Anselmo d'Aosta: dall'uomo a Dio
Senza Dio, nulla viene ad essere e nulla
può durare. La creazione è continua. (Monologion, 13) Dio è ovunque. «Questo non vuol
dire, certo, che egli sia condizionato dallo
spazio e dal tempo. In lui non c'è un alto
né un basso, né un prima, né un dopo, ma
Egli è tutto in tutte le cose esistenti e
in ciascuna di esse e vive di una vita interminabile
che è tutta insieme (totum simul) presente e perfetta. (Monologion, 22-24).»
La testimonianza di Eadmero
Anselmo nacque ad Aosta nel 1033, in una famiglia di media aristocrazia feudale. Suo padre era Gandolfo Longobardo, sua
madre Ermengarda, probabilmente di origini
burgunde. Lo scenario familiare era simile
a quello conosciuto da Agostino: un padre
dedito agli interessi materiali, una madre
pia e religiosa. Venne educato dai benedettini
d Aosta e sembra che a quindici anni, espresse
il desiderio di diventare monaco. Anselmo
lasciò l'Italia all'età di ventiquattro anni
- così scrisse il suo biografo Eadmero di
Canterbury - per raggiungere l'abbazia di
Bec in Normandia, dove studiò l'opera di
Agostino sotto la guida di Lanfranco di Pavia,
insegnante ferrato, diligente ed anche famoso.
Quando Lanfranco, nel 1062, fu chiamato a
reggere Santo Stefano di Caen, Anselmo gli
succedette nel priorato.di Bec. Incarico
che svolse per quindici anni, fino a quando
assunse il titolo di Abate in luogo di Erduino.
Nel frattempo, Lanfranco era diventato arcivescovo
di Canterbury. Destino volle che alla sua
scomparsa, dopo un altro quindicennio, Anselmo
fosse ancora una volta designato a succedergli.
Ma la successione non fu automatca; egli
avanzò qualche riserva e pose severe condizioni
al re Guglielmo II, tra le quali la restituzione
delle terre confiscate alla chiesa, il riconoscimento
del primato spirituale dell'arcivescovo,
il sostegno inglese al papa legittimo Urbano
II contro il cosiddetto antipapa Clemente
III. Anselmo si inseriva così direttamente
nella lotta politica, ideologica e religiosa,
indubbiamente con grande carisma personale,
avendo di fronte gravi e laceranti questioni.
Gli storici affermano che egli ottenne soddisfazione
solo su un punto: la restituzione delle terre
confiscate. Troppo poco per accettare?
Per entrare nel merito
delle più profonde
convinzioni maturate sotto
la guida di Lanfranco,
ci soccorre Ernesto Buonaiuti.
«In
uno dei capitoli di quel
singolare libretto
che Eadmero ha compilato
basandosi su propri
ricordi, col titolo De sancti Anselmi similitudine, la popolazione del regno del Regno di Dio
è ripartita in tre classi: quella dei semplici
fedeli, che si trovano nella città del loro
Signore esposti a tutte le scorrerie e a
tutte le depredazioni del nemico; quella
dei monaci, i quali dimorano nel castello
e sono al sicuro da ogni rischio, finché
materialmente o spiritualmente non cedano
alla rischiosa tentazione di tornare alla
circolazione delle città; infine quella degli
angeli, ospiti dell'inviolabile torrione.»
(1) Se ci si debba fidare della testimonianza
di Eadmero è questione riservata agli specialisti.
Qui non sembra strano che dopo tante letture
agostiniane, si sia prodotta una simile visione
nella speculazione di Anselmo, la quale,
tuttavia, presentata in modo così semplice,
non risulta molto diversa da un'autoproiezione
della condizione esistenziale del monaco,
declinata in modo apologetico e idealizzato,
Le considerazioni di Buonaiuti offrono ulteriore
materia di riflessione. «Anselmo dev'essere
stato un padre rettore dei monaci quale raramente
se ne sono visti. Persuaso che l'abbate è
innanzi tutto maestro e dottore, non appena
egli è designato a tale dignità, affida a
persone di fiducia le cure assorbenti dell'amministrazione,
per poter attendere più liberamente ed efficacemente
all'educazione spirituale dei suoi religiosi.
Cura in maniera particolarissima la formazione
dei giovani non trascurando di osservare
che lo spirito degli adolescenti è paragonabile
ad una cera molle, incapace di conservare
l'impronta che si tenta di lasciarvi se essa
non viene calcata con assiduità e metodo,
mentre gli uomini maturi sono in maggioranza
troppo irrigiditi nella loro essenza spirituale
per soggiacere ad una qualsiasi forgiatura.»
Da abate a vescovo
«Se - prosegue Buonaiuti - pertanto
e per la sua potenza spirituale e per il
suo ministero monastico Anselmo appare come
una delle figure più notevoli ed uno dei
tipi più completi e rappresentativi della
istituzione che Benedetto da Norcia aveva
donato alla tradizione del cristianesimo,
d'altro canto per il suo passaggio dallo
stato monastico alla dignità vescovile e
soprattutto per l'orientamento originale
da lui dato alla speculazione teologica,
si potrebbe dire che Anselmo rappresenta
come una vetta segnante lo spartiacque fra
due momenti radicalmente differenti della
tradizione pedagogica ed apologetica del
cristianesimo cattolico.» Diventando
vescovo nel 1093, insomma, Anselmo si trovò
gettato nelle temperie del mondo, senza più
la reale ed in parte illusoria sicurezza
che gli aveva offerto il mondo semiangelico
delle abbazie. Oltre che a lottare contro
l'ingerenza del potere politico nelle vicende
ecclesiastiche, allo stesso tempo ribadendo
ostinatamente il primato della chiesa sulla
sovranità civile, dovette fare i conti con
il moltiplicarsi, per quanto ancora in gestazione,
dei centri culturali. Il sapere non era più
patrimonio esclusivo dei monaci. Un altro
Anselmo, detto, il Peripatetico, aveva fatto
circolare il suo pensiero "dialettico",
tenendo conferenze in molti centri europei.
Ai dialettici, favorevoli al ricorso della
ragione, si erano opposti i dogmatici della
fede come Berengario di Tours, ed ancor di
più si era opposto e si stava opponendo Pier
Damiani. Anselmo, dalla tranquilla posizione
di studioso ritirato, si era potuto permettere
di incunearsi tra i due estremismi, stando
tuttavia dalla parte della fede. Ora la sua
teoria era alla prova della pratica. Fu certamente
in questa fase della vita, ed anche della
storia in senso ampio, che l'uomo Anselmo
dovette tirar fuori gli "attributi".
Portatore di una tradizione ormai "vecchia",
si trovò nella necessità di riproporla come
ancora valida in un mondo che stava cambiando,
rimescolando tutte le carte. Dov'erano la
"Città di Dio" e la "Città
dell'uomo" disegnate sulla carta da
Agostino? Ovunque, da nessuna parte, o strettamente
e perfino indissolubilmente intrecciate?
Bisognerebbe evitare di ricadere nel manicheismo,
ma come si fa? In tutte le gnosi, ossia le
presunzioni di sapienza, si è sempre data
qualche forma di manicheismo, e Buonaiuti
non ha esitato a denunciarla nello stesso
Agostino alle prese con il problema del male
radicale nella "città dell'uomo".
(2) Il pensiero e gli atti di Anselmo "responsabilizzato"
politicamente oltre che spiritualmente, sarebbero
altrettanto interessanti da studiare, ma
al riguardo non siamo in grado di andar oltre
le informazioni pubblicate da wikipedia.
Le opere di Anselmo più considerate dagli
studiosi risalgono al periodo della reggenza
monastica, scritte all'interno del "regno
di Dio", in una condizione psicologica
invero invidiabile sotto certi aspetti, anche
se assai meno sotto altri. Eppure non mancano
i trattati composti da arcivescovo come il
Cur Deus homo? - una delle ultime fatiche di Anselmo. Nel quale - lo si viene a sapere da Anthony
Kenny - si parlava di giustizia. Essa richiede
che «laddove c'è un'offesa ci debba
essere una soddisfazione, o riparazione.
Colui che ha offeso deve offrire una ricompensa
che sia pari e di segno opposto all'offesa
addotta. In puro stile feudale, egli sostiene
che la gravità di un'offesa dev'essere giudicata
in base all'importanza della persona chiamata
a risarcire. Il peccato umano, essendo un'offesa
contro Di» è dunque un'offesa infinita;
la ricompensa umana è invece solo finita.
Con le sole sue forze quindi, il genere umano
è incapace di riparare i peccati di Adamo.
e dei suoi eredi. La soddisfazione può essere
adeguata se fatta da qualcuno che sia uomo
(e quindi erede di Adamo) ma allo stesso
tempo Dio (e quindi capace di offrire una
ricompensa infinita). Da qui la necessità
dell'Incarnazione. L'importanza per la storia
della filosofia di questo trattato di Anselmo
risiede nel suo concetto di "sodddisfazione",
che assieme a quelli di deterrenza e retribuzione,
figurò a lungo nelle giustificazioni filosofiche
della pena, sia in un contesto di riflessione
politica, sia nel quadro della riflessione
teologica.» (3) Ma i problemi posti
dalla "città degli uomini" erano
di gran lunga più pressanti: Erano appetiti
di potere in conflitto sul complesso scacchiere
internazionale e nazionale, lotta per le
investiture, la presenza di un antipapa a
Roma, le manovre politiche per sostituirlo.
Erano i tempi di Matilde di Canossa. Sullo
sfondo stava la minaccia dei turchi su Costantinopoli
e quella degli arabi, ancora padroni della
Spagna. Anselmo, si ritrovò arruolato nel
partito dei favorevoli alla crociata, giustificando
l'impegno dei soldati cristiani con la dottrina
della ricompensa infinita all'offesa arrecata
a Dio..
Al concilio del 1092, Anselmo contribuì alla
condanna di Pietro Roscellino con l'accusa
di "triteismo", l'eresia secondo
cui nella Trinità ci sono tre divinità separate.
Roscellino - sottolinea Kenny - non era un
nominalista come gli altri. Né prima, né
dopo lui, come ad esempio lo saranno Abelardo
ed Ockham. «Egli non sosteneva soltanto
che i predicati universali erano nomi, bensì
che erano meramente soffi. , emissioni di
suono (flatus vocis). Se si applica questa teoria alla dottrina
della Trinità, essa solleva però un problema.
Padre, Figlio e Spirito Santo sono infatti
accomunati dall'essere tutti Dio. Ma se il
predicato "Dio"non è altro che
una parola, allora le tre Persone non hanno
nulla in comune.» (4) Che Roscellino
non fosse individuo gradevole, tuttavia,
lo si può dedurre da una lettera scritta
a Pietro Abelardo, nella quale non esitò
a dargli del "mezzo Pietro" dopo
l'evirazione subita. Fino a che punto si
può fare dell'ironia sulle disgrazie altrui,
senza perdere a propria volta la dignità
umana?
Il migliore non può essere
peggiore di qualcuno
Visitati gli esiti della carriera ecclesiastica
di Anselmo, dogmatici ed inquisitori, anche
tralasciando la questione dell'opinabile
incitamento alla crociata, si potrebbe concludere
con un giudizio fallimentare, quanto meno
sull'uomo pubblico. Anselmo non riuscì a
sollevarsi al di sopra di una difesa - costi
quel che costi - della verità rivelata ed
interpretata dal magistero dei Padri dela
Chiesa in una visione ancora fondamentalmente
teocratica ed integralista. Lo si potrebbe
catalogare ed archiviare come un ideologo conservatore. Ma, se ci si pone la domanda del conservatore
rispetto a cosa ed a che, non possono che scattare argomenti per
una difesa non puramente d'ufficio del lavoro
teoretico svolto. Il suo fu un tipo di approccio
alle questioni teologiche e filosofiche destinato
ad attrarre sempre gli studiosi motivati
alla questione della "verità".
Anselmo fu ad un palmo dal raggiungimento
di un successo realmente duraturo e fecondo,
ma non seppe coglierlo, non svolgendo il
suo pensiero in modo realmente conseguente
alle premesse. La più importante era quella
che non si può immaginare o pensare qualcosa
o qualcuno di più grande, di più buono e
di più giusto. Dio, insomma, il perfetto,
rispetto al quale tutti gli enti sono solo
imperfezioni, o perfezioni parziali. Il passo
conseguente, in un contesto realmente dialettico,
sarebbe stato quello di chiedersi se le sacre
scritture avessero realmente saputo rendere
il concetto di perfezione divina, il massimo
che si può umanamente pensare in modo chiaro
e distinto. Anselmo non riuscì a fare questo
passo, ed il suo pensiero divenne un incompiuto,
rispetto al quale anche l'ultimo dei ciarlatani
potrebbe prendersi beffe. In Anselmo si scontano
due subalternità. Quella nei confronti della
Bibbia, considerata nel suo insieme come
testimonianza coerente; quella nei confronti
degli insegnamenti dei Padri della Chiesa,
a loro volta fonte inquestionabile di verità.
Sicché, rimanendo imbrigliato nei due blocchi
definiti dalla tradizione, la sua speculazione
non riuscì a prendere realmente il volo verso
l'emancipazione. La quale non era necessariamente
destinata a sfociare nell'ateismo. Tesi che
Buonaiuti contesta, asserendo che egli aprì
la via all'ateismo. Nulla di più lontano
dalle intenzioni di Anselmo. E non sarebbe
corretto nemmeno associarlo a qualche apripista
del deismo, dato il radicale attaccamento alle scritture
ed alla loro interpretazione da parte dei
padri della chiesa. Certo è che col Monologion, aveva fatto uno sforzo considerevole per
portare la sola ragione ai limiti della fede.
Capire ciò che si crede
La fede, dunque, costituisce l'orizzonte
e il limite della ricerca. Per Anselmo fu
importante capire in cosa si crede. Le sue
tre maggiori opere furono il Monologion, il Proslogion, il De veritate, che compose ai tempi del magistero abbaziale,
ma scorrendo i testi degli storici si ricava
l'impressione che quasi tutti i lavori abbiano
rilevanza, anche quelli composti subendo
il pressing della lotta politica. «Sant'Anselmo
- scrisse Etiene Gilson - dapprima prende
nettamente coscienza dell'atteggiamento che
egli adotta riguardo ai rapporti della ragione
con la fede. Il Monologion è stato scritto specialmente per la richiesta
di certi monaci di Bec che desideravano un
modello di meditazione sull'esistenza e l'essenza
di Dio, nella quale tutto dovrebbe essere
provato con la ragione e dove nulla assolutamente
dovrebbe essere fondato sull'autorità della
Scrittura: "quatenus auctoritate Scripturae
penitus in ea persuaderetur." Dunque,
invece di dire, come s'è preteso in modo
strano, che Sant'Anselmo che visse nel secolo
XI appartiene al pensiero del XII , bisogna
dire che con lu il pensiero del secolo XI
trae la normale conclusione che la controversia
tra dialettica e antidialettica doveva ricevere.
Due fonti di conoscenza sono a disposizione
degli uomini, la ragione e la fede. Contro
i dialettici, sant'Anselmo afferma che bisogna
in primo luogo fondarsi saldamente sulla
fede, e di conseguenza rifiuta di sottomettere
le Sacre Scritture alla dialettica. La fede
è per l'uomo il dato da cui deve partire.
Il fatto che egli deve comprendere e la realtà
che la sua ragione deve interpretare gli
sono forniti dalla rivelazione: non intende
per credere ma al contrario si crede per
intendere: "neque enim quaero intellegere
ut credam, sed credo ut intellegam."
L'intelligenza, in una parola, presuppone
la fede. Ma, inversamente, Sant'Anselmo prende
posizione contro gli individuabili avversari
della dialettica. Per colui che, in primo
luogo, è saldamente fondato sulla fede, non
c'è nessun inconveniente a sforzarsi di comprendere
razionalmente ciò che egli crede.»
(5) Capire la propria fede vuol dire avvicinarsi
alla vista stessa di Dio. Occorre in primo
luogo credere nei "misteri della fede"
prima di discuterli con la ragione. Sono
presuntuosi i dialettici a non mettere prima
la fede, sono negligenti coloro che non ritengono
necessario dare spiegazioni della propria
fede.
Capire il mondo di Anselmo e il suo senso
del 'mistero'
Gilson giustamente si pose delle domande.
«Sant'Anselmo non s'è tirato indietro
di fronte all'impegno di dimostrare la necessità
della Trinità e dell'Incarnazione, impresa
che san Tommaso d'Aquino dichiarerà contraddittoria
e impossibile. Per raffigurarsi esattamente
la posizione di sant'Anselmo su questo punto,
bisogna ricordarsi delle precise condizioni
in cui egli affrontava il suo impegno. Nel
secolo XI la filosofia si riduceva alla dialettica
di Aristotele. Nessuna fisica, nessuna antropologia
e metafisica, nessuna morale puramente razionale,
era conosciuta dagli uomini di quell'epoca.
Capire il testo sacro era dunque prima di
tutto cercarne l'interpretazione con l'aiuto
delle risorse di cui dispone il dialettico.
Sant'Anselmo, quindi, ha fatto, con la tecnica
filosofica di cui disponeva, ciò che san
Tommaso doveva fare poi nel XIII secolo con
una tecnica filosofica arricchita della scoperta
dell'opera completa di Aristotele. Argomentando
da puro dialettico, egli non s'è proposto
di rendere i misteri in se stessi intellegibili,
ciò che avrebbe significato sopprimerli,
ma di provare con ciò che egli chiama "ragioni
necessarie" che la ragione umana ben
guidata arriva necessariamente ad affermarli.
Era già molto. Era indubbiamente troppo,
ma non bisogna dimenticare che con la vivissima
coscienza del potere esplicativo della ragione,
sant'Anselmo conserva la coscienza che essa
non giungerà mai a capire il mistero.»
(6)
Ragionamento, questo di
Gilson, tipicamente
cristiano, giacché il "mistero"
stesso si fonda - per così
dire - su due
costruzioni, quello dell'Incarnazione
e quello
della Trinità. E se il
primo, in fondo, non
desta particolari perplessità
anche nei non
credenti, dato che è possibile
nascano di
tanto in tanto individui
intellettualmente
e moralmente migliori di
tutti i precedenti,
come appunto Gesù di Nazareth,
quando si
arriva al secondo, si va
a sbattere contro
il dogma. Per decifrare
il mistero bisognebbe
risalire genealogicamente
a chi lo ha costruito
e costituito come enigma,
aggiungendo, alle
due Persone del Padre e
del Figlio una terza
Persona che non si potrebbe
definire "persona"
in senso ordinario, essendo
più che altro
un agente d'illuminazione
e comprensione,
il "mezzo" di
cui si avvalgono
il Padre ed il Figlio congiuntamente
per
spiegare la Parola e sbloccare
le menti.
Lo Spirito Santo è dunque
la componente più
misteriosa del mistero
trinitario, ma sarebbe
da notare che il Vangelo
promette in modo
impegnativo: non ci sono misteri che non saranno svelati.
La domanda che si dovrebbe rivolgere, forse
più allo stesso Gilson che ad Anselmo, sarebbe
necessariamente la seguente: disponeva Anselmo
con le sole tecniche della ragione utilizzabile
ai suoi tempi, senza gli arricchimenti che
giungeranno, di un numero sufficiente di
argomenti per esplicare un po' meglio il
'mistero' della Trinità? Se si considera
che l'ampliamento delle tecniche filosofiche segnalato con
tanta forza da Gilson per caratterizzare
il tempo di Tommaso d'Aquino sarà, pur sotto
il nome dì Aristotele, di provenienza araba
e giudaica, e quindi fondamentalmente estraneo alle tematiche del Figlio e dello Spirito
Santo, la risposta sarebbe negativa. L'elaborazione
trinitaria è questione interamente cristiana.
Nè l'ebreo Mosè Maimonide, né gli islamici
Avicenna ed Averroè se ne occuperanno, quantomeno
dall'interno di una prospettiva di fede cristiana.
Le loro indagini finiranno col toccare tangenzialmente,
o persino attraversare la sfera della fede
cristiana, ma il problema sarà di altro genere.
Coinvolgendo Dio, lo affronteranno come Unico
e non come Trino. La lettura dei loro testi
darà vita ad un confronto interculturale
ed interrereligioso eminentemente filosofico
e quindi appassionante per uomini di alto
profilo speculativo, come appunto Alberto
Magno, Tommaso d'Aquino e Sigieri di Brabante,
ma avrà ben poco a che fare con il problema
cristiano del "mistero della Trinità"
e della fede che vi si deve prestare.
Il Monologion
Fingendosi protagonista di un dialogo con
se sresso, Anselmo può dichiarare nella pagina
iniziale di aver scritto «impersonando
uno che discute mentalmente tra sé e ricerca
quello di cui non si era reso conto.»
Cercare Dio, ma non nei modo consueti della
preghiera e della credenza. Da ciò derivano
diverse tematiche. Prima vengono presentati
gli argomenti che portano ad ammettere l'esistenza
di un "sommo principio". Esso viene
ricavato a partire dalla considerazione delle
cose create. Successivamente, si risale al
creatore, ma gli viene attribuita immediatamente
una realtà "trinitaria". Affermazione
che in una discussione reale tra diversi
interlocutori, anche quelli persuasi dell'esistenza
di Dio, si presterebbe a contestazioni. Ma
essa sembra supportata da una convinzione
profonda: l'analogia tra la realtà trinitaria
e la mente dell'uomo. Argomento già presente
in Agostino. Le prova considerate da Anselmo
per certificare l'esistenza di Dio nel Monologion sono tutte fondate sull'esistenza delle
creature, ossia a posteriori. Gilson interpreta così quella che si può
considerare come la prima prova: «Esse
suppongono l'ammissione di due principi:
1) le cose sono ineguali in perfezione; 2)
tutto ciò che possiede più o meno perfezione
ce l'ha dalla sua partecipazione a questa
perfezione, presa nella sua forma assoluta.
Questi due principi devono inoltre applicarsi
a dei dati sensibili e razionali, a partire
dai quali si possa argomentare, ad esempio
il bene. D'altra parte, qui non si tratta
di partire da un concetto astratto. Infatti,
noi desideriamo godere di ciò che è bene:
e quindi pressoché inevitabile, ed è in ogni
caso molto naturale, che noi arriviamo a
chiederci da dove provengano tutte le cose
che giudichiamo buone. E' questa riflessione
così naturale sul contenuto della nostra
vita interiore e sull'oggetto del nostro
desiderio che ci condurrà a Dio.» (7)
Sicché - scrivono Mariateresa Fumagalli Beonio
Brocchieri e Massimo Parodi - «Anche chi non ha udito l'annuncio della fede, oppure non crede,
scopre di poter giungere alla convinzione
dell'esistenza di una somma perfezione, che
è anche sommo essere e Sommo Bene, secondo
quanto dicevano le parole iniziali del Monologion. Basandosi su questo punto fermo, Anselmo
indaga ora le "molte altre verità"
di cui aveva parlato in apertura. In particolare
si sofferna sul tema della creazione dal
nulla, riproponendo una concezione marcamente
agostiniana, per cui nulla preesiste alla
creazione , e tuttavia: "non è assolutamente
possibile che una cosa sia fatta razionalmente
da qualcuno se nella ragione di colui che
la fa non preceda quasi un modello, o meglio
forma, o similitudine o regola della cosa
da farsi". (Monologion, 9) Nella ragione della somma natura deve
essere presente una idea della creazione
che la precede, in termini non cosmologici,
ma ontologici. Questa forma delle cose è
paragonabile al pensiero che, nella mente
di un artigiano, precede la creazione dell'opera,
è una parola interiore, un verbo: "e
quando parlo di un dire della mente o della
ragione, intendo non il pensare il suono
significante, ma il vedere presenti alla
mente, con lo sguardo del pensiero, le cose
stesse, future o esistenti. " (Monologion, 10)» (8)
Retrocedendo ad alcuni punti precedenti,
si ha che è impossibile che ogni cosa esistente
non derivi da Dio. Nulla può venire semplicemente
dalla materia. Ancor meno Dio può essere
qualcosa di "materiale" e naturale.
Se così fosse, sarebbe a sua volta sottoposto
a processi di corruzione e morte. Il Sommo
Bene non può cessare di essere, e la materia
in sé non esiste, esistono solo gli enti
creati e già prefigurati. D'altro canto,
se non c'è materia preesistente alla creazione,
e nemmeno esiste la confusa materialità del
dopo la creazione, gli enti creati esistono
solo dopo l'atto creativo. Non resta che
ammettere che essi sono creati dal nulla.
(Monologion, 7) Nicola Abbagnano suggerisce un confronto
con le convinzioni di Scoto Eriugena, già
presente in Gilson, di sicuro interesse.
«Contro l'interpretazione (che si trova,
per es,. in Eriugena) che il "nulla"
da cui le cose derivano sia alcunché di positivo,
per es. una causa materiale o una realtà
potenziale, Anselmo ha cura di aggiungere
che esso non è né una materia né altra cosa
reale; e che l'espressione "creazione
dal nulla" significa soltanto che il
mondo prima non c'era ed ora c'è. L'espressione
"creazione dal nulla" è identica
a quella che si adopera dicendo che "si
è fatto dal nulla" un uomo che ora è
ricco e potente e prima non lo era. essa
indica il salto dal nulla a qualche cosa. (Monologion, 8)» (9) Il lettore non deve stupirsi:
Anselmo stava ragionando sulla base del lume
naturale, e non su quella della verità evangelica,
del tipo "non c'è ricchezza che non
puzzi d'ingiustizia." Resta, tuttavia,
che la similitudine non sembra azzeccata
e nemmeno felice perché "anche chi si
è fatto dal nulla" nellla società umana
può contare su qualcosa che gli preesiste
come la socializzazione della conoscenza
e la sua assimilazione.
A questo punto, si può comunque sostenere
che tutti gli esseri possiedono una perfezione
in comune, anche se distribuita per gradi
diversi. Tutti gli esseri hanno evidentemente
una causa nel senso di origine. La questione
si può ridurre ad una domanda: se sia ammissibile
ragionare di molte cause, o non sia meglio
individuarne una sola. Se si elimina la molteplicità
di cause che esisterebbero "per sé",
in eventuale rapporto dialettico conflittuale
e reciprocamente condizionante con le altre,
tutte le presunte cause avrebbero in comune
la facoltà di esistere: «esse possono
allora dunque ancora essere considerate come
disposte sotto una stessa causa. Resterebbe
la terza ipotesi, secondo la quale si producono
reciprocamente»; ma è un'ipotesi contraria
alla ragione che una cosa esista in virtù
di ciò di cui dà l'esistenza .Questo non
è vero nemmeno nei termini di una relazione,
né della relazione stessa.» (10) Pertanto,
si può parlare di una seconda prova a posteriori. Il politeismo deve lasciare il passo ad un più razionale
monoteismo che crea, ordina,
sostiene.
La terza dimostrazione in grado di condurre
a Dio si poggia sui gradi di perfezione che
ciascuna cosa creata possiede. E' sufficiente
guardare all'esistente per constatare che
ciascuna creatura possiede un grado di perfezione.
«Per mettere in dubbio che il cavallo
sia superiore al'albero, o che l'uomo lo
sia al cavallo, bisognerebbe noi stessi non
essere uomini. E se non si può negare che
le nature siano superiori le une alle altre,
bisogna ammettere che esiste un'infinità
di esseri e che non s'incontra mai un essere
così perfetto che non ce ne sia un altro
ancora più perfetto, oppure che c'è un numero
finito di esseri , e di conseguenza un essere
più perfetto di tutto il resto.» (11)
Asserire che esiste un numero infinito di
esseri è assurdo, secondo Anselmo. Ossia,
dovremmo noi stessi dichiararci assurdi per
accogliere questa tesi. La conclusione è
che deve esistere necessariamente un'entità
tale da essere superiore a tutte le altre,
senza risultare inferiore ad alcuna per qualche
proprietà particolare. Ovviamente, giunti
alla soglia delle gerarchie supreme, ci potrebbe
cogliere il dubbio circa l'esistenza di molte
entità uguali. «Ma se esse sono eguali,
lo sono per ciò che esse hanno in comune,
e se ciò che hanno in comune è la loro essenza,
esse non sono in realtà che una sola natura;
e se ciò che esse hanno in comune è qualcosa
di diverso dalla loro essenza, è allora un'altra
natura, superiore a loro, e che a sua volta
più perfetta di tutte » (12) In questo
ragionamento consisterebbe la terza prova
a posteriori. Come Platone, Anselmo non spezza il cosiddetto
"arco della conoscenza", che dai
dati sale ai principi e dai principi torna
ai dati in modo dialettico, ma il fatto sorprendente
è che Anselmo non aveva una conoscenza diretta
dei testi platonici, ma solo una intuizione
filtrata dalle testimonianze più antiche, quali appunto
quella di Agostino. A quest'ultimo vanno
ricondotte anche le considerazioni sulla
Trinità divina che chiudono il Monologion. Padre, Figlio (Verbo) e Spirito Santo coincidono
con Essere, Sapienza e Bontà. «Giustamente
dunque si può dire che la mente umana è a
se stessa come specchio, nel quale può guardare
riflessa, per dir così, l'immagine di quella
realtà che non può vedere faccia faccia. Se infatti la mente sola, fra tutte le creature,
è memore di sé, si conosce e si ama, non
vedo perché debba negarsi che in lei è una
vera immagine di quell'essenza che sussiste
in una ineffabile trinità per la memoria,
l'intelligenza e l'amore di sé. O piuttosto
si mostra ancora più veramente immagine di
quella, perché di quella può essere memore,
conoscere ed amare.» (Monologion, 67) (13)
La Trinità
I pensieri sulla Trinità
divina presentati
nel Monologion risalgono ai Padri della Chiesa, non solo
Agostino, ma anche Gregorio di Nissa, Gregorio
Nazianzeno detto il Teologo, Giovanni Damasceno
ed altri. In ognuno di essi era viva la preoccupazione
di combattere l'eresia di Ario molto diffusa
perché più razionale, od apparentemente più
razionale perché più semplice e più logica.
Il vero campione del pensiero trinitario,
secondo gli storici, sarebbe stato il vescovo
Atanasio, irriducibile ed incorruttibile
difensore del principio. Questi ne passò
davvero di tutti colori, fu perseguitato,
anatemizzato, mandato in esilio, riabilitato
e poi ancora retrocesso dai vescovi seguaci
di Ario, sostenuti e strumentalizzati da
Costanzo, uno dei figli di Costantino. Esempio
di una coerenza ai limiti del martirio, a
differenza di tanti trinitaristi da scrivania.
Ma la domanda dello scettico ironico dei
nostri tempi è facile da immaginare: ne valeva
la pena? Sono stolti quelli che dicono trattarsi
di un falso problema, o quelli che ancora
s'arrabattano per difendere l'importanza
fondamentale della Trinità?
Se ben si guarda, la prima rappresentazione
trinitaria apparve in Paolo: fede, speranza
e carità. La mente del credente, da questo
momento in poi, si poteva avvalere della
triade delle virtù teologali come fasi, se
correttamente intese, di un percorso. La
fedeltà alla Parola del Padre, la speranza
suscitata dal Figlio, la carità, ovvero l'amore
per il prossimo praticato quotidianamente, portata dallo Spirito Santo, dal quale lo
stesso Paolo si diceva illuminato. Questa
è una delle tracce più importanti nella genesi
del pensiero trinitario. Sicuramente i Vangeli
furono più espliciti circa il ruolo dello
Spirito, inteso come soffio teurgico che
causa trasformazioni, non solo nel comprendere
ma anche nel fare, nel comunicare e nello
spiegare. Gli Atti degli Apostoli contengono la più matura e dettagliata narrazione
dell'efficacia dell'azione dello spirito.
La chiave di comprensione potrebbe essere
quella che, all'improvviso, dopo tre anni
di insegnamenti e quaranta giorni di ritiro,
gli esempi pratici (compresi i miracoli)
e le parole del Maestro assumono finalmente
il loro vero significato. Un autentico miracolo,
tuttavia, si verifica ancora: gli Apostoli,
improvvisamente, si accorgono di saper parlare
tutte le lingue necessarie alla predicazione
universale. La maledizione di Babele-Babilonia
viene definitivamente rimossa e la confusione
e l'incompresnsione possono essere vinte.
La spiegazione offerta da Gregorio di Nissa,
a parte Agostino, è quella che sembra essere
più vicina alle elaborazioni di Anselmo.
La vicinanza è più ampia e non si limita
alla sola questione trinitaria. Il rapporto
tra fede e ragione fu posto da Gregorio di
Nissa in termini pienamente accolti da Anselmo.
La dialettica serve a rendere razionali gli
oggetti della fede. Nell'interpretazione
della Trinità, Gregorio si avvalse del principio
di essentia (ousia) che vuol dire anche sostanza. «Se
il nome di Dio, egli dice nel trattato Adversos Graecos, significa la persona, necessariamente,
parlando di tre persone, parliamo di tre
divinità. Ma se il nome di Dio indica l'essenza.
noi possiamo riconoscere che c'è un unico
Dio perché una sola è l'essenza delle tre
persone. Ora in realtà il nome di Dio indica
l'essenza divina. E' una consuetudine abusiva
del linguaggio quella di indicare, col plurale
del nome che significa la natura comune,
gli individui molteplici che partecipano
di esso.» (14) Analogamente, in Anselmo
ciò che conta è l'essenza divina condivisa da tre persone differenti ma,
con le medesime proprietà, la prima delle
quali è l'eternità. Dove Anselmo superò abbondantemente
Gregorio sul piano speculativo fu nella definizione
del Verbo, ovverossia del Logos-Figlio. Esso
appartiene sia alla dimensione del creatore
che a quella della creatura. Il Logos è l'intelligenza
che Dio ha di sé. Non può che esere coeterno
al Padre perché, se così non fosse, si direbbe
che il Padre creatore è un incosciente. Allo
stesso tempo, è anche il Verbo delle creature.
«Con un solo e medesimo Verbo il Sommo
Spirito dice sé stesso e tutte le cose create.»
(Monologion, 33) Se le creature si presentano mutevoli
e difformi, sono tuttavia immutabili nella
loro essenza e trovano il loro fondamento
nel Verbo. (Monologion, 34) Il Verbo, pur condividendo l'essenza
con il Sommo Spirito, si distingue da esso.
Devono essere due, anche se è difficile esprimere
in qual modo lo siano. La verità sta nella
scoperta delle relazione reciproca, una sorta di dialettica interna
alla medesima sostanza. Saremmo così al Vangelo
di Giovanni: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se il Padre, che Anselmo continuò a chiamare
Sommo Spirito, si riconosce e si intende
nel Figlio, deve anche amarsi e parimenti
amare le creature. L'amore è lo Spirito Santo.
(Monologion, 57)
Con metafora ciclistica, siamo qui giunti
al termine della prima
tappa dell'itinerario
percorso da Anselmo. Un
percorso ascendente
dalle creature al creatore.
La seconda, non
meno impegnativa, porterà
al riconoscimento
della presunta necessità
del pensiero di
trovare l'ente di cui non
si può pensare
nulla di maggiore. Ciò
fu l'oggetto del Proslogion.
(continua)
Note
1) Ernesto Buonaiuti - Storia del cristianesimo - Newton Compton 2002
2) Buonaiuti, cit.
3) Anthony Kenny - Nuova storia del pensiero filosofico / Medioevo - Einaudi 2012
4) Kenny, cit.
5) Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo - La Nuova Italia Editrice - prima edizione
1983
6) Gilson, cit.
7) Gilson, cit.
8) Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e
Massimo Parodi - Storia della filosofia medioevale - Laterza 2002
9) Nicola Abbagnano - Storia della filosofia / La filosofia medioevale - volume secondo dell'edizione TEA su licenza
UTET 1999
10) Gilson, cit.
11) Gilson, cit.
12) Gilson, cit.
13) Fumagalli Beonio Brocchieri
e Parodi,
cit.
14) Abbagnano, cit.
moses - agosto 2013
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Anselmo d'Aosta con informazioni dettagliate
sulla biografia
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