Nicola Krebs, detto Cusano
di Renzo Grassano
Il pensiero di Nicola Krebs detto Cusano,
nato a Kues (in latino Cusa) nel 1401, rappresenta
nell'ambito della rinascita del platonismo
qualcosa di molto originale per diversi motivi
che ora elencheremo.
In primo luogo egli non
assunse una posizione
antiaristotelica preconcetta,
ma cercò di
conciliare platonismo ed
aristotelismo proponendo
una sintesi robusta della
filosofia in grado,
a sua volta, di integrarsi
con la visione
cristiana di Dio.
In secondo luogo, da schietto
umanista, cercò
di superare gradualmente,
ma con argomenti
forti, ancora oggi da considerare
con attenzione,
sia l'annichilimento dell'uomo
di fronte
a Dio, sia il nichilismo
nei confronti del
mondo implicito in una
certa scolastica ed
in un certo spiritualismo
medioevale.
Non catalogabile a mio
avviso come semplice
figura di transizione tra
Medioevo e Rinascimento,
dunque una sorta di anticamera
della modernità,
Cusano è già modernità
per la novità delle
sue posizioni, della sua
visione dell'uomo,
della sua cosmologia evidentemente
pre-copernicana
e pre-galileana.
Inoltre egli seppe coniugare
la ricerca culturale
con la propria prassi di
uomo di chiesa,
o ancora più propriamente,
come "uomo
di Dio" (in grado
quindi di criticare
anche la chiesa) attivo
per obiettivi di
pace e di riconciliazione
tra gli uomini,
non certo per amore di
tranquillità e quieto
vivere, ma per amore di
verità, cioè la pacifica
convivenza tra genti diverse.
Innanzi tutto, fattosi
sacerdote, ebbe come
suo primo interesse la
pacificazione della
Chiesa, allora fortemente
turbata e divisa
dall'emergere della questione
hussita. Fu
costretto dalle circostanze
a prendere posizione
ed ebbe quindi il coraggio
di scrivere nella
sua prima opera "De
Concordantia Catholica"
della necessità di riconoscere
al Concilio
una superiorità sul Papa,
e quindi di reintrodurre
una forma di democrazia
nel governo della
Chiesa. La questione non
è di poco conto
perchè anticipa in larga
misura la problematica
della Riforma quanto meno
dal lato istituzionale.
Coerentemente con ciò egli
sostenne soprattutto
una politica di conciliazione
e di pace tra
le varie religioni, in
particolare tra le
diverse correnti cristiane,
non per amore
di compromesso, ma perchè
vedeva chiaramente
il carattere strumentale
ed assolutamente
astratto, nonchè infantile,
di molte dispute.
Riavvicinatosi, non per
opportunismo, al
pontefice Eugenio IV, fu
da questi scelto
per una missione a Costantinopoli
mirante
a preparare un progetto
di riunione della
Chiesa ortodossa con quella
cattolica.
A Costantinopoli apprese
il greco ed ebbe
la grande opportunità di
leggere le opere
di Platone, Aristotele
ed i neoplatonici
antichi.
Tornato in Italia il nuovo
pontefice Niccolò
V lo spedì in Germania
per superare i dissidi
con i Vescovi tedeschi.
Il successo in questa
missione gli fece ottenere
la nomina a Cardinale
ed a Vescovo-Principe di
Bressanone.
Esercitando questa funzione
venne in conflitto
col Duca del Tirolo Sigismondo
e fu da questi
imprigionato alcuni anni.
Fu in seguito nominato
vicario generale dello
stato pontificio, ma abbandonò
l'Alto Adige
per riparare in Umbria.
Morì a Todi nel 1464.
Compose diverse opere tra
le quali occorre
ricordare: De docta ignorantia
(1440), De
Conjecturis (1440-45),
De idiota (1450),
De pace fidei (1453), De
visione Dei (1453)
De beryllo (1458).
La dotta ignoranza
Cusano critica il sillogismo
aristotelico
perchè manca di precisione,
o meglio, non
consente di arrivare a
quella precisione
che è uno dei caratteri
della verità.
In sostanza i tradizionali
elementi della
logica falliscono il loro
scopo se pretendono
di portare nuova ed effettiva
conoscenza.
Com'è noto il sillogismo
consente di concludere
con un giudizio a partire
da certe premesse
tramite un medio del quale
sono conosciute
ed accettate alcune proprietà.
L'esempio più noto è questo:
Socrate è un
uomo, tutti gli uomini
sono mortali, pertanto
Socrate è mortale.
Nel sillogismo, afferma
Cusano, emerge una
proporzione comparativa
che usa il termine
medio (tutti gli uomini
sono mortali) per
riportare tutti gli attributi
del medio al
primo termine.
Questo procedimento appare
insufficiente
al Cusano perchè non consente
di arrivare
a cogliere l'oggetto in
sè, Socrate, nella
sua uguaglianza con sè,
ovvero nella sua
identità.
La critica evidenzia il
limite intrinseco
del sillogismo, il suo
carattere pregiudiziale
e "volgare".
Esso immette conoscenza
muovendo semplicemente
dal "genere"
di appartenza. Socrate
è uomo, cioè appartiene
al genere umano,
pertanto deve avere la
proprietà di essere
mortale in quanto tutti
gli uomini sono mortali.
Questo tipo di critica
rinvia alla disputa
sull'esistenza degli "universali"
tipica del medioevo, ma
la riapre su un piano
più consistente. Infatti
il problema che
solleva il Cusano sta nell'evidenziare
che
Socrate viene solo definito
parzialmente,
sotto il profilo della
"mortalità",
quindi in modo relativo
e "finito".
Da questa finitezza Cusano
trae spunto per
dimostrare che ogni dimostrazione
di tipo
"finito" nell'ambito
del "finito",
cioè l'ambito denotato
dal termine medio,
restringe arbitrariamente
le caratteristiche
dell'individuo considerato
e , comunque non
consente di arrivare ad
altro che ad un genere
di conoscenze finite e
limitate. Tutte le
caratteristiche dell'uomo
generico possono
essere riportate ad un
qualsiasi uomo considerato
in sè. Ma le caratteristiche
di un particolare
uomo sono di più, ed anche
tutte le caratteristiche
di tutti gli uomini sommate
insieme sono
di più di quelle considerabili
nel genere
umano.
Come vedremo questa coscienza
della differenza
del singolo ha una base
precisa nella relazione
d'uguaglianza tra uomo
e Dio.
Ogni singolo uomo è un
microcosmo in cui
Dio è presente, anche se
in forma contratta,
ristretta, limitata.
Per questo egli avverte
l'esigenza di uscire
dalla restrizione imposta
dalla logica del
sillogismo, cioè di passare
dal finito all'infinito.
Ma nel passare dal finito
all'infinito, ci
si scontra con l'impossibilità
di colmare
un vero e proprio "salto".
Siamo cioè in presenza
di una tensione verso
la verità, riconoscibile
per questa insoddisfazione
nei confronti di una conoscenza
fondata su
sillogismi, che tuttavia
non può esplicitarsi.
D'altro canto, continua
il Cusano, il tipo
di conoscenza fondato sul
sillogismo rischia
di procurare false certezze.
Per questo egli consiglia
la dotta ignoranza,
cioè una riserva sulle
verità finite provenienti
da un conoscere sillogistico,
da considerare
sempre con molte cautele.
Tanto più ci sentiremo
"ignoranti"
rispetto alle verità costruite
sui sillogismi,
tanto più ci avvicineremo
quindi alla verità
stessa, come intero e come
infinito. sempre
ricordando, tuttavia, che
nessuna approssimazione
può portarci a far realmente
coincidere il
carattere finito delle
nostre conoscenze
con l'infinito.
In altre parole: Dio come
infinito è al di
là di ogni conoscenza finita
e non può dunque
essere racchiuso in alcuna
formula umana.
Potremmo osservare che
anche il concetto
di "infinito"
è una formula umana,
ma poichè essa non definisce
altro che Dio,
ed eventualmente la natura,
semplicemente
evidenziando che essa non
è una formula come
tutte le altre, anzi non
formula alcunchè
di determinato, questo
principio appare sufficientemente
fondato.
Ma perchè dotta?
Dunque se l'atteggiamento
dell'ignoranza
verso l''infinito è ciò
che conviene onde
evitare l'errore di saccenza
racchiuso in
ogni ricorso al sillogismo,
rimane da spiegare
perchè l'ignoranza rispetto
al sapere di
derivazione sillogistica
è la forma di sapienza
più appetibile, cioè in
ultima analisi la
vera sapienza possibile
all'uomo.
E' presto detto. In questa
forma di modestia
l'uomo nella sua tensione
verso la verità
dell'infinito può anche
congetturare, e può
dunque costantemente portarsi
oltre la finitezza
presente per pervenire
ad una finitezza più
larga, in un certo senso
più appagante.
Il salto tra finito ed
infinito non può essere
colmato. L'uomo non può
avere la coscienza
assoluta, come diranno
invece gli idealisti
tedeschi del primo ottocento
e prima di loro
lo stesso Spinoza, tuttavia
può procedere,
e nel procedere, adottando
un metodo nuovo
per il quale ogni cosa
intesa nel suo senso
di realtà ultima non viene
"intesa"
come isolata da tutte le
altre, ma come sempre
in relazione con ciò che
la circonda.
Già questo nuovo atteggiamento
è un superamento
della finitezza più deteriore,
della rigidità
particolaristica più meschina.
Un esempio geometrico può
aiutare a rendere
l'idea del rapporto possibile
tra la conoscenza
finita dell'uomo e la realtà
infinita.
Tra la conoscenza umana
e la verità intercorre
lo stesso rapporto che
si stabilisce tra
i poligoni inscritti e
circoscritti e la
cironferenza: se moltiplichiamo
indefinitivamente
i lati di tali poligoni
, essi si avvicineranno
progressivamente alla circonferenza,
ma non
coincideranno mai con essa
in tutti i punti.
L'uomo può dunque solo
sforzarsi di aderire
alla circonferenza, ma
la sua struttura mentale
rimane comunque poligonale.
Triangolo, quadrato,
pentagono, esagono sono
sotto questo profilo
soltanto simboli di una
conoscenza imperfetta.
Solo il poligono che maggiormente
aderisce
con le sue migliaia di
lati alla circonferenza
può in qualche modo rappresentare
l'avvicinamento
alla verità.
Nell'infinito dunque tutto
coincide, mentre
nel finito abbiamo il massimo
delle differenze
e delle contrapposizioni,
un conflitto di
interessi particolari,
un terreno nel quale
ogni cosa è radicalmente
diversa dall'altra.
Questo perchè, dice il
Cusano, il finito
è l'ambito del più del
meno, dove dunque
ogni concetto è relativo,
proporzionato ad
ogni altro concetto, ma
quindi in rapporto
contraddittorio con eventuali
altri concetti
commisurati ad altri concetti
ancora.
L'infinito è invece il
regno della coincidenza:
non c'è un più ed un meno,
ma solo un massimo
ed un minimo, un massimo
oltre il quale nientaltro
è possibile ed un minimo
nel quale nientaltro
è possibile.
Pertanto in questo regno
dell'assoluto il
massimo coincide con il
minimo, cioè vi è
totale coincidenza degli
opposti.
Devo riconoscere che questo
pensiero mi ha
profondamente impressionato
anche in termini
di modernità.
L'idea di un massimo oltre
al quale non sia
possibile andare in quanto
esso è anche il
minimo mi pare costituire
una sfida alla
razionalità pura per il
quale l'infinito
è concepibile solo come
non determinabile
in quanto vi sarà sempre
un più uno.
Ma se poniamo attenzione
al fatto che aggiungere
uno ad una serie finita
non porta in alcun
modo all'infinito, ma solo
ad un nuovo finito,
è ovvio che l'infinito
è concepibile sia
come una retta che non
ha inizio, nè fine,
qualunque sia la dimensione
dei punti che
la compongono, sia in una
circonferenza che
si chiude, ma che in nessun
modo è definibile
quantitativamente, se i
punti geometrici
che la compongono non hanno
dimensione, ma
sono solo fittizi.
L'idea del cerchio come
perfezione dell'essere,
di chiara origine pitagorica,
una volta stabilito
che il punto non ha dimensione,
e che ciò
che ha dimensione è un
segmento composto
di punti, e non un punto,
potrebbe risultare
logicamente accettabile
come "rappresentazione"
dell'infinito in cui qualsiasi
punto considerato
come "massimo"
è anche il "minimo",
e dunque non solo il primo
ma anche l'ultimo.
Ma rimangono difficoltà.
A me pare che il tentativo
di rappresentare
l'infinito mediante una
figura geometrica
sia contraddittorio perchè
sia la circonferenza
che la retta sono infinite
in modo unilaterale,
cioè solo in un senso e
non tutti i sensi.
Una retta infinita è infinita
solo rispetto
ai due versi della stessa,
ma non rispetto
al sopra od al sotto, a
destra ed a sinistra,
a tutti i fianchi possibili.
La circonferenza è di per
sè un'area limitata
all'esterno della quale
è possibile immaginare
qualunque cosa tranne che
il nulla.
In altre parole la possibilità
di rappresentare
in modo figurativo l'infinito
è destinata
inevitabilmente a crollare
per confutazione.
Unica possibilità rimane
dunque quella del
linguaggio: accordandoci
sul fatto che la
parola infinito, detta
e scritta, significhi
qualcosa di non determinabile
in estensione,
in quantità, in densità,
come massa, come
qualità, ecco che, per
esclusione, abbiamo
un'idea dell'infinito "trasmissibile"
e comprensibile.
Analogamente ci possiamo
accordare su un
simbolo. Stabilito che
un certo simbolo significhi
"infinito" lo
stesso può essere
usato per indicare un valore
matematico che
tuttavia rimane incognito
per definizione,
non potendo assumere alcun
valore particolare
ma solo includere tutti
i possibili valori.
In sostanza a me pare che
tutte le rappresentazioni
"figurative"
siano inadeguate sia
di fronte all'idea dell'infinito,
sia all'infinito
reale.
Ciò non toglie che è grazie
a tentativi come
questi noi siamo meno lontani
da una concezione
accettabile dell'infinito.
Dio e l'universo
Dio, secondo Cusano, è
comunque al di là
dello stesso infinito fisico,
dunque dell'essere
sostanziale delle cose
esistenti.
Per comprendere Dio occorre
quindi una forma
superiore di conoscenza,
l'intelletto, mentre
per conoscere il mondo
fisico, l'universo
infinito è sufficiente
la ragione discriminante,
la quale si avvale ancora
del principio di
non-contraddizione proposto
da Aristotele.
Lo stesso universo, concepibile
come infinito
in quanto creato, è da
considerarsi come
un infinito di tipo "negativo",
cioè come spazio senza
limiti. Ma il vero
infinito "positivo"
è solo Dio,
nel senso che solo in Dio
il principio della
coincidenza degli opposti
ha un valore assoluto,
mentre già nell'universo
fisico infinito,
per Cusano, la totalità
non è concepibile
diversamente dalla pluralità
delle cose esistenti,
infinite per numero e per
specie, ma non
coincidenti.
Si tratta di un pensiero
che, dunque, non
solo non nega l'esistenza
del molteplice,
ma lo riconosce e lo mostra
come conoscibile
perchè distinguibile sulla
base del principio
di non-contraddizione e
di un principio di
identità peraltro non formulato
esplicitamente.
Cusano pensa che nell'universo
fisico si
determini una "contrazione"
del
molteplice esistente in
Dio e che, in un
certo senso, «tutto sia
in tutto». Per questo
fu frainteso e persino
accusato di panteismo.
Onde evitare di confondere
Cusano con Spinoza,
nel quale il panteismo
sarà davvero esplicito,
dobbiamo pertanto considerare
che la "contrazione"
dell'infinito-Dio nell'infinito-cosmo,
non
è presentata come una realtà
al di là della
forma apparente, ma come
realizzazione di
Dio nel molteplice. Pertanto
il "tutto"
presente in tutto non è
lo stesso "tutto"
considerato più tardi da
Spinoza. Infatti
il "tutto" di
Cusano è l'infinito
positivo presente nel tutto
fisico negativo,
il quale però è già scisso
nel molteplice.
In questo, prima ancora
che alle dottrine
neoplatoniche, il riferimento
potrebbe andare
alla stessa teoria platonica
dell'Uno e della
Diade, dove l'uno prende
per l'appunto una
connaturazione diversa
mediante l'unione
con la diade.
Tuttavia mentre la diade
in Platone esiste
di per sè, è ovvio che
in Cusano anche la
materia è creata da Dio
e persino la donna,
com'è nel secondo racconto
di "Genesi"
(il primo, com'è visibile
leggendo la Bibbia,
si interrompe bruscamente
dopo aver affermato
che Dio creo ogni specie
"maschio e
femmina") è tratta
dalla costola di
Adamo e fu fatta per porre
fine alla sua
solitudine.
Ma Cusano, anzichè parlare
di Uno-diade,
preferisce ricorrere al
termine di complicazione:
il rapporto tra Dio e l'universo
fisico è
dato dalla co-implicazione
dell'universo
in Dio, cioè dal fatto
che l'universo è implicito
in Dio, cioè è contenuto
in potenza (in senso
aristotelico) . L'universo
fisico è, al contrario,
l'esplicazione di Dio,
cioè la realizzazione
dell'atto creativo, l'attualità
di Dio.
Nel tentativo di conciliare
ulteriormente
filosofia e religione cristiana
il Cusano
cerca poi di dimostrare
razionalmente il
mistero della Trinità divina
e propone la
seguente interpretazione:
Dio è necessariamente
Unità (Padre), Uguaglianza
(Figlio), cioè
relazione con sè stesso,
e Connessione (Spirito
Santo) che procede da entrambi.
Spiega inoltre il mistero
dell'incarnazione
del Verbo, cioè la Parola
di Dio in Gesù,
evidenziando che deve esistere
un individuo
in cui si da il massimo
possibile della contrazione
di Dio nell'uomo, e questo
non può essere
che l'uomo-Dio, il Cristo.
Dopo aver separato Dio
e mondo, Cusano ritrova
Dio anche nel mondo, cioè
nella creazione.
E, come scrive l'Abbagnano,
«...dopo aver
separato la conoscenza
umana dalla verità,
ritrova la verità nella
conoscenza umana
proprio in virtù di questa
separazione. Sapere
di non conoscere Dio è
il principio della
sua conoscenza; ed in generale
la dotta ignoranza,
il sapere di non sapere,
è il principio ed
il fondamento di ogni conoscenza
umana.
Per designare quest'ultima
Cusano adopera
il termine di congettura,
che traduce l'eikasia
platonica (Rep.,511 e;
§ 32), definendola
come "l'asserzione
positiva", che
partecipa attraverso l'alterità,
della verità
come tale. (De conjecturis,
I,13)» (Nicola
Abbagnano - Storia della
filosofia - "La
filosofia del Rinascimento")
La conoscenza di Dio e
la dottrina dell'uomo
Si può dire che per Cusano
la conoscenza
di Dio è possibile solo
attraverso la "dotta
ignoranza" , cioè
un sapere con riserva
rispetto ad ogni tipo di
conoscenza del finito
sensibile. L'uomo deve
quindi avere coscienza
dei suoi limiti; entro
questi limiti egli
può conoscere Dio per via
del legame di somiglianza
tra mente umana e mente
divina. La mente
umana è una sorta di lente
capace di cogliere
e riflettere i molteplici
volti ed i molteplici
colori del divino.
Se l'uomo è irato con Dio,
Dio sarà irato
con l'uomo e come tale
si mostrerà; se l'uomo
ama Dio, Dio si mostrerà
amorevole con l'uomo.
La garanzia di poter trovare
Dio è dunque
strettamente legata al
tipo di soggettività
che l'uomo esprime. Dio
stesso non può che
rivelarsi attraverso la
soggettività dell'uomo.
Pertanto la conoscenza
di Dio non comporta,
secondo Cusano, una particolare
rivoluzione
od una ripulsa della propria
soggettività.
Essendo se stessi, in proprietà
di noi stessi,
possiamo conoscere Dio.
A condizione, ovviamente
di essere già in una condizione
di "dotta
ignoranza". Infatti
mi pare di poter
escludere che la saccenza
e la certezza boriosa
possa portare ad una vera
conoscenza di Dio.
In questo quadro l'uomo
non è dunque necessitato
da Dio a compiere alcuna
scelta; l'uomo è
libero. Se non nega sè
stesso, la parte migliore
di sè, egli ritrova Dio
facilmente, proprio
attraverso l'accettazione
della propria finitudine
e della propria limitatezza.
Ciò non è affatto semplicistico.
Cusano, come cristiano
(lasciamo stare il
"fervente", non
è il caso), ha
inteso fino in fondo che
l'evento Cristo
segna un preciso spartiacque
nella storia,
in quanto Dio cessa "di
nascondere il
suo volto" e si propone,
almeno in parte,
a chi crede che Egli si
sia fatto uomo onde
colmare il salto tra infinito
e finito.
Senza questa "operazione
divina",
per la quale Gesù è sia
Dio, che uomo, cioè
secondo Adamo (come propose
San Paolo, in
modo peraltro unilaterale,
perchè Gesù come
incarnazione di Dio non
è mai messo in chiaro
e sufficiente rilievo nelle
epistole), l'avvicinamento
tra Dio e uomo non era
possibile, data la
finitezza dell'uomo.
Pertanto nell'essere sè
stesso che Cusano
consiglia per arrivare
a Dio, è scontata
la mediazione di Cristo.
In altre parole: senza
la comprensione storica
dell'evento Cristo l'essere
sè stesso non
ha molto senso. Non basta,
insomma una filosofia
della libertà, occorre
una coscienza della
storia del rapporto tra
uomo e Dio.
Dunque è in questa prospettiva
che il Cusano
si può definire umanista
e deciso avversario
di ogni nichilismo.
Apprezzare il mondo, non
condannarlo aprioristicamente
in nome di un altro mondo,
ma aderirvi criticamente,
in quanto comunque, se
nel mondo della natura
l'opera di Dio è ravvisabile
direttamente,
nel mondo costruito dall'uomo
l'opera di
Dio è rinvenibile mediatamente
e specularmente.
L'opera della chiesa, l'azione
dei cristiani
sono in effetti testimoniati
dalla continuità
del sapere.
Lungi dal considerare l'azione
della chiesa
semplicemente come oscurantismo,
essa fu,
sia soggettivamente che
oggettivamente, forse
più oggettivamente che
soggettivamente, opera
di trasmissione della cultura
dall'antichità
alla modernità in un epoca
di barbarie e
di oscurantismo oggettivo.
Senza amanuensi, in altre
parole, non avremmo
alcun sapere dell'antichità
e della storia
e, persino, della scienza
antica.
Una considerazione che
mi viene spontanea
a questo punto è che nella
dottrina del Cusano
viene dunque a riconciliarsi
anche una possibile
contrapposizione tra "apocalittici"
ed "integrati",
implicita nelle
correnti giovannee e paoline
del cristianesimo
primitivo.
Nella visione apocalittica
lo sfacelo del
mondo determinato dal trionfo
di Babilonia,
simbolo dell'ingiustizia
e della corruzione
non quadra affatto con
la superottimistica
visione paolina del cristiano
integrato nel
sistema, che se fa il bene
sarà comunque
lodato da autorità "costituite
da Dio"
("Romani").
Prima di affermare l'una
o l'altra non basta
evidentemente decidere,
ma occorre fondare
la propria decisione sul
momento.
Qui l'opposizione è in
parte mediata ed in
parte elusa; tuttavia pur
rimanendo implicita
e mancando comunque di
storicizzazione e
contestualizzione ( ci
sono momenti storici
che richiedono l'integrazione
ed altri che
richiederebbero posizioni
apocalittiche,
p. e. nei confronti del
nazismo, o dello
stesso comunismo reale
sovietico quando assume
un aspetto totalitario),
mi pare che la sintesi
"umanistica"
del Cusano sia in
qualche modo "pietrina",
cioè centrale,
più conforme a quelli che
potrebbero essere
stati gli originali insegnamenti
del Cristo
storico: non "generici"ribelli
tipo Barabba, ma critici
e distaccati dalle
vanità del mondo, comunque
partecipi,
in ogni caso presenti,
se non altro come
buoni samaritani, dunque
esemplari per dignità
di comportamento e azioni
improntate ad equità
e giustizia.
In questo senso mi pare
rechino giusta testimonianza
alla coerenza del Cusano
tra pensiero ed
opere gli anni di galera
inflittigli dal
Duca Sigismondo.
Col suo esempio Cusano
sembra dire che, pur
mirando alla conciliazione,
alla mediazione
diplomatica, all'accordo
preventivo, c'è
un limite anche al compromesso,
e che un
vero cristiano ( e nel
suo caso particolare)
anche un vero filosofo,
piuttosto che accettare
l'umiliazione dell' ingiustizia
per sè e
per gli altri, rinnegando
così i propri principi,
preferisce la galera.
Una nuova cosmologia
Una volta posto che la
perfezione dell'infinito
positivo appartiene solo
a Dio e che anche
l'infinito del mondo fisico
(un mondo fisico
infinito solo al negativo,
in quanto senza
limiti) è dunque sottoposto
al divenire ed
al mutamento, crolla nel
Cusano, la teoria
aristotelica dell'incorruttibilità
dei cieli,
e della centralità della
terra nell'universo.
Per affermare la centralità
dell'uomo e la
sua somiglianza con Dio
non occorre affatto
"localizzarla"
al centro dell'universo.
Si tratta di un pensiero
originale di estrema
importanza perchè "apre"
letteralmente
la strada sia alla teoria
copernicana, sia
alla nuova fisica di Galileo.
Non essendo più la terra
il centro del mondo
(cioè dell'universo) ,
essa non può essere
priva di movimento. Inoltre
non può essere
perfettamente sferica,
ma solo tendere alla
sfericità.
Oltre a queste "felici"
intuizioni
Cusano incorre anche in
qualche errore grossolano,
come quello di pensare
che la terra sia una
stella del tutto simile
al sole e quindi
che anche il sole abbia,
sotto l'apparenza
dell'aspetto infuocato
una terra simile simile
alla terra con gli altri
tre elementi (terra,
aria, acqua) presenti.
Cusano congettura sull'esietnza
di intellettualità
viventi su ogni stella
e scade in qualche
modo in una "infantile"
fantascienza.
Tuttavia gli resta il merito
di avere compreso
che centralità della "creazione"
e centralità della terra
nell'universo non
sono la stessa cosa.
Le veità della scienza
moderna, pertanto,
cominciano a mostrarsi
su un piano semplicemente
congetturale ed intuitivo,
in quello che
poi a molti studiosi della
scienza, parrà
semplicemente come "metafisica".
RG - 8 novembre 2000
Bibiografia minima
Giovanni Santinello - Introduzione a Nicolò Cusano - Laterza, Bari 1987
Graziella Federici Vescovini, - Introduzione in Nicola Cusano. La dotta ignoranza - Città Nuova, Roma, 1991
Marco Moschini - Cusano nel tempo. Letture e interpretazioni
- Armando, Roma 2000
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Indice generale
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