Tommaso d'Aquino: bozza d'una biografia non
autorizzata
«Questo è il senso dell'autorità riconosciuta
ad Aristotele da Alberto Magno. Oggi noi
diciamo che il pensiero del Medioevo, sottoponendosi
a quello del filosofo greco si asserviva;
bisogna dire, invece, che si liberava. Ammettere
che questo pagano era l'autorità suprema
in certi campi, pur escludendolo esplicitamente
da altri, significava togliere alla rivelazione,
nel caso che avesse voluto rivendicarla per
sé, l'autorità concessa al filosofo.»
(Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo)
La nostra ricostruzione si apre (e si concluderà)
con la testimonianza del segretario (socius) posto a disposizione di Tommaso d'Aquino
dall'Ordine dei predicatori, ben prima che
le energie cominciassero a scemare. Reginaldo
da Piperno, questo il nome del socius, la rese a Bartolomeo da Capua. Sul finire
del 1273 Reginaldo incitò Tommaso a scrivere
ancora. Quello rispose: «Reynaldo,
non possum, quia omnia quae scripsi videntur
michi palee.» Le mie opere sembrano
paglia. Sofia Vanni Rovighi commentò: «Anche
per chi voglia attribuire una parte di questa
testimonianza al senso medievale del miracoloso
resta, con un sigillo di autenticità. il
senso della pochezza e quasi della vanità
della propria opera che un uomo profondamente
religioso, come era certo Tommaso d'Aquino,
doveva provare di fronte al mistero della
morte e della speranza di un incontro con
Dio.» (1) Questa autodichiarazione
di fallimento rese e rende una vera giustizia
a Tommaso, forse più che il cumulo impressionante
dei suoi scritti. Rispetto al commento di
Vanni Rovighi, si potrebbe aggiungere che
oltre al senso della morte, è legittimo pensare
a ciò che Tommaso rammentava assai bene:
come giudicate sarete giudicati. Ed è nell'imminenza
del trapasso che l'ombra del timore del giudizio
divino comincia a prendere forma e sostanza
nell'intimo della coscienza. Bisognerebbe
essere ottimisti su ciò che aspetta tutti
i mortali nell'al di là. Come lo fu Anselmo
d'Aosta. Potrebbe esser vero che ci attende
il migliore, il più grande, il più giusto,
il più misericordioso? In alternativa all'ottimismo,
non ci possono stare mezze misure; c'è il
nulla. Ci si spegne come si spengono le macchine.
Si diventa materia da rottamare, o bene che
vada oggidì, da riciclare con trapianti d'organo.
Il pensatore razionale non può non essere
passato per questa fase, ed è legittimo supporre
che vi sia transitato anche Tommaso d'Aquino,
terminando come pessimista circa il valore
della propria opera, ma ottimista sull'esistenza
dell'al di là, sulla sopravvivenza dell'essenza,
nonostante lo spegnimento dell'ente composto
di materia e di spirito intellettivo. La
ragione naturale può arrivare fin qui nel
supporre una soluzione ottimistica al problema,
o forse all'incubo, dell'eternità dell'essenza
umana individuale. Si è chiamata fede ciò
che in realtà è una speranza che può nascere
in tutti gli esseri umani. La fede, se rettamente
intesa come fedeltà alla parola di Dio, potrebbe
e dovrebbe ridurre i confini della speranza
indifferenziata ed illusoria. Non tutti vanno
in paradiso, come Dante Alighieri tenterà
di raccontare in versi volgari. Ma sulle
"convergenze" tra la teologia di
Tommaso e quella di Dante non conviene investire
grandi attese. Il grammatico "pedante"
nemico giurato di Giordano Bruno potrebbe
scovare un oceano di anomalie e asimmetrie.
Il nome di Bruno non è fuori luogo. Si dichiarò
ammiratore dell'aquinate e lo affermò come
"grande mago". Dichiarazioni che
andrebbero prese con molta cautela e che,
tuttavia, rischiano di riaprire un supplemento
d'indagine ogni qualvolta se ne trova traccia.
Si tenga anche conto che quando venne il
momento di beatificare Tommaso, fu impossibile
trovare testimonianze di guarigioni miracolose.
Aveva letto i trattati di Avicenna, probabilmente
anche i più vicini a quelle che oggi si potrebbe
chiamare capacità telepatica di suggestionare,
ma non li aveva condivisi. A dispetto del
fantasioso e farraginoso Bruno, qui si è
preferito seguire un'altra pista. La faccia
nascosta di Tommaso, quella che non trapela
distintamente dai suoi scritti, non è quella
del mago, ma quella dell'uomo sconcertato
dalle vicende "politiche" della
Chiesa temporale, stato fra gli stati, con
un suo esercito, con i suoi spesso malaccorti
strateghi ed una vastissima collezione di
scheletri nell'armadio. Negli ultimi anni
trascorsi a Napoli, nello studium generale dell'Ordine dei predicatori, egli era finito
nel dominio dell'uomo che si era fatto beffe
dei Papi e dei cardinali: l'astuto Carlo
d'Angiò. E' impossibile credere che le notizie
che giungevano quotidianamente dal "mondo
là fuori" non abbiano contribuito al
maturare di quella autodichiarazione di fallimento.
Domenicano non per accidente, uomo di pensiero
e non d'azione
Tommaso nacque in un anno rimasto imprecisato,
probabilmente il 1225, a Roccasecca. Era
l'ultimo nato dei numerosi rampolli d'una
famiglia aristocratica, appartenente alla
media nobiltà feudale. Venne avviato dai
genitori ad una carriera ecclesiastica: alla
sola età di cinque anni entrò nel monastero
di Montecassino dove ricevette i primi rudimenti
del trivium e del quadrivium. Saggia decisione fu quella del padre di Tommaso
di inviare successivamente il figlio a studiare
all'università di Napoli, data l'insicurezza
nella quale si svolgeva la vita nell'abazia,
occupata militarmente dalle truppe di Federico
II. Fu a Napoli che Tommaso ebbe chiaro che
il suo futuro non sarebbe stato quello del
monaco benedettino. Entrò in contatto con
insegnanti come Martinus di Dacia, docente
in "grammaticalibus et logicalibus",
e Pietro d'Irlanda, docente in "naturalibus",
mentre rimaneva impressionato dal modo di
vivere e di insegnare dei domenicani, l'ordine
religioso istituito da Domenico di Guzman,
celebrato soprattutto per aver predicato
in mezzo agli "eretici" càtari
senza timore e senza ricorrere a violenze
ed inquisizioni, seppur imbelle spettatore
di violenze. Per un temperamento come quello
del giovane Tommaso, l'esempio di Domenico
costituì un richiamo assai forte. Non c'è
bisogno di sfrondare la sua figura dagli
elementi apologetici degli autori che scrissero
di lui. Già si presentava, da sé, come uomo
di fede e di cultura, ed anche di ordine
e di regole. Contrariamente a Francesco,
predicatore di umiltà e di diffidenza nei
confronti della boria dei sapienti, Domenico
affermava la necessità del sapere e l'umiltà
di diffonderlo con spirito di servizio. Erano
(sono) due vie inconciliabili? A lume di
naso, la proposta domenicana appariva la
più indicata, non solo per la banalità -
mai sufficientemente ripetuta - che sapere è potere, ma perché il sapere consente di predicare
con maggiore autorità ed efficacia. Il sapere
è la conditio sine qua non si arriva a centrare alcun obiettivo. Un
individuo ignorante è utile al mondo come
oggetto di osservazione antropologica e psicologica
per chi sa. Il francescano Ruggero Bacone
ricorderà che i dotti troppo spesso disprezzano
scioccamante i saperi degli ignoranti, ma
anche Bacone era un dotto.
Il punto debole delle convinzioni
di Domenico
potrebbe essere individuato
nella finalizzazione
dello studio. Non si studia
per amore del
sapere in sé, ma per il
dovere di sostenere
la dottrina cattolica ed
il magistero della
Chiesa. Se sia corretto
farne una causa finale in senso schiettamente aristotelico è ancora
da discutere. Per lo stagirita l'acquisizione
del sapere aveva diverse finalità - ad esempio,
il dotarsi di argomenti per non recitare
la parte dello sprovveduto nelle discussioni
come nei Topici - diventando poi piacere in sé, amore per
lo studio e la contemplazione come nella
Metafisica.. Per Domenico, lo studio era finalizzato
al potenziamento della predicazione, ad abbattere
la non verità delle dottrine eterodosse.
Indubbiamente, Tommaso fu colpito da questa
impostazione, ma incominciò a considerare
anche quelle date da Aristotele perché la
ritrovava in se stesso.
Domenico era già stato santificato, nel 1234,
con azione molto tempestiva. Purtroppo, ad
essa si era accompagnato l'affidamento all'ordine
dei predicatori di compiti d'inquisizione.
Undici anni dopo toccò ai francescani ricevere
il mandato ed essi lo accettarono. Non risulta
che Tommaso si sia mai prestato a simile
funzione. Tuttavia, nella Summa theologiae egli arrivò a scrivere che gli eretici devono
essere separati dalla Chiesa mediante la
scomunica, ed esclusi dal mondo con la morte.
(Summa Th, IIª-IIae q. 11 a. 3 s. c.) Il passo incriminato è nello specchietto
qui a fianco.
Nonostante questo passaggio feroce, sono
ancor molti ad essere convinti che al giro
di vite egli abbia opposto l'unica arma difensiva
di cui poteva disporre, scegliendo di lavorare
all'allargamento dei diritti della ragione,
pur rimanendo sotto l'ombrello protettivo
della "fede". Per stabilire se
egli sia riuscito a trasformare anche la
"fede", bisognerebbe accordarsi
su che potrebbe significare "fede"
sotto il profilo dell'eternità e della continuità
del concetto. Cosa che abbiamo cercato di
evidenziare in sede introduttiva. Con Tommaso,
non si va oltre l'orizzonte del magistero
ecclesiastico e dell'interpretazione della
rivelazione contenuta nella Bibbia da parte
di alcuni esegeti privilegiati da Tommaso
stesso. Ma lo sforzo di ricucire la rivelazione
alla ragione naturale ed al "buon senso"
comune è certamente l'apporto più caratteristico
del suo instancabile lavoro. Coloro che lo
hanno criticato, generalmente hanno puntato
il dito contro l'eccessiva moderazione del
suo pensiero, quell'aristotelica ricerca
del "giusto mezzo" che in definitiva
ha rimosso la componente apocalittica del
cogito cristiano, ben altrimenti presente in Agostino:
l'eterno conflitto tra la "città dell'uomo",
il com'è, e la "città di Dio", il come dovrebbe essere. Ma è certamente frutto di un abbaglio considerare
il pensiero dei francescani come originario
ancoraggio all'eredità agostiniana. Francesco
non lesse Agostino, non lo conobbe, non lo
meditò. Furono alcuni francescani a riscoprirlo,
per quell'istinto innato che spinge gli individui
a risalire alle origini, a scoperchiare i
pozzi di antiche saggezze.
Tra l'itinerario scelto da Tommaso e le spinte
profonde presenti nella società "cristiana"
è più agevole rinvenire una specie di alter ego in Raimondo Lullo, nato una decina d'anni
dopo Tommaso e di carattere assai diverso.
Vero uomo d'azione, fu studioso di logica
e di mnemotecnica, coltivò conoscenza e ragione,
ma si distinse per l'irruenza e la determinazione
tipica dei primi predicatori cristiani. S'era
proposto di convertire i tartari. Il suo
modello fu sicuramente Paolo, ed è strano
che il più "domenicano" tra tutti
gli autori noti di questo periodo, abbia
preferito agire a lungo da isolato anziché
assoggettarsi all'ordine dei predicatori.
Finì ugualmente col consegnarsi ad un ordine,
ma scelse quello dei terziari francescani.
Prima sequestrato dai fratelli, poi allievo
di Alberto Magno, infine subito baccalaureus biblicus a Parigi
Negli anni trascorsi a Napoli, è quasi certo
che Tommaso ebbe la possibilità di leggere
e meditare le opere di Aristotele tradotte
dall'arabo da Michele Scoto. Tra queste,
il De coelo, il De anima e dieci libri della Metafisica. Soprattutto gli ultimi due sono ancor oggi
testi che possono impressionare la sensibilità
degli adolescenti, ma ai tempi di Tommaso,
anche il De coelo era molto promettente. Dopo quattro anni
di studi, Tommaso cercò di raggiungere Parigi
al seguito di Giovanni il Teutonico, maestro
dei domenicani, ma i suoi fratelli, guidati
da Rinaldo d'Aquino, gli sbarrarono il passo
e lo riportarono a Roccasecca. La famiglia
- ma il padre era morto - non riusciva a
digerire la scelta di Tommaso ed esercitò
varie forme di pressioni fisiche e psicologiche
per farlo recedere. Solo quattro anni dopo
riuscì a riconquistare la libertà e partire
per Parigi. O, forse, direttamente per Colonia,
dove insegnava Alberto Magno. E' certo che
soggiornò a Colonia dal 1248 al 1252. Fu
in questo periodo, sotto la guida del maestro
Alberto dei conti di Bõllstadt, che
Tommaso maturò pienamente. Non si deve cadere
nell'errore della clonazione nemmeno nei
confronti di Alberto Magno. Questi fu temperamento
assai più estroverso e coraggioso, davvero
un apripista, un maestro con doti da tribuno.
Probabilmente, un po' approssimativo. Gilson
riporta una sua affermazione, che vorrebbe
presentarsi come un esempio di razionalità,
e che invece solleva più di un dubbio: «Quando
essi sono in disaccordo, bisogna credere
ad Agostino piuttosto che ai filosofi in
ciò che concerne la fede e i costumi. Ma
se si trattasse di medicina io prenderei
piuttosto Ippocrate o Galeno; e se si tratta
di fisica io credo ad Aristotele perché egli
conosceva la natura nel modo migliore.»
(2) O Ippocrate o Galeno? E sulla fisica
di Aristotele già circolavano dubbi non strettamente
teologici, provenienti dagli scritti di Giovanni
Filopono allora disponibili. Lo stesso Tommaso,
come si vedrà in articoli d'approfondimento,
preferirà seguire la spiegazione formulata
da Avicembron e divulgata da Averroè circa
il movimento locale dei corpi. Comunque sia,
quello di Alberto era autentico entusiasmo
per la filosofia, considerata via regia per
giungere ad una razionale suddivisione ed
organizzazione dei saperi. Era una nuova
epistemologia, un rinnovato tentativo per
tornare a soggiogare la terra, com'era scritto in Genesi. Questi insegnamenti, secondo Gilson, incontravano
resistenze nello stesso ordine domenicano,
e quindi anche a Colonia. Lo storico può
lavorare d'immaginazione, ma non può permettersi
di esagerare, come fanno gli scrittori di
best sellers. E' lecito immaginare animate discussioni,
ma non inventarsele di sana pianta. Tommaso
generalmente taceva ed i confratelli lo soprannominarono
il "bue muto". Ma quando parlava,
arrivava al nocciolo delle questioni con
raro acume.
Alberto ebbe modo di apprezzare le qualità
di Tommaso e lo scelse tra un certo numero
di allievi per quello che si direbbe oggi
un posto da assistente. E lo inviò a Parigi
in risposta alla richiesta ricevuta dai domenicani
locali. Qui, sotto la tutela del magister, frate Elia di Provenza, Tommaso lesse e
commentò pagine della Bibbia, per poi passare
nei due anni successivi a spiegare le sentenze
di Pier Lombardo in qualità di baccalaureus sententiarius. Finalmente, nel 1256, ebbe la possibilità
di diventare magister.
Tommaso si era accorto subito delle tensioni
che attraversavano il mondo universitario
parigino. In pratica, come sottolinea Anthony
Kenny, si era trovato ad esordire come insegnante
in veste di "crumiro". (3) Nel
1252, infatti, era in corso una protesta
dei maestri delle arti che lo investiva direttamente.
Non volevano riconoscergli il diritto di
insegnare in quanto designato da un ordine
religioso.
I maestri delle arti in sciopero, la disputa
sul diritto alla cattedra e l'eccesso di
dispute
Si potrebbe parlare di protesta sindacale,
o più propriamente, di protesta corporativa,
ma la sostanza non cambia: i maestri secolari
delle arti, tra cui anche numerosi sacerdoti,
non riuscivano a sopportare che a francescani
e domenicani fossero garantite delle cattedre
"a prescindere" dai meriti accademici.
Il problema era particolarmente spinoso perché
non era chiaro, oggettivamente, quale fosse
l'autorità a cui rivolgere la protesta. Ricorrere
al papa, come in effetti accadde, avrebbe
potuto significare la rinuncia a quella autonomia
a cui alcuni maestri tenevano maggiormente.
D'altra parte, c'è da considerare che le
lezioni dei domenicani e dei francescani
si tenevano in sedi separate. L'aula di Tommaso
era collocata all'interno del convento dei
domenicani in rue St Jacques. Tuttavia, come
sottolinea Sofia Vanni Rovighi, «il
fatto di avere nella corporazione dei professori
certi membri legati con voto di obbedienza
ad un'altra istituzione - il loro Ordine
- non poteva piacere ai maestri del clero
secolare, tanto più che, secondo quanto ammetteva
lo stesso capo dei secolari, Guglielmo di
Saint Amour, le loro lezioni incontravano
grande favore tra gli studenti.» Il
che sotto un profilo realmente critico, non
avrebbe dovuto avere rilevanza decisiva.
Risultare popolari e graditi ai tanti goliardi
da Carmina burana che frequentavano non dovrebbe esser considerato
né merito, nè demerito, ma solo un fatto,
un dato statistico su cui riflettere. Le
motivazioni per cui un giovane, ed anche
un individuo più maturo, decide di seguire
un maestro, possono coincidere, ma non necessariamente,
con gli obiettivi che si propone il maestro.
La primitiva intenzione dell'allievo potrebbe
divergere dall'intenzione di chi insegna.
Il primo cerca conferme e giustificazioni
al proprio comportamento istintivo ed alle
esternazioni più baldanzose, il secondo tenta
di riportare l'allievo a riconsiderare i
propri istinti, a comprenderli, ma non a
giustificarli. C'è però da sottolineare un
fatto importante: le lezioni di Tommaso in
rue St. Jacques richiamavano i giovani perché
presentavano contenuti piuttosto arditi in
materia "politica". In barba alle
raccomandazioni tradizionali della sottomissione
dei cristiani, vi si prospettava la possibilità
di scacciare i tiranni, come si vedrà più
avanti. Cose da "maggio francese".
Ciò non impedisce considerazioni diverse:
era lo stesso sistema delle dispute, comune
sia ai secolari che ai frati, a potenziare
l'atteggiamento competitivo, e perciò presuntuoso,
degli allievi. Non si scopre l'acqua calda
se si afferma che è vero che la disputa mobilita
tutta l'intelligenza e la memoria degli individui
coinvolti. Epperò occorre vederne i riflessi
negativi. Nelle dispute non è mai certo che
chi vince abbia ragione. Anche la contesa
filosofica non è un'ordalia. Il vangelo consigliò
di non occupare i primi posti nelle sinagoghe,
le correnti filosofiche del XIII secolo e
i loro metodi pedagogici istigavano a fare
gara continua per arrivare primi. Era il
maestro a decretare la vittoria di una tesi
sull'altra, ma quanti furono i maestri a
cadere in piena confusione? Più che ad una
partita di scacchi, un gioco nel quale non
serve un arbitro, avendo regole rigide, le
sentenza dei maestri tendevano a giochi diversi,
con regole assai meno certe, e tendenzialmente
discutibili.
A noi resta che il secolare
Guglielmo di Saint Amour, insoddisfatto delle
decisioni prese dal pontefice romano, scese
ancora nell'arena con lo scritto De periculis novissorum temporum, nel 1255, a cui replicherà Tommaso, nel
1257, con l'opuscolo Contra impugnantes Dei cultum et religionem. L'attacco di Saint Amour non si limitò
a questioni di diritto accademico, andò a
colpire lo stile di vita e le regole degli
Ordini. A suo parere costituivano un pericolo
per la società e per la stessa Chiesa, una
degenerazione etica inaccettabile. Questa volta papa Alessandro
IV, con la bolla Quasi lignum vitae del 4 aprile 1255, prese inderogabilmente
posizione a favore dei frati, ovvero diede
ragione a Tommaso ed al diritto acquisito
dai domenicani (e dai francesani). Ma Guglielmo
di Saint Amour non si diede per vinto. Sicchè,
ancora nel 1256, Alessandro IV dovette ordinare alla facoltà
di teologia di ricevere «in societatem
scolasticam et ad Universitatem Pariseniensem»
i frati Predicatori domenicani e Minori,
ossia i francescani, ovvero Tommaso d'Aquino
e Bonaventura da Bagnoregio. Solo alla fine
del 1256, dopo un'ansiosa contesa, a Tommaso
fu riconosciuto il diritto al magistero.
Di cui usufruì per appena tre anni perché
questa era la consuetudine. Non si può escludere,
tuttavia, che la decisione di tornare in
Italia sia stata dettata dall'Ordine stesso
a causa del precipitare degli eventi. La
Chiesa in Italia era in gravissime difficoltà
ed occorreva mobilitare tutte le risorse
per evitare il suo naufragio.
Cosa resta del primo periodo (1252-1259)
di insegnamento a Parigi?
In pochi anni Tommaso riuscì a produrre un
numero notevole di scritti: il De ente et essentia, il commento al De Trinitate di Boezio (sotto veste di quaestiones), le Quaestiones disputatae de veritate, buona parte delle Quaestiones quodlibetales. Probabilmente, cominciò, ma non terminò,
la Summa contra Gentiles. Gli studiosi sono generalmente concordi,
tuttavia, nel riconoscere opera più significativa
il De ente et essentia, forse composto tra il 1254 e il 1256, o
addirittura negli anni di Colonia. Le idee
qui esposte da Tommaso rimarranno punti fermi
del suo insegnamento e molti storici della
filosofia lo riterranno come il tratto distintivo
di tutta l'opera successiva, la sua base
metafisica. Nicola Abbagnano lo paragonò
al Discorso sul metodo di Descartes. Ma, motivò la sua importanza
per ragioni del tutto diverse. «...
Tommaso stabilisce il principio fondamentale,
che, riformando la metafisica aristotelica,
la rende adatta all'esigenza del dogma cristiano:
la distinzione reale dell'essenza e dell'esistenza.»
(4) Anthony Kenny sembra ridurne l'importanza,
vedendovi solo un punto di avvio per la riflessione
successiva. (5) L. Rougier (La scolastique et le thomisme, 1925) «vede nella distinzione reale
tra essenza ed esistenza nelle creature il
punto fondamentale delle filosofia tomistica
e la ritiene insostenibile.» Rougier
lo bollò come il più «prodigioso pseudoproblema
che abbia mai ossessionato lo spirito umano:
quello dell'accordo tra il razionalismo ellenico
e i dogmi delle tre grandi religioni mediterranee.»
Valutazione nutrita di neopositivismo evidente.
I giudizi sul De ente et essentia sono così vari e diversamente motivati che
non resta che tentare di capirlo con mente
libera da pregiudizi, tenendo presente che
tra gli stessi seguaci di Tommaso si verificheranno
non poche divergenze.
Gli abbozzi della Summa contra Gentiles, che Tommaso completerà in Italia, hanno grande
importanza perché tentavano di tracciare
una cintura protettiva nei confronti dei
dogmi del cristianesimo esposti alla critica
del sapere greco-arabo. Non rifiutarsi al
confronto - insegnava Tommaso - ma dotarsi
di un programma antivirus. La Summa contra Gentiles impedisce di considerare Tommaso un aristotelico
disinvolto e spregiudicato e, soprattutto, un averroista.
Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri
e Massimo Parodi richiamano la tesi generalissima
e vagamente grossolana del "confronto
(scontro?) tra civiltà" presente nella
ricostruzione di P. Chenu. D'altra parte,
il titolo stesso (contra gentiles) non è casuale. Per Chenu: «... la
cristianità doveva affrontare l'Islam sotto
due aspetti: sul piano missionario la stretta
degli Arabi in Spagna si era allentata e
questo rendeva possibile una crociata dottrinale;
[...] intellettualmente poi la civiltà araba
che portava con sé il capitale della scienza
e della filosofia greca rappresentava insieme
una minaccia e un'attrattiva [...] L'opera
di Tommaso si presenta [...] come la difesa
dell'intero corpo della dottrina cristiana
di fronte alla concezione scientifica greco-araba.» (6) Tesi che per chi conosce veramente l'insieme
della filosofia araba del Medioevo risulta
sostenibile solo alla luce di una parziale,
ma decisiva ignoranza. Non era questa un
corpo compatto, ma una pluralità di posizioni
facilmente equivocabile, al punto da arrivare
a confondere le idee di Al Ghazali con quelle
di Avicenna. Equivoci dovuti alla mancanza
di conoscenza dei trattati scritti da Al
Ghazali contro i "filosofi". Testi
che potevano semmai essere avvicinati alle
idee professate dal cristianissmo Bernardo
di Clairveaux.
Diversamente dalla tesi
espansionista di Chenu, si può ragionevolmente pensare
che Tommaso abbia mirato a contenere i danni
inevitabili derivanti da un dialogo troppo
spinto con i testi di Averroè. Guardando
al maestro - Domenico di Guzman - si potrebbe
dar ragione a Chenu: il predicatore della
verità cristiana osa spingersi in mezzo agli
"infedeli" con la voce della ragione,
il logos di Giovanni l'Evangelista. Guardando al Tommaso
concreto - quello che risulta dai suoi scritti
- non si sfugge alla sensazione di un continuo
richiamo alla prudenza, alla distinzione
aristotelica tra coraggio e temerarietà.
Qualcosa che non può essere il frutto di
un calcolo, nemmeno di un friabile calcolo
sulle probabilità. Dunque anche un rinvio
al Vangelo di Matteo: prudenti come serpi
e candidi come colombe. Ma, senza alcuna
garanzia che la prudenza serva a salvare
la vita in assoluto.
Non meno importante appare la raccolta di
commenti alle sentenze, i Sententiarium. In essi si incontrano le prime, e probabilmente
immature, convinzioni politiche di Tommaso.
D'altra parte esse verranno duramente sfidate dalla conoscenza diretta della realtà
italiana. A Parigi, Tommaso era realmente
convinto della doppia obbedienza che si deve
all'autorità civile ed a quella religiosa,
nelle due sfere distinte poste dallo stesso
Vangelo: Cesare e Dio. Ma, allo stesso tempo,
Tommaso non rinunciava a ragionare in termini
di "buon senso" aristotelico. Inoppugnabile era la tesi dell'indipendenza
della Chiesa dall'autorità civile, ma si
parlava di Chiesa cristiana e non di qualsiasi
religione. Discutibile era quale tipo di
supremazia potesse esercitare l'autorità
religiosa su quella civile. Tommaso difese
l'istituzione e prestò scarsa attenzione
alla qualità umana di chi svolgeva la funzione
istituzionale. E' questo che rende possibile
un'accusa di ideologismo alle elaborazioni dell'aquinate. Tommaso, come evidenziato da Etienne Gilson,
prese nettamente partito per la supremazia
istituzionale del papato sulle autorità civili,
pur sforzandosi di mantenere distinte le
sfere d'influenza, ma aggiunse la liceità del potere temporale
della Chiesa. Infatti: «Poiché sia
il potere spirituale che quello secolare
derivano dalla potestà divina, il secondo
è subordinato al primo nella misura in cui
ve lo ha sottoposto Dio, ossia in quelle
cose che concernono la salvezza dell'anima.
Se dunque in questa sfera si deve obbedire
all'autorità spirituale piuttosto che a quella
secolare, in ciò che riguarda il bene civile
si deve invece anteporre l'autorità secolare
a quella spirituale, come è detto in Matteo,
22, 21: "Date a Cesare quello che è
di Cesare". A meno che, tuttavia, il
potere secolare non sia alleato col potere
spirituale, come nel Papa, che occupa il
vertice dell'uno e dell'altro potere ("sicut
in papa, qui utriusque potestatis apicem
tenet"), cioè del secolare e dello spirituale,
come ha disposto Colui che è sacerdote e
re; sacerdote per l'eternità secondo l'ordine
di Melchisedecco (sic!) re dei re e signore
dei signori, al quale non sarà tolto il suo
potere e il suo regno non avrà sarà distrutto
nei secoli dei secoli. Amen.» Questo
monumento di retorica guelfa si trova in
II Sententiarium, 44. (7) Oltre a tutto non era un pensiero
originale. Di fatto ricalcava una lettera
di Papa Innocenzo III a Giovanni Senzaterra
sicuramente nota negli ambienti degli studiosi
in quanto rappresentava l'apogeo della Chiesa
temporale e la dottrina di Cristo sacerdote
e re. Tommaso tornò in Italia convinto della
liceità del potere temporale della Chiesa
e dell'esistenza di un papa-re. D'altro canto,
sempre in II Sententiarium, troviamo il passaggio che tantò impressionò
i giovani parigini che accorrevano alle sue
lezioni nel convento dei domenicani. "Scacciare"
i tiranni è legittimo. Il popolo è chiamato
a rispettare i governanti secolari «nella
misura in cui il loro potere viene da Dio
e non in quegli aspetti del loro dominio
che non hanno origine divina.» (8) Tommaso si era dunque permesso di superare
sia le epistole paoline che la prima lettera
attribuita a Pietro. Una possibile combinazione di queste due
sentenze potrebbe dare che è legittimo rovesciare
i tiranni se si gode dell'appoggio papale
e dell'ordine di Melchisedek.
Tommaso "conosce " le dinamiche
della politica
Tommaso, tornando in Italia, ebbe modo di
constatare lo stato di grave crisi in cui
versava il potere temporale della Chiesa,
con gravissimi riflessi sul piano del magistero
spirituale. Più i pontefici si affannavano
per tentare di recuperare e restaurare il
potere perduto, più la credibilità spirituale
scemava. Pensare di rialzarne le sorti solo con insegnamenti, scritti e dispute che
non andavano contro la prassi politica seguita
dalla curia romana, rinunciando a metterla
esplicitamente in discussione, significava
consegnarsi alla più classica impotenza della
filosofia, quella di Platone nei confonti
degli ateniesi, quella di Aristotele nei
confronti dell'unità della Grecia, quella
di Seneca in rapporto al potere assoluto
del dissoluto Nerone. Tommaso, come si è
detto, non era uomo d'azione, e nemmeno individuo
in grado di suscitare entusiasmi. Riservato
e taciturno, il "bue muto", era
consapevole dell'insanabile scissione tra
"com'è" e "come dovrebbe essere".
Man mano che prendeva confidenza con la situazione
italiana, questa consapevolezza cresceva
ed insieme ad essa si sviluppava il senso
d'impotenza dell'insegnante e dello scriba.
Parlare di "malessere" in senso
psicologico non è inappropriato.
Per circa un decennio l'aquinate continuò
prevalentemente ad insegnare in corsi organizzati
all'interno dell'Ordine dei predicatori,
in centri come Anagni ed Orvieto, poi Roma.
L'ipotesi di una università pontificia, lo
studium che seguiva il Papa nei suoi spostamenti,
non ha trovato d'accordo gli studiosi. Quando
Tommaso giunse a Roma, entrò in una città
che aveva esiliato il Papa. Si può quindi
provvisariamente concludere sul fatto che
i corsi tenuti da Tommaso si svolsero all'interno
di un "centro studi" al servizio
di un "centro decisionale": la
curia pontificia. Ma il centro studi non
aveva bisogno di lasciapassare, potendo insediarsi
anche in territori giuridicamente posti sotto
altri domini. Il destino dell'aquinate sembrava
confermarsi come condizione di doppia obbedienza, sia all'ordine che all'autorità ecclesiastica.
Il rapporto era così stretto, tuttavia, che
si fatica a credere alla totale estraneità
di Tommaso e dei domenicani alle scelte politiche
del Papa e della curia cardinalizia. Ciò
si potrebbe configurare come un crescendo
di errori in termini di strategia politica
(e militare) e da un unico gravissimo errore
sul piano del magistero spirituale, il quale
non può essere imposto né con le armi nè
con la diplomazia. Rospi da ingoiare quotidianamente.
Disastri su disastri, eppure si insiste
Il primo papa con cui ebbe a che fare Tommaso,
giunto in Italia, fu Alessandro IV, lo stesso
che lo aveva sostenuto nella disfida per
la cattedra parigina. Tommaso gli doveva
gratitudine. Ma questo papa, in senso strettamente
politico si era rivelato disastroso, al punto
di aver perso perfino il controllo di Roma,
amministrata dal senatore Brancaleone degli
Andalò, originario di Bologna, con l'appoggio
dell'aristocrazia economica e senatoriale
romana. L'ossessione di Alessandro IV era
Manfredi di Svevia, figlio naturale di Federico
II, riconosciuto ed incoronato re a Palermo
da diversi arcivescovi che se ne erano infischiati
delle direttive della curia romana. Dopo
la battaglia di Montaperti del 1260, tra
senesi sostenuti da un forte contingente
di cavalieri inviati da Manfredi e una coalizione
di guelfi guidati dai fiorentini, i comuni
guelfi passarono in buona parte ai ghibellini,
compresa la fedelissima Milano. Le maggioranze
si rovesciarono e divennero minoranze. Ampie
zone della Romagna, il ducato di Spoleto
e la marca di Ancona caddero nella sfera
di egemonia di Manfredi. Tommaso giunto alla
residenza papale, a Viterbo, alla vigilia
di una catostrofe militare, cui seguì in
un clima di disfacimento. Il potere temporale
della Chiesa era ai minimi termini. In ambienti
superstiziosi ciò veniva visto come un segno
del giudizio divino sulla Chiesa stessa.
Alessandro IV morì a Viterbo nel 1261. Gli
successe un francese di umili origini, Jacques
Pantaleon, un uomo che s'era davvero fatto
largo in mezzo alla concorrenza grazie a
particolari abilità ed indubbia fortuna.
Aveva studiato a Parigi, era stato nominato
vescovo, poi legato in Germania, perfino
patriarca di Gerusalemme. La sua elezione
a Viterbo, dopo quattro mesi di "fumate
nere", coincise con la vittoria del
partito francese presente nella curia, e
con l'investimento su Carlo D'Angiò, fratello
del re di Francia, considerato come la più
sicura alternativa a Manfredi. (9). Pantaleon
assunse il nome di Urbano IV. Manfredi era
contestato come erede legittimo anche dal
ramo tedesco della famiglia Hohenstaufen,
che sosteneva il diritto di Corradino. Lo
scenario era quindi complicato dalla presenza
sul campo di almeno quattro soggetti più
pesanti degli altri, e dall'attività, relativamente
autonoma, di tanti soggetti quali i comuni,
le contee, i ducati, le marche e così via,
disposti a schierarsi in ragione di convenienze
particolari e di come "tirava il vento".
Le divisioni attraversavano i singoli comuni
e in ognuno di essi vi erano almeno due partiti,
quello guelfo e quello ghibellino. Si verificarono
diversi episodi di scontri armati tra le
fazioni anche nelle città. La scelta filofrancese
ebbe conseguenze decisive soprattutto per
l'Italia meridionale, ma non riuscì a riportare
il papa a Roma, nemmeno Clemente IV, che
nel frattempo era succeduto a Urbano. Carlo
d'Angiò si stava rivelando alleato infido
ed esoso, sicuramente più astuto di tutti
gli strateghi pontifici che avevano creduto
conveniente l'alleanza con simile individuo.
La partita tra Carlo d'Angiò e Manfredi fu
decisa dalla battaglia di Benevento del febbraio
1266, il solito ripugnante bagno di sangue,
Alla vittoria di Carlo d'Angiò non seguì
alcun vantaggio concreto per la Chiesa temporale.
Ma Clemente IV non perse l'occasione per
macchiarsi di una nefandezza. Ordinò di riesumare
la salma di Manfredi per la sua pubblica
esposizione in quanto scomunicato e condannato
alle fiamme eterne.
Domande indecenti e risposte scandalose
Non esiste documentazione storica in merito
al ruolo preciso giocato da Tommaso d'Aquino in questi anni
turbolenti. La storiografia filosofica trascura
di occuparsi di queste vicende come si trattasse
di un'altra storia, di eventi paralleli che
non intaccano la purezza della riflessione
dello studioso. Qui si suggerisce un approccio
diverso. L'ordine domenicano era diventato
organico alla chiesa temporale. La politica ecclesiastica favoriva apertamente
l'ordine, in cambio riceveva la soluzione
ad alcuni problemi dottrinali, ma anche un
indirizzo generale destinato a durare. D'altra
parte, appare fuori luogo accusare l'ordine
dei predicatori di compartecipazione alle
ricchezze ed ai benefici della casta cardinalizia.
La regola era severa e non ammetteva eccezioni.
La questione andrebbe dunque spostata. Perché
tale ostinazione nel servire il potere temporale,
nonostante tutte le severe lezioni della
storia e della cronaca? La risposta può essere
una sola. I domenicani erano convinti che
senza il potere temporale della Chiesa, l'istituzione
spirituale si sarebbe dissolta. E' una spiegazione
difficile da accettare per i duri e puri
come Jacopone da Todi, che verrà tra non
molti anni a scagliare le proprie invettive
contro il perfido Bonifacio VIII, ma lo storico
deve tenerne conto senza abbandonarsi a facili
ironie. Se esistono Vangeli - pur manomessi
e conservati come reliquie, anziché "parola
viva" - e perché la Chiesa come istituzione
seppe conservarsi nella "ignobile"
forma che via via si faceva sempre più detestabile.
Cose che i domenicani non dicevano apertamente,
ma che qualcuno tra loro, in primo luogo
lo stesso Tommaso, deve aver pensato. E se
lo pensò, fu perché scelse di credere in
quel concetto di necessità (non può essere altrimenti) postulato da
Aristotele come caratteristica irrinunciabile
di ogni autentico sapere, proiettandolo nella
sfera della ragion pratica e dell'arte della
politica. Seguendo questa pista, ovviamente, si rischia
di gettare sullo stesso Tommaso l'ombra di
troppi sospetti . Ma, è un rischio che si
deve correre, se si vuole evitare di trasformare
Tommaso stesso in un burattino, l'utile idiota
trinariciuto e manovrato dal potere curiale.
In ogni relazione umana, la categoria dell'utile idiota potrebbe essere facilmente rovesciata. Chi,
o che cosa, serve a chi, o a che cosa? E'
legittimo pensare sia che Tommaso divenne
intellettuale organico alla Chiesa temporale,
il suo ideologo, tanto quanto pensare, all'opposto, che
Tommaso osò credere nella Chiesa temporale
come "veicolo" di un fine più nobile
ed alto. Se non si eseguisse questa specie
di "piroetta mentale", non si capirebbe
mai perché lo stesso Aristotele finì con
l'essere accusato di intollerabili preferenze
per il partito filomacedone. Fu Aristotele
ad asservirsi alla causa di Filippo, e poi
di Alessandro, o viceversa, il filosofo a
credere di poter usare, ed abusare, della
potenza politica e militare dei macedoni
per conseguire un fine più alto? L'aquinate
aristotelico potrebbe spiegarsi con questa
analogia. Ciò porta a considerare il background delle più ferme convinzioni di Tommaso con
un taglio diverso da quello più consueto
nei manuali di storia della filosofia, per
i quali la storia concreta è solo un rumore
di fondo, un disturbo al procedere della
pura ricerca intellettuale. Ma questo disturbo,
alla fin dei conti, logora chi il potere
non ce l'ha, e lo affida ai più improbabili
agenti esterni, come appunto la dinastia
dei macedoni nel caso di Aristotele, o la
curia romana e gli intrallazzi con Carlo
d'Angiò nel caso di Tommaso. Di lì a qualche
tempo, verrà una lezione negativa, quella della rinuncia di Celestino V, che
Tommaso non vedrà, ma che vien facile rappresentare
come l'alternativa. Se si vuole rimanere
"puliti", non venire coinvolti
nemmeno di striscio nella catena di complotti,
delitti, guerre tra le diverse città dell'uomo,
non c'è altra via che il passo indietro e
la strada, forse illusoria, della deresponsabilizzazione.
Purtroppo per lui, Celestino si era spinto
troppo avanti nella via ascendente della
carriera ecclesiastica e il giudizio degli
storici - che spesso si rivelano non meno
stolti di chi pretendono di giudicare - rischia
di risolversi nella categoria della viltà,
o come in Dante Alighieri, in quella di ignavia
(non ragioniam di lor, ma guarda e passa). Buon per Tommaso, insomma, se non venne
mai fatto cardinale, nonostante i meriti
acquisiti. Questo atto mancato da parte di
Urbano IV e di Clemente IV, depone a suo
favore. Su Clemente IV, tuttavia, si potrebbe
esigere un supplemento d'inchiesta. Mentre
credeva di sfruttare il lavoro di Tommaso,
si aprì, non inspiegabilmente, al pensiero
del francescano Ruggero Bacone, grande critico
dell'aquinate, arrivando a chiedergli importanti
contributi e delucidazioni, gesto da apparente
gran sovrano "illuminato" che interroga
tutti i punti di vista.
La verità è che i pontefici devono aver avvertito
in Tommaso un avvicinamento alla "perfezione"
quantomeno inquietante. E se si comprende
che è "perfetto" solo chi è "morto",
ovvero non è coinvolto in particolari giochi
di simpatia-antipatia e passioni per il potere,
si accede anche alla consapevolezza dell'altra
faccia di Tommaso, quella del "dottore
angelico", entrato nella vulgata senza
che alle spalle vi fosse una reale comprensione
del dramma umano di Tommaso. Destino singolare
per chi si era battuto per riaffermare la
doppia natura umana e divina di Gesù contro
tutte le eresie, da quella di Eutiche a quella
di Nestorio, come avvenne nella Summa contra gentiles. Gesù soffrì come uomo, perché io no? E' la domanda che giustamente Tommaso potrebbe
porre a tutti i suoi più ferventi ed unilaterali
sostenitori, od ai suoi critici più spietati.
Rispondendo: altro che angelico!
Senza questo scenario di eventi esterni più
o meno emozionanti e deprimenti, la vita
di Tommaso si riduce a ben poco. Dopo la
reclusione ed i tormenti cui l'assoggetarano
i fratelli e la disputa con il terribile
Saint Amour, seguì un tran tran tra scuola e chiesa, tra meditazione e preghiera.
Un mondo senza televisione. senza divertimenti
e diversivi, salvo le passegggiate e le rare
cene con allievi ed amici. La soddisfazione
della vita era tutta nell'insegnamento e
nel riconoscimento degli allievi. Dall'alto,
cioè dalle autorità ecclesiastiche, gli giunse
ben poco. Tommaso venne direttamente coinvolto
dal pontefice quando ad Urbano IV venne in
testa di estendere la festività del Corpus Domini, già introdotta a Liegi, a tutta la cristianità.
Il papa si rivolse a Tommaso per la sua giustificazione
e per la composizione di inni appropriati
alla solennità. Per anime religiose potrebbe
trattarsi di incarico importante, ma per
il filosofo e forse anche il teologo, era
una quisquiglia, poco più che un piatto di
lenticchie. Probabilmente Tommaso fu realmente
amato, come vero amico, dal solo Reginaldo
da Piperno, uno dei pochi che avvertì la
profonda sincerità dei suoi sforzi.
Urbano IV morì senza poter vedere Roma, ed
anche al suo successore Clemente IV , un altro francese, toccò la medesima sorte.
Carlo d'Angiò non mantenne gli impegni. Fu
solo capace di chiedere continuamente soldi
alla santa sede (che ne disponeva grazie
alle decime versate dalle diocesi periferiche)
e di imporre pesantissmi tributi alle popolazioni
che cadevano via via sotto il suo giogo.
Si comprende perché buona parte dei comuni,
ma non solo, tornasse a dichiararsi ghibellina
soprattutto al nord. Occorreva un cambio
di rotta ed esso fu propiziato dalla morte
di Clemente IV nel 1271. Tommaso, nel frattempo
era tornato a Parigi per insegnare un seconda
volta all'università. La contrastata elezione
del nuovo pontefice Gregorio X si tradusse
in una vittoria della fazione antifrancese
ed in essa ebbero parte Bonaventura da Bagnoregio
e l'ordine dei francescani. Non era ancora
un completo rovesciamento dei rapporti di
forza tra l'ordine dei predicatori domenicani
e quello dei frati minori, ma apriva la via
ad una dialettica più equilibrata tra centri
studi e, come si direbbe oggi, lobbies culturali. Nel 1277, dopo la morte di Tommaso
(1274), il vescovo di Parigi
Etienne Tempier
porterà un duro colpo all'egemonia
domenicana
ed alle dottrine di Tommaso.
Tommaso teoretico e i disinvolti consigli
sessuali di Pietro Ispano (Papa Giovanni
XXI)
Giunti a questo punto, si può comprendere
più agevolmente l'immane produzione teoretica
dell'aquinate, ed anche il suo senso. Sicuramente
questo può essere valutato come superiore
agli indegni superiori ai quali aveva messo
a disposizione il proprio acume. Qui si è
propensi a credere che Tommaso avrebbe preferito
alle patacche e ai riconoscimenti formali,
che ogni tanto non guastano, e che non gli
giunsero quand'era in vita, una svolta nello
stile di vita degli ecclesiastici, un diverso
atteggiamento di costoro nei confronti di
coloro che intendevano guidare spiritualmente.
Quella "paglia", ossia la propria
opera, venne dichiarata fallimentare perché
in tutti quegli anni non era servita né a
convertire gli infedeli, né a correggere
gli "eretici", nè a cambiare gli
uomini, né a migliorare la Chiesa, e nemmeno
a procurare intime soddisfazioni di conquista
intellettuale. Le contestazioni che gli arrivavano
da ogni parte, e di cui prese sicuramente
piena coscienza nel secondo triennio di insegnamento
a Parigi, lo costrinsero a prendere atto
che anche la conquista intellettuale è soddisfazione
effimera. Ciò che appariva logico a Tommaso,
non risultava ammissibile da chi lo contestava.
Ed anche il continuo ricorso al principio
d'autorità - l'ha detto questo... si trova
scritto in quello... - non riusciva a convincere
i critici più accaniti. Non sappiamo se mai
Tommaso giunse a leggere le cose che aveva
scritto Pietro Ispano - da medico e da insegnante
di medicina - ma esse sembravano mandare
a gambe all'aria l'intero edificio tomistico
e lo stesso magistero ecclesiastico. Pietro
- diventato Papa come s'è detto, col nome
di Giovanni XXI - nel Thesaurus pauperum aveva raccomandato di rinnovare l'atto sessuale
con persone diverse e numerose onde evitare
la «fissazione della passione»,
spingendosi a prescrizioni a luci rosse.
(10) Era una dottrina del libero amore sessuale
da praticarsi per la salute del corpo e dell'anima.
E' dubbio che tale testo sia mai giunto ai
poveri, ma sicuramente cadde nelle mani di
vescovi e cardinali, nonché pontefici, e
religiosamente conservato e tramandato tra privilegiati,
iniziati ai sacri misteri e depositari della
massima verità. Tra i quali Bonifacio VIII
e Alessandro VI della casata dei Borgia.
Il valore del Tommaso teoretico
Il valore del lavoro svolto da Tommaso ovviamente
trascende le considerazioni - un po' meschine?
- che abbiamo fin qui svolto. I fallimenti
servono più dei successi e, su alcuni punti
dell'opera dell'aquinate non è ancora stata
pronunciata una parola definitiva. A nostro
avviso, non lo sarà mai perché è nella natura
di filosofi e teologi rimettere tutto in
discussione. Tommaso andrebbe dichiarato
patrimonio culturale dell'umanità e comunque
studiato più a fondo. Con gli stuzzichini
che proponiamo, può essere che a qualcuno
venga il desiderio di consumare il pasto
completo e più di una volta. Non bisognerebbe
fermarsi ai dati che hanno reso celebre l'aquinate
come le cinque prove dell'esistenza di Dio,
ma indagare i processi di formazione di una
coscienza che temporaneamente si appaga di
un approdo tranquillo ed un saldo ancoraggio
al lume della ragione naturale. Salvo scoprire,
poi, che anche il concetto di lume naturale
è una costruzione ideologica di non lieve
entità. Aristotele può costituire un modello,
un metodo, forse il metodo per eccellenza, ma le sue affermazioni di
"contenuto", ossia le conseguenze
che trae, non sono vangelo. La coscienza
non si forma solo aggiungendo informazioni
o negando valore a qualche opinione troppo
spinta. Se manca un fondamento alla dignità
dell'uomo e della donna non c'è dimostrazione
che tenga. Sicché anche la domanda se sia
vero che la coscienza irrompe sempre dall'esterno
assume luce diversa a seconda delle angolazioni.
Tra un Agostino che afferma il valore dell'interiorità,
il vero Dio va cercato ed in-segnato nella coscienza dell'uomo, ed un Tommaso
che cerca prove di ordine esteriore, perfino
estetiche, non si tratta di trovare un momento
di conciliazione e sintesi, ma solo di riconoscere
che ci sono individui portati a riconoscere
la parola di Dio in se stessi ed individui
che necessitano di una conversione, ovverossia:
abbassare la cresta. Indagare l'ordine ed il disordine della
natura non è affatto sbagliato, ma che l'ordine
estetico riconosciuto da Tommaso non possa
venire contestato da chi trova nel mondo
solo sofferenza e morte è ultraammissibile.
La vita è bella! Hai ragione. La vita è una
merda! Hai ragione. La segreteria generale
delle dichiarazioni umane sulla vita registra
sia le lamentele che le soddisfazioni, ma
rinvia il giudizio finale a tempi meno viziati
dal particolarismo. Costringere qualcuno
a riconoscere che la vita è bella perché
è Dio ad averla creata e donata è una forma
di violenza psicologica che ormai dovrebbe
ripugnare alle coscienze più evolute. Forse,
non è sbagliato considerare Tommaso un esteta.
Lo fece Umberto Eco all'inizio della carriera
(11), in un certo senso lo ribadì P. Tito Sante Centi nella sua introduzione alla
Summa contra gentiles. «S.Tommaso non è un naturalista, o
un "filosofo" come il francescano
Ruggero Bacone, e neppure come come il suo
maestro S. Alberto Magno. Per le scienze
naturali egli si affida ad Aristotele, Avicenna,
Averroè e Tolomeo. Quando nei suoi ragionamenti
egli ha bisogno di appellarsi alle nozioni
delle scienze naturali, si limita a riferire
il pensiero dei "filosofi":ut philosophi dicunt..."
Bisogna però riconoscere che la concezione
del cosmo affiora spesso nelle sue espressioni,
ripercuotendosi non sempre in maniera positiva
sulla sua sintesi teologica e filosofica.
Volendo perciò interpretare con esattezza
il suo pensiero, non si può ignorare questo
sottofondo concettuale. Ecco perché abbiamo
pensato di presentare in forma schematica
la cosmologia di S. Tommaso, che in qualche
capitolo della Contra gentiles è piuttosto "invadente".»
(11)
La cosmologia prediletta da Tommaso era di
natura estetica, la sua visione dei cieli
era armoniosa. Ma scendendo dalla perfezione
dei cieli alla situazione degli umani, e
delle cose biologiche in generale, egli dovette
assumere una posizione problematica e tentare
di risolverla. Considerando l'origine del
male, egli si appellò ad Agostino, e dunque
a Platone. Il male non è un principio assoluto,
ma una privazione di bene. Ne verrebbe che
ogni entità concretamente esisitente ha in
sé tanto di bene quanto di male in diversa
misura, e che perfino dal male ciascuno può
trarre un bene. Ciò presuppone, ovviamente,
che il principio da cui viene il mondo sia
il bene assoluto, e non una sua emanazione,
come in Avicenna.che individuò l'autore del
mondo nella decima intelligenza. Anche per
evitare un'inutile disputa tra filosofi di
pari dignità, Tommaso si richiamò alla Bibbia.
affermando che Dio vuole e conosce ogni realtà
fino al'ultimo individuo. (Summa theologiae, I e Contra gentiles, I, 63-73, 78). Vanni Rovighi spiega. «Se
si concepisce la creazione come un atto volontario
e libero, non si ha difficoltà ad ammettere
ciò che la rivelazion cristiana dice dell'inizio
del mondo. Se, infatti, la creazione è un
processo necessario, certo essa sarà ab aeterno, come è eterno Dio, ma se è un atto di volontà
libera, Dio potrà volere le creature come
vuole: come esistenti ab aeterno o con inizio. E sebbene la volontà di Dio
sia eterna non è necessario che essa produca
un effetto eterno. Dio può infatti volere
eternamente che qualcosa sorga a un determinato
momento.» Sono osservazioni tratte
da Summa theologiae, I q. 46, art. 1 ad sextum e da altri scritti come la Contra gentiles e il De potentia. L'aggancio al principio estetico si attua
sulla considerazione che non v'è alcuna necessità
che il bene ed il bello coincidano come nella
dottrina che Socrate apprese da Diotima.
Con ciòTommaso rientrò in una dimensione
empirica, tornando a seguire davvero Aristotele.
Il bene è ciò a cui le esistenze biologiche
tendono, il bello è ciò che attrae nelle
cose che si sono viste. (Summa theologiae, I q. 3, art. 4) Si attuò così una mescolanza
di principi tratti da due ordini logici differenti.
Il bene, cioè Dio, è agognato da ogni creatura
vivente; il bello è il risultato di esperienze
concrete del tipo "in base a ciò che
ho visto finora dico che...". Va da
sé che questa distinzione lascia il tempo
che trova. Sia in ordine al bene che in ragione
della bellezza. Tutte le creature tendono
a beni vitali, ma particolari. E l'aspirazione
a Dio è spesso dettata da convenienza. Il
senso del bello, cioé la sua percezione,
nonostante tutte le variazioni possibili
in ogni entità umana - non è bello ciò che
è bello, ma è bello ciò che ptace - è, in
definitiva, una vacuità, qualcosa che è destinato
a degenerare ed a corrompersi man mano che
l'ente bello invecchia, a meno che non si
tratti d'un prodotto artistico come i romanzi
di Dostoevskji, o come la biblica storia
di Ruth. Se c'è qualcosa di sconvolgente
nella dottrina aristotelica, o nella sua
interpretazione, è che lo sfiorire di una
bellezza corrisponda ad una corruzione. Corruzione
in che senso? Solo nel senso biologico del
destino di un ente vivo. Su questo c'è scienza
perché gli immortali e gli eternamente giovani
non esistono. L'equivoco è possibile quando
si confonda la corruzione fisica con la corruzione
morale. Non è improbabile che il vecchio
sia migliore di ciò che fu da giovane, ed
è questo che probabilmente si disse Tommaso
guardandosi finalmente allo specchio. Bello
non lo era mai stato. Tarchiato e pingue
più che muscolosco, ma non privo di forza,
tutt'altro. Poteva solo rimproverarsi di
non averla applicata a sufficienza, anche
nel solo esercizio fisico e nel lavoro manuale.
E quando ci si fissa nel solo esercizio intellettuale,
si può dimenticare perfino Aristotele: "si
passeggia per la salute".
Conclusioni provvisorie
S'erano promessi solo stuzzichini e non si
può far altro che rinviare ad ulteriori articoli
il pasto completo, o meglio, il suo riassunto
con la sottolineatura di alcuni punti nevralgici.
In Tommaso tutte le questioni assumono una
tale complessità che diventa difficile riassumerle
in poche battute sintetiche. Una per tutte.
L'allargamento degli orizzonti della ragione
naturale portò Tommaso a sviluppare considerazioni
sul tema dei miracoli di estremo interesse,
come si vedrà. Ma, c'è un punto - sovente
trascurato - rispetto al quale la curiosità
non può che raddoppiarsi. Quando nella Summa theologiae (III, q. 43 art. 1) fece osservare che l'insistere
sui miracoli non portava a rinforzare necessariamente
la "fede", anzi rischiava di indebolirla
(13), si pose decisamente in contro tendenza
rispetto ai luoghi comuni della prassi sacerdotale,
che sarebbe più opportuno definire propaganda religiosa indiscriminata. Fu dunque pronto
a percepire la possibile scissione tra fede
e ragione, intendendo quest'ultima anche
come scetticismo, non solo tra i dotti, ma
anche tra gli ignoranti capaci di pensare,
di esigere prove e testimonianze veritiere
e giudiziose. Con Tommaso si è così spesso
spinti a ragionare in alternativa alla via
apologetica nuda e cruda, all'esaltazione
della fede cieca ed incondizionata nei confronti
di chiunque predichi "in nome di Dio".
Va solo rammentato che, sempre nella Summa theologiae, Tommaso dichiarò esser meglio il venir
convertiti dalla credenza in un miracolo
che rimanere non credenti.
Note
1) Il testo di riferimento utilzzato è: Sofia
Vanni Rovighi - Tommaso d'Aquino - Laterza 1973 / Ove non altrimenti indicato
in queste note tutte le informazioni e le
citazioni sono tratte da questa fondamentale
monografia.
2) Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo - La Nuova Italia Editrice - prima edizione
1983
3) Anthony Kenny - Nuova storia del pensiero filosofico / Medioevo - Einaudi 2012
4) Nicola Abbagnano - Storia della filosofia / La filosofia medioevale - volume secondo dell'edizione TEA su licenza
UTET 1999
5) Kenny, cit.
6) Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e
Massimo Parodi - Storia della filosofia medioevale - Laterza 2002
7) Gilson, cit.
8) Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri -
Il pensiero politico medievale - Laterza 2000
9) per le notizie storiche si possono agevolmente
consultare: Giancarlo Zizola - Il Conclave. Storia e segreti - Newton Compton 2005 e Claudio Rendina -
I Papi - Newton Compton, consigliabile l'ultima
edizione aggiornata all'elezione
di Papa
Francesco.
10) Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e
Massimo Parodi, cit.
11) Umberto Eco - Il problema estetico in Tommaso d'Aquino
- Bompiani 1996, riedizione di un testo del
'76
12) Tommaso d'Aquino - Summa contra gentiles - ESD 2000
!3) l'espressione esatta è «i miracoli
diminuiscono il merito della fede»
La segnalazione, molto opportuna, in Carlo
Augusto Viano - Le imposture degli antichi e i miracoli dei
moderni - Einaudi 2005
moses - 19 settembre 2013
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Domenico di Guzman
Tommaso d'Aquino su wikipedia
Manfredi di Svevia su wikipedia
La battaglia di Montaperti su wikipedia
Carlo d'Angiò su wikipedia
Il passo cruciale nella Summa Theologiae
3. Il Signore ha comandato ai servi
della
parabola di permettere alla zizzania
di crescere
fino alla mietitura, cioè fino alla
fine
del mondo, stando alla spiegazione
del testo.
Ma i Santi Padri ci dicono nelle loro
esposizioni
che la zizzania sono gli eretici. Dunque
gli eretici vanno tollerati.
IIª-IIae q. 11 a. 3 s. c.
IN CONTRARIO: L'Apostolo insegna: "L'uomo
eretico, dopo una o due ammonizioni,
evitalo,
sapendo che un uomo siffatto è perduto".
RISPONDO: A proposito degli eretici
si devono
considerare due cose: una che proviene
da
essi; l'altra che è presente alla Chiesa.
Da essi proviene un peccato, per il
quale
hanno meritato non solo di essere separati
dalla Chiesa con la scomunica, ma di
essere
tolti dal mondo con la morte. Infatti
è ben
più grave corrompere la fede, in cui
risiede
la vita delle anime, che falsare il
danaro,
con cui si provvede alla vita temporale.
Perciò, se i falsari e altri malfattori
sono
subito messi a morte giustamente dai
principi;
a maggior ragione e con giustizia potrebbero
essere non solo scomunicati, ma uccisi
gli
eretici, appena riconosciuti colpevoli
di
eresia.
Alla Chiesa invece è presente la misericordia,
che tende a convertire gli erranti.
Essa
perciò non condanna subito, ma "dopo
la prima e la seconda ammonizione",
come insegna l'Apostolo. Dopo di che,
se
l'eretico rimane ostinato, la Chiesa,
disperando
della sua conversione, provvede alla
salvezza
degli altri, separandolo da sé con
la sentenza
di scomunica; e finalmente lo abbandona
al
giudizio civile, o secolare, per toglierlo
dal mondo con la morte. Scrive infatti
S.
Girolamo: "La carne marcita deve
essere
tagliata, e la pecora rognosa va allontanata
dal gregge, affinché non arda, non
si corrompa,
non imputridisca, e non muoia tutto:
casa,
pasta, corpo e gregge. Ario in Alessandria
era una scintilla: ma poiché non fu
subito
soffocato, le sue fiamme hanno devastato
tutto il mondo".
Il termine "conclave" per significare la riunione per l'elezione
del papa entrò in uso proprio in occasione
dell'elezione viterbese di Urbano IV,
con
riferimento all'espressione latina clausi cum clave. Infatti i cardinali furono rinchiusi nel
palazzo ove erano riuniti da parte
delle
autorità comunali di Viterbo, esasperate
dalla lentezza della procedura elettorale.
(fonte wikipedia)
Corpus Domini (wikipedia)
Corpus Domini (cathopedia)
L'opera omnia di Tommaso d'Aquino in
latino
La Summa Theologiae di Tommaso in italiano
Domanda che non ha mai ricevuto risposta
adeguata: perché Pietro Ispano decise
di
chiamarsi Papa Giovanni XXI, saltando
l'ordine
logico della successione ordinale?
Prima
di lui non ci fu un Giovanni XX, ma
un Giovanni
IXX.
Tommaso si riconosce "uomo di
potere"
in un'intervista impossiile ad Umberto Eco. Sembrerebbe che
noi si dica le stesse cose, ma non
è vero.
Un filosofo raramente diventa un uomo
di
potere effettivo. Affida ai più improbabili
agenti esterni dei compiti grandiosi
e viene
regolarmente deluso, a volte gravemente.
Noi crediamo che Tommaso d'Aquino,
negli
ultimi mesi della propria vita si sia
reso
conto degli errori commessi.
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