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Nicola Krebs, detto Cusano
di Renzo Grassano

Il pensiero di Nicola Krebs detto Cusano, nato a Kues (in latino Cusa) nel 1401, rappresenta nell'ambito della rinascita del platonismo qualcosa di molto originale per diversi motivi che ora elencheremo.
In primo luogo egli non assunse una posizione antiaristotelica preconcetta, ma cercò di conciliare platonismo ed aristotelismo proponendo una sintesi robusta della filosofia in grado, a sua volta, di integrarsi con la visione cristiana di Dio.
In secondo luogo, da schietto umanista, cercò di superare gradualmente, ma con argomenti forti, ancora oggi da considerare con attenzione, sia l'annichilimento dell'uomo di fronte a Dio, sia il nichilismo nei confronti del mondo implicito in una certa scolastica ed in un certo spiritualismo medioevale.
Non catalogabile a mio avviso come semplice figura di transizione tra Medioevo e Rinascimento, dunque una sorta di anticamera della modernità, Cusano è già modernità per la novità delle sue posizioni, della sua visione dell'uomo, della sua cosmologia evidentemente pre-copernicana e pre-galileana.
Inoltre egli seppe coniugare la ricerca culturale con la propria prassi di uomo di chiesa, o ancora più propriamente, come "uomo di Dio" (in grado quindi di criticare anche la chiesa) attivo per obiettivi di pace e di riconciliazione tra gli uomini, non certo per amore di tranquillità e quieto vivere, ma per amore di verità, cioè la pacifica convivenza tra genti diverse.

Innanzi tutto, fattosi sacerdote, ebbe come suo primo interesse la pacificazione della Chiesa, allora fortemente turbata e divisa dall'emergere della questione hussita. Fu costretto dalle circostanze a prendere posizione ed ebbe quindi il coraggio di scrivere nella sua prima opera "De Concordantia Catholica" della necessità di riconoscere al Concilio una superiorità sul Papa, e quindi di reintrodurre una forma di democrazia nel governo della Chiesa. La questione non è di poco conto perchè anticipa in larga misura la problematica della Riforma quanto meno dal lato istituzionale.
Coerentemente con ciò egli sostenne soprattutto una politica di conciliazione e di pace tra le varie religioni, in particolare tra le diverse correnti cristiane, non per amore di compromesso, ma perchè vedeva chiaramente il carattere strumentale ed assolutamente astratto, nonchè infantile, di molte dispute.
Riavvicinatosi, non per opportunismo, al pontefice Eugenio IV, fu da questi scelto per una missione a Costantinopoli mirante a preparare un progetto di riunione della Chiesa ortodossa con quella cattolica.
A Costantinopoli apprese il greco ed ebbe la grande opportunità di leggere le opere di Platone, Aristotele ed i neoplatonici antichi.
Tornato in Italia il nuovo pontefice Niccolò V lo spedì in Germania per superare i dissidi con i Vescovi tedeschi. Il successo in questa missione gli fece ottenere la nomina a Cardinale ed a Vescovo-Principe di Bressanone.
Esercitando questa funzione venne in conflitto col Duca del Tirolo Sigismondo e fu da questi imprigionato alcuni anni.
Fu in seguito nominato vicario generale dello stato pontificio, ma abbandonò l'Alto Adige per riparare in Umbria. Morì a Todi nel 1464.
Compose diverse opere tra le quali occorre ricordare: De docta ignorantia (1440), De Conjecturis (1440-45), De idiota (1450), De pace fidei (1453), De visione Dei (1453) De beryllo (1458).

La dotta ignoranza
Cusano critica il sillogismo aristotelico perchè manca di precisione, o meglio, non consente di arrivare a quella precisione che è uno dei caratteri della verità.
In sostanza i tradizionali elementi della logica falliscono il loro scopo se pretendono di portare nuova ed effettiva conoscenza.
Com'è noto il sillogismo consente di concludere con un giudizio a partire da certe premesse tramite un medio del quale sono conosciute ed accettate alcune proprietà.
L'esempio più noto è questo: Socrate è un uomo, tutti gli uomini sono mortali, pertanto Socrate è mortale.
Nel sillogismo, afferma Cusano, emerge una proporzione comparativa che usa il termine medio (tutti gli uomini sono mortali) per riportare tutti gli attributi del medio al primo termine.
Questo procedimento appare insufficiente al Cusano perchè non consente di arrivare a cogliere l'oggetto in sè, Socrate, nella sua uguaglianza con sè, ovvero nella sua identità.
La critica evidenzia il limite intrinseco del sillogismo, il suo carattere pregiudiziale e "volgare".
Esso immette conoscenza muovendo semplicemente dal "genere" di appartenza. Socrate è uomo, cioè appartiene al genere umano, pertanto deve avere la proprietà di essere mortale in quanto tutti gli uomini sono mortali.
Questo tipo di critica rinvia alla disputa sull'esistenza degli "universali" tipica del medioevo, ma la riapre su un piano più consistente. Infatti il problema che solleva il Cusano sta nell'evidenziare che Socrate viene solo definito parzialmente, sotto il profilo della "mortalità", quindi in modo relativo e "finito".
Da questa finitezza Cusano trae spunto per dimostrare che ogni dimostrazione di tipo "finito" nell'ambito del "finito", cioè l'ambito denotato dal termine medio, restringe arbitrariamente le caratteristiche dell'individuo considerato e , comunque non consente di arrivare ad altro che ad un genere di conoscenze finite e limitate. Tutte le caratteristiche dell'uomo generico possono essere riportate ad un qualsiasi uomo considerato in sè. Ma le caratteristiche di un particolare uomo sono di più, ed anche tutte le caratteristiche di tutti gli uomini sommate insieme sono di più di quelle considerabili nel genere umano.

Come vedremo questa coscienza della differenza del singolo ha una base precisa nella relazione d'uguaglianza tra uomo e Dio.
Ogni singolo uomo è un microcosmo in cui Dio è presente, anche se in forma contratta, ristretta, limitata.
Per questo egli avverte l'esigenza di uscire dalla restrizione imposta dalla logica del sillogismo, cioè di passare dal finito all'infinito.
Ma nel passare dal finito all'infinito, ci si scontra con l'impossibilità di colmare un vero e proprio "salto".
Siamo cioè in presenza di una tensione verso la verità, riconoscibile per questa insoddisfazione nei confronti di una conoscenza fondata su sillogismi, che tuttavia non può esplicitarsi.
D'altro canto, continua il Cusano, il tipo di conoscenza fondato sul sillogismo rischia di procurare false certezze.
Per questo egli consiglia la dotta ignoranza, cioè una riserva sulle verità finite provenienti da un conoscere sillogistico, da considerare sempre con molte cautele.
Tanto più ci sentiremo "ignoranti" rispetto alle verità costruite sui sillogismi, tanto più ci avvicineremo quindi alla verità stessa, come intero e come infinito. sempre ricordando, tuttavia, che nessuna approssimazione può portarci a far realmente coincidere il carattere finito delle nostre conoscenze con l'infinito.
In altre parole: Dio come infinito è al di là di ogni conoscenza finita e non può dunque essere racchiuso in alcuna formula umana.
Potremmo osservare che anche il concetto di "infinito" è una formula umana, ma poichè essa non definisce altro che Dio, ed eventualmente la natura, semplicemente evidenziando che essa non è una formula come tutte le altre, anzi non formula alcunchè di determinato, questo principio appare sufficientemente fondato.

Ma perchè dotta?
Dunque se l'atteggiamento dell'ignoranza verso l''infinito è ciò che conviene onde evitare l'errore di saccenza racchiuso in ogni ricorso al sillogismo, rimane da spiegare perchè l'ignoranza rispetto al sapere di derivazione sillogistica è la forma di sapienza più appetibile, cioè in ultima analisi la vera sapienza possibile all'uomo.
E' presto detto. In questa forma di modestia l'uomo nella sua tensione verso la verità dell'infinito può anche congetturare, e può dunque costantemente portarsi oltre la finitezza presente per pervenire ad una finitezza più larga, in un certo senso più appagante.
Il salto tra finito ed infinito non può essere colmato. L'uomo non può avere la coscienza assoluta, come diranno invece gli idealisti tedeschi del primo ottocento e prima di loro lo stesso Spinoza, tuttavia può procedere, e nel procedere, adottando un metodo nuovo per il quale ogni cosa intesa nel suo senso di realtà ultima non viene "intesa" come isolata da tutte le altre, ma come sempre in relazione con ciò che la circonda.
Già questo nuovo atteggiamento è un superamento della finitezza più deteriore, della rigidità particolaristica più meschina.
Un esempio geometrico può aiutare a rendere l'idea del rapporto possibile tra la conoscenza finita dell'uomo e la realtà infinita.
Tra la conoscenza umana e la verità intercorre lo stesso rapporto che si stabilisce tra i poligoni inscritti e circoscritti e la cironferenza: se moltiplichiamo indefinitivamente i lati di tali poligoni , essi si avvicineranno progressivamente alla circonferenza, ma non coincideranno mai con essa in tutti i punti.
L'uomo può dunque solo sforzarsi di aderire alla circonferenza, ma la sua struttura mentale rimane comunque poligonale. Triangolo, quadrato, pentagono, esagono sono sotto questo profilo soltanto simboli di una conoscenza imperfetta. Solo il poligono che maggiormente aderisce con le sue migliaia di lati alla circonferenza può in qualche modo rappresentare l'avvicinamento alla verità.
Nell'infinito dunque tutto coincide, mentre nel finito abbiamo il massimo delle differenze e delle contrapposizioni, un conflitto di interessi particolari, un terreno nel quale ogni cosa è radicalmente diversa dall'altra.
Questo perchè, dice il Cusano, il finito è l'ambito del più del meno, dove dunque ogni concetto è relativo, proporzionato ad ogni altro concetto, ma quindi in rapporto contraddittorio con eventuali altri concetti commisurati ad altri concetti ancora.
L'infinito è invece il regno della coincidenza: non c'è un più ed un meno, ma solo un massimo ed un minimo, un massimo oltre il quale nientaltro è possibile ed un minimo nel quale nientaltro è possibile.
Pertanto in questo regno dell'assoluto il massimo coincide con il minimo, cioè vi è totale coincidenza degli opposti.
Devo riconoscere che questo pensiero mi ha profondamente impressionato anche in termini di modernità.
L'idea di un massimo oltre al quale non sia possibile andare in quanto esso è anche il minimo mi pare costituire una sfida alla razionalità pura per il quale l'infinito è concepibile solo come non determinabile in quanto vi sarà sempre un più uno.
Ma se poniamo attenzione al fatto che aggiungere uno ad una serie finita non porta in alcun modo all'infinito, ma solo ad un nuovo finito, è ovvio che l'infinito è concepibile sia come una retta che non ha inizio, nè fine, qualunque sia la dimensione dei punti che la compongono, sia in una circonferenza che si chiude, ma che in nessun modo è definibile quantitativamente, se i punti geometrici che la compongono non hanno dimensione, ma sono solo fittizi.
L'idea del cerchio come perfezione dell'essere, di chiara origine pitagorica, una volta stabilito che il punto non ha dimensione, e che ciò che ha dimensione è un segmento composto di punti, e non un punto, potrebbe risultare logicamente accettabile come "rappresentazione" dell'infinito in cui qualsiasi punto considerato come "massimo" è anche il "minimo", e dunque non solo il primo ma anche l'ultimo.
Ma rimangono difficoltà.
A me pare che il tentativo di rappresentare l'infinito mediante una figura geometrica sia contraddittorio perchè sia la circonferenza che la retta sono infinite in modo unilaterale, cioè solo in un senso e non tutti i sensi. Una retta infinita è infinita solo rispetto ai due versi della stessa, ma non rispetto al sopra od al sotto, a destra ed a sinistra, a tutti i fianchi possibili.
La circonferenza è di per sè un'area limitata all'esterno della quale è possibile immaginare qualunque cosa tranne che il nulla.
In altre parole la possibilità di rappresentare in modo figurativo l'infinito è destinata inevitabilmente a crollare per confutazione.
Unica possibilità rimane dunque quella del linguaggio: accordandoci sul fatto che la parola infinito, detta e scritta, significhi qualcosa di non determinabile in estensione, in quantità, in densità, come massa, come qualità, ecco che, per esclusione, abbiamo un'idea dell'infinito "trasmissibile" e comprensibile.
Analogamente ci possiamo accordare su un simbolo. Stabilito che un certo simbolo significhi "infinito" lo stesso può essere usato per indicare un valore matematico che tuttavia rimane incognito per definizione, non potendo assumere alcun valore particolare ma solo includere tutti i possibili valori.
In sostanza a me pare che tutte le rappresentazioni "figurative" siano inadeguate sia di fronte all'idea dell'infinito, sia all'infinito reale.
Ciò non toglie che è grazie a tentativi come questi noi siamo meno lontani da una concezione accettabile dell'infinito.

Dio e l'universo
Dio, secondo Cusano, è comunque al di là dello stesso infinito fisico, dunque dell'essere sostanziale delle cose esistenti.
Per comprendere Dio occorre quindi una forma superiore di conoscenza, l'intelletto, mentre per conoscere il mondo fisico, l'universo infinito è sufficiente la ragione discriminante, la quale si avvale ancora del principio di non-contraddizione proposto da Aristotele.
Lo stesso universo, concepibile come infinito in quanto creato, è da considerarsi come un infinito di tipo "negativo", cioè come spazio senza limiti. Ma il vero infinito "positivo" è solo Dio, nel senso che solo in Dio il principio della coincidenza degli opposti ha un valore assoluto, mentre già nell'universo fisico infinito, per Cusano, la totalità non è concepibile diversamente dalla pluralità delle cose esistenti, infinite per numero e per specie, ma non coincidenti.
Si tratta di un pensiero che, dunque, non solo non nega l'esistenza del molteplice, ma lo riconosce e lo mostra come conoscibile perchè distinguibile sulla base del principio di non-contraddizione e di un principio di identità peraltro non formulato esplicitamente.

Cusano pensa che nell'universo fisico si determini una "contrazione" del molteplice esistente in Dio e che, in un certo senso, «tutto sia in tutto». Per questo fu frainteso e persino accusato di panteismo.
Onde evitare di confondere Cusano con Spinoza, nel quale il panteismo sarà davvero esplicito, dobbiamo pertanto considerare che la "contrazione" dell'infinito-Dio nell'infinito-cosmo, non è presentata come una realtà al di là della forma apparente, ma come realizzazione di Dio nel molteplice. Pertanto il "tutto" presente in tutto non è lo stesso "tutto" considerato più tardi da Spinoza. Infatti il "tutto" di Cusano è l'infinito positivo presente nel tutto fisico negativo, il quale però è già scisso nel molteplice.
In questo, prima ancora che alle dottrine neoplatoniche, il riferimento potrebbe andare alla stessa teoria platonica dell'Uno e della Diade, dove l'uno prende per l'appunto una connaturazione diversa mediante l'unione con la diade.
Tuttavia mentre la diade in Platone esiste di per sè, è ovvio che in Cusano anche la materia è creata da Dio e persino la donna, com'è nel secondo racconto di "Genesi" (il primo, com'è visibile leggendo la Bibbia, si interrompe bruscamente dopo aver affermato che Dio creo ogni specie "maschio e femmina") è tratta dalla costola di Adamo e fu fatta per porre fine alla sua solitudine.
Ma Cusano, anzichè parlare di Uno-diade, preferisce ricorrere al termine di complicazione: il rapporto tra Dio e l'universo fisico è dato dalla co-implicazione dell'universo in Dio, cioè dal fatto che l'universo è implicito in Dio, cioè è contenuto in potenza (in senso aristotelico) . L'universo fisico è, al contrario, l'esplicazione di Dio, cioè la realizzazione dell'atto creativo, l'attualità di Dio.

Nel tentativo di conciliare ulteriormente filosofia e religione cristiana il Cusano cerca poi di dimostrare razionalmente il mistero della Trinità divina e propone la seguente interpretazione: Dio è necessariamente Unità (Padre), Uguaglianza (Figlio), cioè relazione con sè stesso, e Connessione (Spirito Santo) che procede da entrambi.
Spiega inoltre il mistero dell'incarnazione del Verbo, cioè la Parola di Dio in Gesù, evidenziando che deve esistere un individuo in cui si da il massimo possibile della contrazione di Dio nell'uomo, e questo non può essere che l'uomo-Dio, il Cristo.

Dopo aver separato Dio e mondo, Cusano ritrova Dio anche nel mondo, cioè nella creazione. E, come scrive l'Abbagnano, «...dopo aver separato la conoscenza umana dalla verità, ritrova la verità nella conoscenza umana proprio in virtù di questa separazione. Sapere di non conoscere Dio è il principio della sua conoscenza; ed in generale la dotta ignoranza, il sapere di non sapere, è il principio ed il fondamento di ogni conoscenza umana.
Per designare quest'ultima Cusano adopera il termine di congettura, che traduce l'eikasia platonica (Rep.,511 e; § 32), definendola come "l'asserzione positiva", che partecipa attraverso l'alterità, della verità come tale. (De conjecturis, I,13)» (Nicola Abbagnano - Storia della filosofia - "La filosofia del Rinascimento")

La conoscenza di Dio e la dottrina dell'uomo
Si può dire che per Cusano la conoscenza di Dio è possibile solo attraverso la "dotta ignoranza" , cioè un sapere con riserva rispetto ad ogni tipo di conoscenza del finito sensibile. L'uomo deve quindi avere coscienza dei suoi limiti; entro questi limiti egli può conoscere Dio per via del legame di somiglianza tra mente umana e mente divina. La mente umana è una sorta di lente capace di cogliere e riflettere i molteplici volti ed i molteplici colori del divino.
Se l'uomo è irato con Dio, Dio sarà irato con l'uomo e come tale si mostrerà; se l'uomo ama Dio, Dio si mostrerà amorevole con l'uomo.
La garanzia di poter trovare Dio è dunque strettamente legata al tipo di soggettività che l'uomo esprime. Dio stesso non può che rivelarsi attraverso la soggettività dell'uomo.
Pertanto la conoscenza di Dio non comporta, secondo Cusano, una particolare rivoluzione od una ripulsa della propria soggettività.
Essendo se stessi, in proprietà di noi stessi, possiamo conoscere Dio. A condizione, ovviamente di essere già in una condizione di "dotta ignoranza". Infatti mi pare di poter escludere che la saccenza e la certezza boriosa possa portare ad una vera conoscenza di Dio.
In questo quadro l'uomo non è dunque necessitato da Dio a compiere alcuna scelta; l'uomo è libero. Se non nega sè stesso, la parte migliore di sè, egli ritrova Dio facilmente, proprio attraverso l'accettazione della propria finitudine e della propria limitatezza.
Ciò non è affatto semplicistico.
Cusano, come cristiano (lasciamo stare il "fervente", non è il caso), ha inteso fino in fondo che l'evento Cristo segna un preciso spartiacque nella storia, in quanto Dio cessa "di nascondere il suo volto" e si propone, almeno in parte, a chi crede che Egli si sia fatto uomo onde colmare il salto tra infinito e finito.
Senza questa "operazione divina", per la quale Gesù è sia Dio, che uomo, cioè secondo Adamo (come propose San Paolo, in modo peraltro unilaterale, perchè Gesù come incarnazione di Dio non è mai messo in chiaro e sufficiente rilievo nelle epistole), l'avvicinamento tra Dio e uomo non era possibile, data la finitezza dell'uomo.
Pertanto nell'essere sè stesso che Cusano consiglia per arrivare a Dio, è scontata la mediazione di Cristo.
In altre parole: senza la comprensione storica dell'evento Cristo l'essere sè stesso non ha molto senso. Non basta, insomma una filosofia della libertà, occorre una coscienza della storia del rapporto tra uomo e Dio.
Dunque è in questa prospettiva che il Cusano si può definire umanista e deciso avversario di ogni nichilismo.
Apprezzare il mondo, non condannarlo aprioristicamente in nome di un altro mondo, ma aderirvi criticamente, in quanto comunque, se nel mondo della natura l'opera di Dio è ravvisabile direttamente, nel mondo costruito dall'uomo l'opera di Dio è rinvenibile mediatamente e specularmente.
L'opera della chiesa, l'azione dei cristiani sono in effetti testimoniati dalla continuità del sapere.
Lungi dal considerare l'azione della chiesa semplicemente come oscurantismo, essa fu, sia soggettivamente che oggettivamente, forse più oggettivamente che soggettivamente, opera di trasmissione della cultura dall'antichità alla modernità in un epoca di barbarie e di oscurantismo oggettivo.
Senza amanuensi, in altre parole, non avremmo alcun sapere dell'antichità e della storia e, persino, della scienza antica.

Una considerazione che mi viene spontanea a questo punto è che nella dottrina del Cusano viene dunque a riconciliarsi anche una possibile contrapposizione tra "apocalittici" ed "integrati", implicita nelle correnti giovannee e paoline del cristianesimo primitivo.
Nella visione apocalittica lo sfacelo del mondo determinato dal trionfo di Babilonia, simbolo dell'ingiustizia e della corruzione non quadra affatto con la superottimistica visione paolina del cristiano integrato nel sistema, che se fa il bene sarà comunque lodato da autorità "costituite da Dio" ("Romani").
Prima di affermare l'una o l'altra non basta evidentemente decidere, ma occorre fondare la propria decisione sul momento.
Qui l'opposizione è in parte mediata ed in parte elusa; tuttavia pur rimanendo implicita e mancando comunque di storicizzazione e contestualizzione ( ci sono momenti storici che richiedono l'integrazione ed altri che richiederebbero posizioni apocalittiche, p. e. nei confronti del nazismo, o dello stesso comunismo reale sovietico quando assume un aspetto totalitario), mi pare che la sintesi "umanistica" del Cusano sia in qualche modo "pietrina", cioè centrale, più conforme a quelli che potrebbero essere stati gli originali insegnamenti del Cristo storico: non "generici"ribelli tipo Barabba, ma critici e distaccati dalle vanità del mondo, comunque partecipi,
in ogni caso presenti, se non altro come buoni samaritani, dunque esemplari per dignità di comportamento e azioni improntate ad equità e giustizia.
In questo senso mi pare rechino giusta testimonianza alla coerenza del Cusano tra pensiero ed opere gli anni di galera inflittigli dal Duca Sigismondo.
Col suo esempio Cusano sembra dire che, pur mirando alla conciliazione, alla mediazione diplomatica, all'accordo preventivo, c'è un limite anche al compromesso, e che un vero cristiano ( e nel suo caso particolare) anche un vero filosofo, piuttosto che accettare l'umiliazione dell' ingiustizia per sè e per gli altri, rinnegando così i propri principi, preferisce la galera.

Una nuova cosmologia
Una volta posto che la perfezione dell'infinito positivo appartiene solo a Dio e che anche l'infinito del mondo fisico (un mondo fisico infinito solo al negativo, in quanto senza limiti) è dunque sottoposto al divenire ed al mutamento, crolla nel Cusano, la teoria aristotelica dell'incorruttibilità dei cieli, e della centralità della terra nell'universo.
Per affermare la centralità dell'uomo e la sua somiglianza con Dio non occorre affatto "localizzarla" al centro dell'universo.
Si tratta di un pensiero originale di estrema importanza perchè "apre" letteralmente la strada sia alla teoria copernicana, sia alla nuova fisica di Galileo.
Non essendo più la terra il centro del mondo (cioè dell'universo) , essa non può essere priva di movimento. Inoltre non può essere perfettamente sferica, ma solo tendere alla sfericità.
Oltre a queste "felici" intuizioni Cusano incorre anche in qualche errore grossolano, come quello di pensare che la terra sia una stella del tutto simile al sole e quindi che anche il sole abbia, sotto l'apparenza dell'aspetto infuocato una terra simile simile alla terra con gli altri tre elementi (terra, aria, acqua) presenti.
Cusano congettura sull'esietnza di intellettualità viventi su ogni stella e scade in qualche modo in una "infantile" fantascienza.
Tuttavia gli resta il merito di avere compreso che centralità della "creazione" e centralità della terra nell'universo non sono la stessa cosa.
Le veità della scienza moderna, pertanto, cominciano a mostrarsi su un piano semplicemente congetturale ed intuitivo, in quello che poi a molti studiosi della scienza, parrà semplicemente come "metafisica".

RG - 8 novembre 2000

Bibiografia minima
Giovanni Santinello - Introduzione a Nicolò Cusano - Laterza, Bari 1987
Graziella Federici Vescovini, - Introduzione in Nicola Cusano. La dotta ignoranza - Città Nuova, Roma, 1991
Marco Moschini - Cusano nel tempo. Letture e interpretazioni - Armando, Roma 2000

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