compton 2002
2) si veda il breve e leggibile: Attilio Agnoletto - Lutero - Mondadori 1986
3) Proclo - La provvidenza e la libertà dell'uomo - Laterza 1986
4) si veda in: Italo Mereu - Storia dell'intolleranza - Bompiani III edizione 2000
5) per cominciare: Adriano Prosperi - Il Concilio di Trento: una introduzione storica - Einaudi 2001
6) Georges Minois - Storia dell'ateismo - Editori Riuniti 2003
7) Le citazioni sono tratte da Fumagalli Beonio Brocchieri e Parodi - Storia della filosofia medioevale - Laterza 2002 / La seconda proviene dall'Opus Tertium di Bacone
8) Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo - La Nuova Italia - terza ristampa 1990


gm - 4 luglio 2013

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Dal libro di Amos

«Io detesto, respingo le vostre feste solenni
e non gradisco le vostre riunioni sacre;
anche se voi mi offrite olocausti,
io non gradisco le vostre offerte,
e le vittime grasse come pacificazione
io non le guardo.
Lontano da me il frastuono dei vostri canti:
il suono delle vostre arpe non posso sentirlo!
Piuttosto come le acque scorra il diritto
e la giustizia come un torrente perenne.
Mi avete forse presentato sacrifici
e offerte nel deserto
per quarant'anni, o Israeliti?
Voi avete innalzato Siccut come vostro re
e Chiion come vostro idolo,
e Stella come vostra divinità:
tutte cose fatte da voi.
Ora, io vi manderò in esilio
al di là di Damasco»,
dice il Signore, il cui nome è Dio degli eserciti.



Da "Contro i cristiani" di Celso
Ebrei e cristiani si potrebbero paragonare ad una frotta di pipistrelli o a formiche che escono dalla loro tana o a rane che siedono a consesso intorno ad una pozzanghera o a vermi che tengono assemblea in un angolo di un pantano e discutono tra loro per stabilire chi di essi sia più grande peccatore e dicono così: "E' a noi che Dio rivela e annuncia ogni cosa. Tralasciando tutto quanto l'universo e il corso del cielo, e trascurando la terra che è così grande, solo per noi governa, solo a noi manda messaggeri e mai cessa di inviarli e di provvedere a che a che noi siamo sempre uniti a Lui. Esiste Dio e, dopo di Lui, noi vermi da Lui creati ed a Lui in tutto simili; a noi tutte le cose subordinate: la terra. l'acqua, l'aria e le stelle. Tutto esiste per noi ed è stato disposto al nostro servizio. Ora, poiché tra noi alcuni peccano, Dio, verrà Suo figlio ad incenerire gli ingiusti e a permettere a tutti gli altri di vivere eternamente con Lui." Ora, tutte queste pretese si potrebbero tollerare in una discussione tra vermi e rane più che nella disputa tra Ebrei e Cristiani.



da Le guerre di Dio
di Cristopher Tyerman

Le proporzioni del massacro che seguì impressionarono perfino gli incalliti veterani della campagna, i quali ricordarono che la zona "ribolliva di sangue" e gli uccisori vi erano immersi fino alle caviglie. Raimondo di Aguilers ricorse al linguaggio dell'Apocalisse per descrivere i cavalieri cristiani di fronte alla moschea di di al-Aqsa, che avanzavano nel sangue fino alle ginocchia dei cavalli.
...
Pochi scamparono al massacro di Gerusalemme. Gli ebrei furono arsi nella loro sinagoga. I musulmani furono fatti a pezzi senza distinzioni, decapitati o torturati lentamente con il fuoco...