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Anselmo d'Aosta: dall'uomo a Dio


Senza Dio, nulla viene ad essere e nulla può durare. La creazione è continua. (Monologion, 13) Dio è ovunque. «Questo non vuol dire, certo, che egli sia condizionato dallo spazio e dal tempo. In lui non c'è un alto né un basso, né un prima, né un dopo, ma Egli è tutto in tutte le cose esistenti e in ciascuna di esse e vive di una vita interminabile che è tutta insieme (totum simul) presente e perfetta. (Monologion, 22-24).»

La testimonianza di Eadmero
Anselmo nacque ad Aosta nel 1033, in una famiglia di media aristocrazia feudale. Suo padre era Gandolfo Longobardo, sua madre Ermengarda, probabilmente di origini burgunde. Lo scenario familiare era simile a quello conosciuto da Agostino: un padre dedito agli interessi materiali, una madre pia e religiosa. Venne educato dai benedettini d Aosta e sembra che a quindici anni, espresse il desiderio di diventare monaco. Anselmo lasciò l'Italia all'età di ventiquattro anni - così scrisse il suo biografo Eadmero di Canterbury - per raggiungere l'abbazia di Bec in Normandia, dove studiò l'opera di Agostino sotto la guida di Lanfranco di Pavia, insegnante ferrato, diligente ed anche famoso. Quando Lanfranco, nel 1062, fu chiamato a reggere Santo Stefano di Caen, Anselmo gli succedette nel priorato.di Bec. Incarico che svolse per quindici anni, fino a quando assunse il titolo di Abate in luogo di Erduino. Nel frattempo, Lanfranco era diventato arcivescovo di Canterbury. Destino volle che alla sua scomparsa, dopo un altro quindicennio, Anselmo fosse ancora una volta designato a succedergli. Ma la successione non fu automatca; egli avanzò qualche riserva e pose severe condizioni al re Guglielmo II, tra le quali la restituzione delle terre confiscate alla chiesa, il riconoscimento del primato spirituale dell'arcivescovo, il sostegno inglese al papa legittimo Urbano II contro il cosiddetto antipapa Clemente III. Anselmo si inseriva così direttamente nella lotta politica, ideologica e religiosa, indubbiamente con grande carisma personale, avendo di fronte gravi e laceranti questioni. Gli storici affermano che egli ottenne soddisfazione solo su un punto: la restituzione delle terre confiscate. Troppo poco per accettare?

Per entrare nel merito delle più profonde convinzioni maturate sotto la guida di Lanfranco, ci soccorre Ernesto Buonaiuti. «In uno dei capitoli di quel singolare libretto che Eadmero ha compilato basandosi su propri ricordi, col titolo De sancti Anselmi similitudine, la popolazione del regno del Regno di Dio è ripartita in tre classi: quella dei semplici fedeli, che si trovano nella città del loro Signore esposti a tutte le scorrerie e a tutte le depredazioni del nemico; quella dei monaci, i quali dimorano nel castello e sono al sicuro da ogni rischio, finché materialmente o spiritualmente non cedano alla rischiosa tentazione di tornare alla circolazione delle città; infine quella degli angeli, ospiti dell'inviolabile torrione.» (1) Se ci si debba fidare della testimonianza di Eadmero è questione riservata agli specialisti. Qui non sembra strano che dopo tante letture agostiniane, si sia prodotta una simile visione nella speculazione di Anselmo, la quale, tuttavia, presentata in modo così semplice, non risulta molto diversa da un'autoproiezione della condizione esistenziale del monaco, declinata in modo apologetico e idealizzato,
Le considerazioni di Buonaiuti offrono ulteriore materia di riflessione. «Anselmo dev'essere stato un padre rettore dei monaci quale raramente se ne sono visti. Persuaso che l'abbate è innanzi tutto maestro e dottore, non appena egli è designato a tale dignità, affida a persone di fiducia le cure assorbenti dell'amministrazione, per poter attendere più liberamente ed efficacemente all'educazione spirituale dei suoi religiosi. Cura in maniera particolarissima la formazione dei giovani non trascurando di osservare che lo spirito degli adolescenti è paragonabile ad una cera molle, incapace di conservare l'impronta che si tenta di lasciarvi se essa non viene calcata con assiduità e metodo, mentre gli uomini maturi sono in maggioranza troppo irrigiditi nella loro essenza spirituale per soggiacere ad una qualsiasi forgiatura.»

Da abate a vescovo
«Se - prosegue Buonaiuti - pertanto e per la sua potenza spirituale e per il suo ministero monastico Anselmo appare come una delle figure più notevoli ed uno dei tipi più completi e rappresentativi della istituzione che Benedetto da Norcia aveva donato alla tradizione del cristianesimo, d'altro canto per il suo passaggio dallo stato monastico alla dignità vescovile e soprattutto per l'orientamento originale da lui dato alla speculazione teologica, si potrebbe dire che Anselmo rappresenta come una vetta segnante lo spartiacque fra due momenti radicalmente differenti della tradizione pedagogica ed apologetica del cristianesimo cattolico.» Diventando vescovo nel 1093, insomma, Anselmo si trovò gettato nelle temperie del mondo, senza più la reale ed in parte illusoria sicurezza che gli aveva offerto il mondo semiangelico delle abbazie. Oltre che a lottare contro l'ingerenza del potere politico nelle vicende ecclesiastiche, allo stesso tempo ribadendo ostinatamente il primato della chiesa sulla sovranità civile, dovette fare i conti con il moltiplicarsi, per quanto ancora in gestazione, dei centri culturali. Il sapere non era più patrimonio esclusivo dei monaci. Un altro Anselmo, detto, il Peripatetico, aveva fatto circolare il suo pensiero "dialettico", tenendo conferenze in molti centri europei. Ai dialettici, favorevoli al ricorso della ragione, si erano opposti i dogmatici della fede come Berengario di Tours, ed ancor di più si era opposto e si stava opponendo Pier Damiani. Anselmo, dalla tranquilla posizione di studioso ritirato, si era potuto permettere di incunearsi tra i due estremismi, stando tuttavia dalla parte della fede. Ora la sua teoria era alla prova della pratica. Fu certamente in questa fase della vita, ed anche della storia in senso ampio, che l'uomo Anselmo dovette tirar fuori gli "attributi". Portatore di una tradizione ormai "vecchia", si trovò nella necessità di riproporla come ancora valida in un mondo che stava cambiando, rimescolando tutte le carte. Dov'erano la "Città di Dio" e la "Città dell'uomo" disegnate sulla carta da Agostino? Ovunque, da nessuna parte, o strettamente e perfino indissolubilmente intrecciate? Bisognerebbe evitare di ricadere nel manicheismo, ma come si fa? In tutte le gnosi, ossia le presunzioni di sapienza, si è sempre data qualche forma di manicheismo, e Buonaiuti non ha esitato a denunciarla nello stesso Agostino alle prese con il problema del male radicale nella "città dell'uomo". (2) Il pensiero e gli atti di Anselmo "responsabilizzato" politicamente oltre che spiritualmente, sarebbero altrettanto interessanti da studiare, ma al riguardo non siamo in grado di andar oltre le informazioni pubblicate da wikipedia.
Le opere di Anselmo più considerate dagli studiosi risalgono al periodo della reggenza monastica, scritte all'interno del "regno di Dio", in una condizione psicologica invero invidiabile sotto certi aspetti, anche se assai meno sotto altri. Eppure non mancano i trattati composti da arcivescovo come il Cur Deus homo? - una delle ultime fatiche di Anselmo. Nel quale - lo si viene a sapere da Anthony Kenny - si parlava di giustizia. Essa richiede che «laddove c'è un'offesa ci debba essere una soddisfazione, o riparazione. Colui che ha offeso deve offrire una ricompensa che sia pari e di segno opposto all'offesa addotta. In puro stile feudale, egli sostiene che la gravità di un'offesa dev'essere giudicata in base all'importanza della persona chiamata a risarcire. Il peccato umano, essendo un'offesa contro Di» è dunque un'offesa infinita; la ricompensa umana è invece solo finita. Con le sole sue forze quindi, il genere umano è incapace di riparare i peccati di Adamo. e dei suoi eredi. La soddisfazione può essere adeguata se fatta da qualcuno che sia uomo (e quindi erede di Adamo) ma allo stesso tempo Dio (e quindi capace di offrire una ricompensa infinita). Da qui la necessità dell'Incarnazione. L'importanza per la storia della filosofia di questo trattato di Anselmo risiede nel suo concetto di "sodddisfazione", che assieme a quelli di deterrenza e retribuzione, figurò a lungo nelle giustificazioni filosofiche della pena, sia in un contesto di riflessione politica, sia nel quadro della riflessione teologica.» (3) Ma i problemi posti dalla "città degli uomini" erano di gran lunga più pressanti: Erano appetiti di potere in conflitto sul complesso scacchiere internazionale e nazionale, lotta per le investiture, la presenza di un antipapa a Roma, le manovre politiche per sostituirlo. Erano i tempi di Matilde di Canossa. Sullo sfondo stava la minaccia dei turchi su Costantinopoli e quella degli arabi, ancora padroni della Spagna. Anselmo, si ritrovò arruolato nel partito dei favorevoli alla crociata, giustificando l'impegno dei soldati cristiani con la dottrina della ricompensa infinita all'offesa arrecata a Dio..
Al concilio del 1092, Anselmo contribuì alla condanna di Pietro Roscellino con l'accusa di "triteismo", l'eresia secondo cui nella Trinità ci sono tre divinità separate. Roscellino - sottolinea Kenny - non era un nominalista come gli altri. Né prima, né dopo lui, come ad esempio lo saranno Abelardo ed Ockham. «Egli non sosteneva soltanto che i predicati universali erano nomi, bensì che erano meramente soffi. , emissioni di suono (flatus vocis). Se si applica questa teoria alla dottrina della Trinità, essa solleva però un problema. Padre, Figlio e Spirito Santo sono infatti accomunati dall'essere tutti Dio. Ma se il predicato "Dio"non è altro che una parola, allora le tre Persone non hanno nulla in comune.» (4) Che Roscellino non fosse individuo gradevole, tuttavia, lo si può dedurre da una lettera scritta a Pietro Abelardo, nella quale non esitò a dargli del "mezzo Pietro" dopo l'evirazione subita. Fino a che punto si può fare dell'ironia sulle disgrazie altrui, senza perdere a propria volta la dignità umana?

Il migliore non può essere peggiore di qualcuno
Visitati gli esiti della carriera ecclesiastica di Anselmo, dogmatici ed inquisitori, anche tralasciando la questione dell'opinabile incitamento alla crociata, si potrebbe concludere con un giudizio fallimentare, quanto meno sull'uomo pubblico. Anselmo non riuscì a sollevarsi al di sopra di una difesa - costi quel che costi - della verità rivelata ed interpretata dal magistero dei Padri dela Chiesa in una visione ancora fondamentalmente teocratica ed integralista. Lo si potrebbe catalogare ed archiviare come un ideologo conservatore. Ma, se ci si pone la domanda del conservatore rispetto a cosa ed a che, non possono che scattare argomenti per una difesa non puramente d'ufficio del lavoro teoretico svolto. Il suo fu un tipo di approccio alle questioni teologiche e filosofiche destinato ad attrarre sempre gli studiosi motivati alla questione della "verità". Anselmo fu ad un palmo dal raggiungimento di un successo realmente duraturo e fecondo, ma non seppe coglierlo, non svolgendo il suo pensiero in modo realmente conseguente alle premesse. La più importante era quella che non si può immaginare o pensare qualcosa o qualcuno di più grande, di più buono e di più giusto. Dio, insomma, il perfetto, rispetto al quale tutti gli enti sono solo imperfezioni, o perfezioni parziali. Il passo conseguente, in un contesto realmente dialettico, sarebbe stato quello di chiedersi se le sacre scritture avessero realmente saputo rendere il concetto di perfezione divina, il massimo che si può umanamente pensare in modo chiaro e distinto. Anselmo non riuscì a fare questo passo, ed il suo pensiero divenne un incompiuto, rispetto al quale anche l'ultimo dei ciarlatani potrebbe prendersi beffe. In Anselmo si scontano due subalternità. Quella nei confronti della Bibbia, considerata nel suo insieme come testimonianza coerente; quella nei confronti degli insegnamenti dei Padri della Chiesa, a loro volta fonte inquestionabile di verità. Sicché, rimanendo imbrigliato nei due blocchi definiti dalla tradizione, la sua speculazione non riuscì a prendere realmente il volo verso l'emancipazione. La quale non era necessariamente destinata a sfociare nell'ateismo. Tesi che Buonaiuti contesta, asserendo che egli aprì la via all'ateismo. Nulla di più lontano dalle intenzioni di Anselmo. E non sarebbe corretto nemmeno associarlo a qualche apripista del deismo, dato il radicale attaccamento alle scritture ed alla loro interpretazione da parte dei padri della chiesa. Certo è che col Monologion, aveva fatto uno sforzo considerevole per portare la sola ragione ai limiti della fede.

Capire ciò che si crede
La fede, dunque, costituisce l'orizzonte e il limite della ricerca. Per Anselmo fu importante capire in cosa si crede. Le sue tre maggiori opere furono il Monologion, il Proslogion, il De veritate, che compose ai tempi del magistero abbaziale, ma scorrendo i testi degli storici si ricava l'impressione che quasi tutti i lavori abbiano rilevanza, anche quelli composti subendo il pressing della lotta politica. «Sant'Anselmo - scrisse Etiene Gilson - dapprima prende nettamente coscienza dell'atteggiamento che egli adotta riguardo ai rapporti della ragione con la fede. Il Monologion è stato scritto specialmente per la richiesta di certi monaci di Bec che desideravano un modello di meditazione sull'esistenza e l'essenza di Dio, nella quale tutto dovrebbe essere provato con la ragione e dove nulla assolutamente dovrebbe essere fondato sull'autorità della Scrittura: "quatenus auctoritate Scripturae penitus in ea persuaderetur." Dunque, invece di dire, come s'è preteso in modo strano, che Sant'Anselmo che visse nel secolo XI appartiene al pensiero del XII , bisogna dire che con lu il pensiero del secolo XI trae la normale conclusione che la controversia tra dialettica e antidialettica doveva ricevere.
Due fonti di conoscenza sono a disposizione degli uomini, la ragione e la fede. Contro i dialettici, sant'Anselmo afferma che bisogna in primo luogo fondarsi saldamente sulla fede, e di conseguenza rifiuta di sottomettere le Sacre Scritture alla dialettica. La fede è per l'uomo il dato da cui deve partire. Il fatto che egli deve comprendere e la realtà che la sua ragione deve interpretare gli sono forniti dalla rivelazione: non intende per credere ma al contrario si crede per intendere: "neque enim quaero intellegere ut credam, sed credo ut intellegam." L'intelligenza, in una parola, presuppone la fede. Ma, inversamente, Sant'Anselmo prende posizione contro gli individuabili avversari della dialettica. Per colui che, in primo luogo, è saldamente fondato sulla fede, non c'è nessun inconveniente a sforzarsi di comprendere razionalmente ciò che egli crede.» (5) Capire la propria fede vuol dire avvicinarsi alla vista stessa di Dio. Occorre in primo luogo credere nei "misteri della fede" prima di discuterli con la ragione. Sono presuntuosi i dialettici a non mettere prima la fede, sono negligenti coloro che non ritengono necessario dare spiegazioni della propria fede.

Capire il mondo di Anselmo e il suo senso del 'mistero'
Gilson giustamente si pose delle domande. «Sant'Anselmo non s'è tirato indietro di fronte all'impegno di dimostrare la necessità della Trinità e dell'Incarnazione, impresa che san Tommaso d'Aquino dichiarerà contraddittoria e impossibile. Per raffigurarsi esattamente la posizione di sant'Anselmo su questo punto, bisogna ricordarsi delle precise condizioni in cui egli affrontava il suo impegno. Nel secolo XI la filosofia si riduceva alla dialettica di Aristotele. Nessuna fisica, nessuna antropologia e metafisica, nessuna morale puramente razionale, era conosciuta dagli uomini di quell'epoca. Capire il testo sacro era dunque prima di tutto cercarne l'interpretazione con l'aiuto delle risorse di cui dispone il dialettico. Sant'Anselmo, quindi, ha fatto, con la tecnica filosofica di cui disponeva, ciò che san Tommaso doveva fare poi nel XIII secolo con una tecnica filosofica arricchita della scoperta dell'opera completa di Aristotele. Argomentando da puro dialettico, egli non s'è proposto di rendere i misteri in se stessi intellegibili, ciò che avrebbe significato sopprimerli, ma di provare con ciò che egli chiama "ragioni necessarie" che la ragione umana ben guidata arriva necessariamente ad affermarli. Era già molto. Era indubbiamente troppo, ma non bisogna dimenticare che con la vivissima coscienza del potere esplicativo della ragione, sant'Anselmo conserva la coscienza che essa non giungerà mai a capire il mistero.» (6)
Ragionamento, questo di Gilson, tipicamente cristiano, giacché il "mistero" stesso si fonda - per così dire - su due costruzioni, quello dell'Incarnazione e quello della Trinità. E se il primo, in fondo, non desta particolari perplessità anche nei non credenti, dato che è possibile nascano di tanto in tanto individui intellettualmente e moralmente migliori di tutti i precedenti, come appunto Gesù di Nazareth, quando si arriva al secondo, si va a sbattere contro il dogma. Per decifrare il mistero bisognebbe risalire genealogicamente a chi lo ha costruito e costituito come enigma, aggiungendo, alle due Persone del Padre e del Figlio una terza Persona che non si potrebbe definire "persona" in senso ordinario, essendo più che altro un agente d'illuminazione e comprensione, il "mezzo" di cui si avvalgono il Padre ed il Figlio congiuntamente per spiegare la Parola e sbloccare le menti. Lo Spirito Santo è dunque la componente più misteriosa del mistero trinitario, ma sarebbe da notare che il Vangelo promette in modo impegnativo: non ci sono misteri che non saranno svelati.
La domanda che si dovrebbe rivolgere, forse più allo stesso Gilson che ad Anselmo, sarebbe necessariamente la seguente: disponeva Anselmo con le sole tecniche della ragione utilizzabile ai suoi tempi, senza gli arricchimenti che giungeranno, di un numero sufficiente di argomenti per esplicare un po' meglio il 'mistero' della Trinità? Se si considera che l'ampliamento delle tecniche filosofiche segnalato con tanta forza da Gilson per caratterizzare il tempo di Tommaso d'Aquino sarà, pur sotto il nome dì Aristotele, di provenienza araba e giudaica, e quindi fondamentalmente estraneo alle tematiche del Figlio e dello Spirito Santo, la risposta sarebbe negativa. L'elaborazione trinitaria è questione interamente cristiana. Nè l'ebreo Mosè Maimonide, né gli islamici Avicenna ed Averroè se ne occuperanno, quantomeno dall'interno di una prospettiva di fede cristiana. Le loro indagini finiranno col toccare tangenzialmente, o persino attraversare la sfera della fede cristiana, ma il problema sarà di altro genere. Coinvolgendo Dio, lo affronteranno come Unico e non come Trino. La lettura dei loro testi darà vita ad un confronto interculturale ed interrereligioso eminentemente filosofico e quindi appassionante per uomini di alto profilo speculativo, come appunto Alberto Magno, Tommaso d'Aquino e Sigieri di Brabante, ma avrà ben poco a che fare con il problema cristiano del "mistero della Trinità" e della fede che vi si deve prestare.

Il Monologion
Fingendosi protagonista di un dialogo con se sresso, Anselmo può dichiarare nella pagina iniziale di aver scritto «impersonando uno che discute mentalmente tra sé e ricerca quello di cui non si era reso conto.» Cercare Dio, ma non nei modo consueti della preghiera e della credenza. Da ciò derivano diverse tematiche. Prima vengono presentati gli argomenti che portano ad ammettere l'esistenza di un "sommo principio". Esso viene ricavato a partire dalla considerazione delle cose create. Successivamente, si risale al creatore, ma gli viene attribuita immediatamente una realtà "trinitaria". Affermazione che in una discussione reale tra diversi interlocutori, anche quelli persuasi dell'esistenza di Dio, si presterebbe a contestazioni. Ma essa sembra supportata da una convinzione profonda: l'analogia tra la realtà trinitaria e la mente dell'uomo. Argomento già presente in Agostino. Le prova considerate da Anselmo per certificare l'esistenza di Dio nel Monologion sono tutte fondate sull'esistenza delle creature, ossia a posteriori. Gilson interpreta così quella che si può considerare come la prima prova: «Esse suppongono l'ammissione di due principi: 1) le cose sono ineguali in perfezione; 2) tutto ciò che possiede più o meno perfezione ce l'ha dalla sua partecipazione a questa perfezione, presa nella sua forma assoluta. Questi due principi devono inoltre applicarsi a dei dati sensibili e razionali, a partire dai quali si possa argomentare, ad esempio il bene. D'altra parte, qui non si tratta di partire da un concetto astratto. Infatti, noi desideriamo godere di ciò che è bene: e quindi pressoché inevitabile, ed è in ogni caso molto naturale, che noi arriviamo a chiederci da dove provengano tutte le cose che giudichiamo buone. E' questa riflessione così naturale sul contenuto della nostra vita interiore e sull'oggetto del nostro desiderio che ci condurrà a Dio.» (7)
Sicché - scrivono Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e Massimo Parodi - «Anche chi non ha udito l'annuncio della fede, oppure non crede, scopre di poter giungere alla convinzione dell'esistenza di una somma perfezione, che è anche sommo essere e Sommo Bene, secondo quanto dicevano le parole iniziali del Monologion. Basandosi su questo punto fermo, Anselmo indaga ora le "molte altre verità" di cui aveva parlato in apertura. In particolare si sofferna sul tema della creazione dal nulla, riproponendo una concezione marcamente agostiniana, per cui nulla preesiste alla creazione , e tuttavia: "non è assolutamente possibile che una cosa sia fatta razionalmente da qualcuno se nella ragione di colui che la fa non preceda quasi un modello, o meglio forma, o similitudine o regola della cosa da farsi". (Monologion, 9) Nella ragione della somma natura deve essere presente una idea della creazione che la precede, in termini non cosmologici, ma ontologici. Questa forma delle cose è paragonabile al pensiero che, nella mente di un artigiano, precede la creazione dell'opera, è una parola interiore, un verbo: "e quando parlo di un dire della mente o della ragione, intendo non il pensare il suono significante, ma il vedere presenti alla mente, con lo sguardo del pensiero, le cose stesse, future o esistenti. " (Monologion, 10)» (8)
Retrocedendo ad alcuni punti precedenti, si ha che è impossibile che ogni cosa esistente non derivi da Dio. Nulla può venire semplicemente dalla materia. Ancor meno Dio può essere qualcosa di "materiale" e naturale. Se così fosse, sarebbe a sua volta sottoposto a processi di corruzione e morte. Il Sommo Bene non può cessare di essere, e la materia in sé non esiste, esistono solo gli enti creati e già prefigurati. D'altro canto, se non c'è materia preesistente alla creazione, e nemmeno esiste la confusa materialità del dopo la creazione, gli enti creati esistono solo dopo l'atto creativo. Non resta che ammettere che essi sono creati dal nulla. (Monologion, 7) Nicola Abbagnano suggerisce un confronto con le convinzioni di Scoto Eriugena, già presente in Gilson, di sicuro interesse. «Contro l'interpretazione (che si trova, per es,. in Eriugena) che il "nulla" da cui le cose derivano sia alcunché di positivo, per es. una causa materiale o una realtà potenziale, Anselmo ha cura di aggiungere che esso non è né una materia né altra cosa reale; e che l'espressione "creazione dal nulla" significa soltanto che il mondo prima non c'era ed ora c'è. L'espressione "creazione dal nulla" è identica a quella che si adopera dicendo che "si è fatto dal nulla" un uomo che ora è ricco e potente e prima non lo era. essa indica il salto dal nulla a qualche cosa. (Monologion, 8)» (9) Il lettore non deve stupirsi: Anselmo stava ragionando sulla base del lume naturale, e non su quella della verità evangelica, del tipo "non c'è ricchezza che non puzzi d'ingiustizia." Resta, tuttavia, che la similitudine non sembra azzeccata e nemmeno felice perché "anche chi si è fatto dal nulla" nellla società umana può contare su qualcosa che gli preesiste come la socializzazione della conoscenza e la sua assimilazione.
A questo punto, si può comunque sostenere che tutti gli esseri possiedono una perfezione in comune, anche se distribuita per gradi diversi. Tutti gli esseri hanno evidentemente una causa nel senso di origine. La questione si può ridurre ad una domanda: se sia ammissibile ragionare di molte cause, o non sia meglio individuarne una sola. Se si elimina la molteplicità di cause che esisterebbero "per sé", in eventuale rapporto dialettico conflittuale e reciprocamente condizionante con le altre, tutte le presunte cause avrebbero in comune la facoltà di esistere: «esse possono allora dunque ancora essere considerate come disposte sotto una stessa causa. Resterebbe la terza ipotesi, secondo la quale si producono reciprocamente»; ma è un'ipotesi contraria alla ragione che una cosa esista in virtù di ciò di cui dà l'esistenza .Questo non è vero nemmeno nei termini di una relazione, né della relazione stessa.» (10) Pertanto, si può parlare di una seconda prova a posteriori. Il politeismo deve lasciare il passo ad un più razionale monoteismo che crea, ordina, sostiene.
La terza dimostrazione in grado di condurre a Dio si poggia sui gradi di perfezione che ciascuna cosa creata possiede. E' sufficiente guardare all'esistente per constatare che ciascuna creatura possiede un grado di perfezione. «Per mettere in dubbio che il cavallo sia superiore al'albero, o che l'uomo lo sia al cavallo, bisognerebbe noi stessi non essere uomini. E se non si può negare che le nature siano superiori le une alle altre, bisogna ammettere che esiste un'infinità di esseri e che non s'incontra mai un essere così perfetto che non ce ne sia un altro ancora più perfetto, oppure che c'è un numero finito di esseri , e di conseguenza un essere più perfetto di tutto il resto.» (11) Asserire che esiste un numero infinito di esseri è assurdo, secondo Anselmo. Ossia, dovremmo noi stessi dichiararci assurdi per accogliere questa tesi. La conclusione è che deve esistere necessariamente un'entità tale da essere superiore a tutte le altre, senza risultare inferiore ad alcuna per qualche proprietà particolare. Ovviamente, giunti alla soglia delle gerarchie supreme, ci potrebbe cogliere il dubbio circa l'esistenza di molte entità uguali. «Ma se esse sono eguali, lo sono per ciò che esse hanno in comune, e se ciò che hanno in comune è la loro essenza, esse non sono in realtà che una sola natura; e se ciò che esse hanno in comune è qualcosa di diverso dalla loro essenza, è allora un'altra natura, superiore a loro, e che a sua volta più perfetta di tutte » (12) In questo ragionamento consisterebbe la terza prova a posteriori. Come Platone, Anselmo non spezza il cosiddetto "arco della conoscenza", che dai dati sale ai principi e dai principi torna ai dati in modo dialettico, ma il fatto sorprendente è che Anselmo non aveva una conoscenza diretta dei testi platonici, ma solo una intuizione filtrata dalle testimonianze più antiche, quali appunto quella di Agostino. A quest'ultimo vanno ricondotte anche le considerazioni sulla Trinità divina che chiudono il Monologion. Padre, Figlio (Verbo) e Spirito Santo coincidono con Essere, Sapienza e Bontà. «Giustamente dunque si può dire che la mente umana è a se stessa come specchio, nel quale può guardare riflessa, per dir così, l'immagine di quella realtà che non può vedere faccia faccia. Se infatti la mente sola, fra tutte le creature, è memore di sé, si conosce e si ama, non vedo perché debba negarsi che in lei è una vera immagine di quell'essenza che sussiste in una ineffabile trinità per la memoria, l'intelligenza e l'amore di sé. O piuttosto si mostra ancora più veramente immagine di quella, perché di quella può essere memore, conoscere ed amare.» (Monologion, 67) (13)

La Trinità
I pensieri sulla Trinità divina presentati nel Monologion risalgono ai Padri della Chiesa, non solo Agostino, ma anche Gregorio di Nissa, Gregorio Nazianzeno detto il Teologo, Giovanni Damasceno ed altri. In ognuno di essi era viva la preoccupazione di combattere l'eresia di Ario molto diffusa perché più razionale, od apparentemente più razionale perché più semplice e più logica. Il vero campione del pensiero trinitario, secondo gli storici, sarebbe stato il vescovo Atanasio, irriducibile ed incorruttibile difensore del principio. Questi ne passò davvero di tutti colori, fu perseguitato, anatemizzato, mandato in esilio, riabilitato e poi ancora retrocesso dai vescovi seguaci di Ario, sostenuti e strumentalizzati da Costanzo, uno dei figli di Costantino. Esempio di una coerenza ai limiti del martirio, a differenza di tanti trinitaristi da scrivania. Ma la domanda dello scettico ironico dei nostri tempi è facile da immaginare: ne valeva la pena? Sono stolti quelli che dicono trattarsi di un falso problema, o quelli che ancora s'arrabattano per difendere l'importanza fondamentale della Trinità?
Se ben si guarda, la prima rappresentazione trinitaria apparve in Paolo: fede, speranza e carità. La mente del credente, da questo momento in poi, si poteva avvalere della triade delle virtù teologali come fasi, se correttamente intese, di un percorso. La fedeltà alla Parola del Padre, la speranza suscitata dal Figlio, la carità, ovvero l'amore per il prossimo praticato quotidianamente, portata dallo Spirito Santo, dal quale lo stesso Paolo si diceva illuminato. Questa è una delle tracce più importanti nella genesi del pensiero trinitario. Sicuramente i Vangeli furono più espliciti circa il ruolo dello Spirito, inteso come soffio teurgico che causa trasformazioni, non solo nel comprendere ma anche nel fare, nel comunicare e nello spiegare. Gli Atti degli Apostoli contengono la più matura e dettagliata narrazione dell'efficacia dell'azione dello spirito. La chiave di comprensione potrebbe essere quella che, all'improvviso, dopo tre anni di insegnamenti e quaranta giorni di ritiro, gli esempi pratici (compresi i miracoli) e le parole del Maestro assumono finalmente il loro vero significato. Un autentico miracolo, tuttavia, si verifica ancora: gli Apostoli, improvvisamente, si accorgono di saper parlare tutte le lingue necessarie alla predicazione universale. La maledizione di Babele-Babilonia viene definitivamente rimossa e la confusione e l'incompresnsione possono essere vinte.
La spiegazione offerta da Gregorio di Nissa, a parte Agostino, è quella che sembra essere più vicina alle elaborazioni di Anselmo. La vicinanza è più ampia e non si limita alla sola questione trinitaria. Il rapporto tra fede e ragione fu posto da Gregorio di Nissa in termini pienamente accolti da Anselmo. La dialettica serve a rendere razionali gli oggetti della fede. Nell'interpretazione della Trinità, Gregorio si avvalse del principio di essentia (ousia) che vuol dire anche sostanza. «Se il nome di Dio, egli dice nel trattato Adversos Graecos, significa la persona, necessariamente, parlando di tre persone, parliamo di tre divinità. Ma se il nome di Dio indica l'essenza. noi possiamo riconoscere che c'è un unico Dio perché una sola è l'essenza delle tre persone. Ora in realtà il nome di Dio indica l'essenza divina. E' una consuetudine abusiva del linguaggio quella di indicare, col plurale del nome che significa la natura comune, gli individui molteplici che partecipano di esso.» (14) Analogamente, in Anselmo ciò che conta è l'essenza divina condivisa da tre persone differenti ma, con le medesime proprietà, la prima delle quali è l'eternità. Dove Anselmo superò abbondantemente Gregorio sul piano speculativo fu nella definizione del Verbo, ovverossia del Logos-Figlio. Esso appartiene sia alla dimensione del creatore che a quella della creatura. Il Logos è l'intelligenza che Dio ha di sé. Non può che esere coeterno al Padre perché, se così non fosse, si direbbe che il Padre creatore è un incosciente. Allo stesso tempo, è anche il Verbo delle creature. «Con un solo e medesimo Verbo il Sommo Spirito dice sé stesso e tutte le cose create.» (Monologion, 33) Se le creature si presentano mutevoli e difformi, sono tuttavia immutabili nella loro essenza e trovano il loro fondamento nel Verbo. (Monologion, 34) Il Verbo, pur condividendo l'essenza con il Sommo Spirito, si distingue da esso. Devono essere due, anche se è difficile esprimere in qual modo lo siano. La verità sta nella scoperta delle relazione reciproca, una sorta di dialettica interna alla medesima sostanza. Saremmo così al Vangelo di Giovanni: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se il Padre, che Anselmo continuò a chiamare Sommo Spirito, si riconosce e si intende nel Figlio, deve anche amarsi e parimenti amare le creature. L'amore è lo Spirito Santo. (Monologion, 57)

Con metafora ciclistica, siamo qui giunti al termine della prima tappa dell'itinerario percorso da Anselmo. Un percorso ascendente dalle creature al creatore. La seconda, non meno impegnativa, porterà al riconoscimento della presunta necessità del pensiero di trovare l'ente di cui non si può pensare nulla di maggiore. Ciò fu l'oggetto del Proslogion.

(continua)

Note
1) Ernesto Buonaiuti - Storia del cristianesimo - Newton Compton 2002
2) Buonaiuti, cit.
3) Anthony Kenny - Nuova storia del pensiero filosofico / Medioevo - Einaudi 2012

4) Kenny, cit.
5) Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo - La Nuova Italia Editrice - prima edizione 1983
6) Gilson, cit.
7) Gilson, cit.
8) Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e Massimo Parodi - Storia della filosofia medioevale - Laterza 2002
9) Nicola Abbagnano - Storia della filosofia / La filosofia medioevale - volume secondo dell'edizione TEA su licenza UTET
1999
10) Gilson, cit.
11) Gilson, cit.
12) Gilson, cit.
13) Fumagalli Beonio Brocchieri e Parodi, cit.
14) Abbagnano, cit.



moses - agosto 2013

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Anselmo d'Aosta con informazioni dettagliate sulla biografia
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