Era tornato dal pellegrinaggio a Gerusalemme
con un pensiero traboccante di inquietudine che faceva, giorno dopo giorno,
sempre più angosciante. Particolarmente agitate erano le notti
con la tragica scena di quel
bambino ucciso mentre gridava "non sparate", preso com'era nel
mezzo di una impari lotta combattuta da una parte con I sassi e dall'altra
con le armi automatiche.
E si domandava dove mai poteva avere radici quella lunga maledizione che
così atrocemente dilania uomini e cose di una terra tre volte santa
per aver generato, in nome del Dio unico, l'ebraismo, il cristianesimo,
l'islamismo.
Una sera d'estate, passeggiando sulle rive del Giovenco per trovare sollievo
dopo una giornata di caldo soffocante che aveva fatto del Fucino una fornace
ardente, tornò a pormi la stessa domanda che gli era scappata di
bocca nella sofferta predica tenuta alla messa dell'Assunta, la cui festa
di metà agosto è da oltre tre secoli nella tradizione del
paese. "Chi potrà mai spiegarci - aveva detto - perché
una terra in cui fu annunciata la pace con un evento
straordinario quale è la venuta del Messia, non ha mai conosciuta
la pace?".
Rimanemmo muti, lui a macerarsi intorno alla sua domanda, io nella sofferenza
di non avere una risposta che lo potesse aiutare. Poi, dopo aver guardato
a lungo il placido scorrere dell'acqua nel fiume che stavamo costeggiando,
riprese: "Nelle chiese, nelle sinagoghe, nelle moschee dove s'invoca
l'unico Dio, il tema ricorrente è quello di un mondo percorso dalla
violenza, dalle negazioni, sovente dalle stragi. Parlo di quel che avviene
oggi e che non è dissimile da quello che è avvenuto nei
secoli. Parlo di una terra dove il pensiero costante è quello dei
morti che
si sa di stare aspettando e della rabbia che
ne provocherà altri". Quando don Severino parlava, mi lasciava
sempre col fiato sospeso. Diceva cose che misuravano l'abisso tra la profezia
e la realtà; e il mio timido accenno alla responsabilità
di quanti continuano a
si dire "beati gli afflitti" gli strappavano solo un amaro sorriso
che voleva sottintendere come la passiva accettazione del dolore nel mondo
non Poteva che lasciare il mondo così com'è.
Ricordando le accorate parole del buon Freire un giorno don Severino mi
disse che chi pratica l'odio non sono gli odiati, ma semplicemente quelli
che odiano. Non potevo non dargli ragione, anche se talvolta cercavo di
ricondurre il discorso sulle responsabilità in merito al solco
profondo che separa le antiche speranze di riscatto dalle concrete condizioni
dell'umanità divisa tra gaudenti e sofferenti E insistevo nel dire
che generalmente quelli che odiano sono
coloro che difendono i priviìegi; e aggiungevo che quando gli infelici
vengono colpiti dall'odio hanno solo due
possibili reazioni: o piegarsi e subire, o ribellarsi e liberarsi.
Don Severino mi fissava con una espressione che mi lasciava sconcertato
in quanto non capivo fino a qual punto
condivideva il mio ragonamento. E tornavo a insistere: "Io chiedo
a te che sei prete cosa ha insegnato la tua chiesa nei secoli. E' ancora
valido l'invito a porgere l'altra guancia? Cosa pensi della beatitudine
dei poveri i quali, in quanto poveri privati di tuffo, potranno tutto
avere quando saranno nel regno dei cieli?".
Don Severino come sempre, non rispondeva subito. Si fermava a guardare
in un punto fisso con espressione assorta
come a cercare una parola, un argomento una risposta. Poi calmo, con nel
volto I segni di una tristezza che gli macerava l'anima, si abbandonava
a delle considerazioni le quali, più che risposte ai miei quesiti,
avevano il senso di accorate riflessioni dette a fior di labbra, come
chi confessa intime deduzioni ma col timore di levare il dito accusatore
contro qualcuno.
Io avvertivo che nel suo atteggiamento era vivo il conflitto tra il sentimento
della carità a la coscienza della responsabilità dei mali
che affliggono il mondo.
Un giorno don Severino volle essere più esplicito e, con mia grande
sorpresa per la veemenza con cui espresse il suo pensiero, disse: "Se
i potenti continueranno ad avere tutte le armi, dico quelle culturali
ed economiche, si può dar per certo che i deboli, non avendo le
stesse armi, continueranno ad essere deboli". "Giusto osservai
ma una volta pervenuti alla coscienza di questo, quale sarà la
scelta? Se è il potente a imporre criteri a valori, quali possibilità
ha il debole per limitare i valori del suo antagonista a far avanzare
i valori propri che sono semplicemente quelli della dignità umana?".
Don Severino, come faceva sovente, mi guardava negli occhi, muto. Poi,
come chi aveva trovato difficili parole di risposta a una difficile domanda
su un tema caldo come quello, del resto, già affrontato dalla Populorum
Progressio, prese un libro, to aprì in una pagina segnata da un
foglietto con qualche appunto, a quasi scandendo le parole, lesse: "Ecco,
gli empi tendono 1'arco, aggiustano la freccia sulla corda per colpire
nel buio i retti di cuore". Seguì ancora una lunga pausa.
Chiuse il libro su quella pagina a come se parlasse più a se stesso
che a me, proseguì: "A questo punto cosa rimane da fare ai
retti di cuore? Farsi colpire, nascondersi o ribellarsi? Il Signore mi
aiuti a trovare la risposta giusta".
Ascoltandolo io capivo quanto brucianti erano le ferite nel suo animo,
a io stesso mi maceravo nella povertà del mio discernimento quando
provavo a dir qualcosa per aiutarlo.
Gli dissi una volta che mi chiedevo fino a qual punto 1'essere laico rappresenta
un privilegio sull'essere religioso, o viceversa e mi diffusi in una serie
di considerazioni che forse espressi un po' confusamente. Don Severino
se ne accorse a fu lui a venirmi in aiuto. Mi chiese se avevo approfondito
quell'accenno di qualche giorno prima in merito alle implicazioni dell'appartenenza.
Ripetei 1'essenza di quell'accenno secondo cui 1'appartenenza laica a
1'appartenenza religiosa hanno bisogno di una profonda riflessione critica
sul fatto specifico che, al di là delle buone intenzioni a molto
spesso delle roboanti proclamazioni, nelle due culture è ancora
molto bassa la potenzialità operativa di liberare il mondo dai
mali che to affliggono. Don Severino mi guardava come chi si attendeva
parole più incoraggianti a sciogliere i rovelli dei suoi pensieri,
ma mi accorsi che forse to stavo deludendo. Osservai sul suo volto una
di quelle espressioni in cui sconforto e disperazione si assommano in
una smorfia di dolore. Lo sentii appena bisbigliare: "Dove mai sarà
la salvezza?". Non cercai la risposta a questa domanda fatta a mezza
voce a ripresi il discorso dal punto in cui to avevo sospeso.
Quando, io laico, mi avventuravo a citare qualche passo della Bibbia,
don Severino un po' si divertiva a un po' si incuriosiva. Così
fu quella volta quando, citando un passo del Vangelo che mi era passato
per la mente mutuato non ricordo da quale contesto, dissi: "Non può
un albero buono dare frutti cattivi, ne' un albero cattivo dare frutti
buoni". E aggiunsi che sia il religioso sia il laico hanno il dovere
di coltivare nei rispettivi giardini alberi buoni; a che i coltivatori
di alberi buoni, se vogliono buoni frutti, debbono cacciare dal giardino
tutti i Diotrefe avidi solo di potere e privilegi. "Lo so dissi ancora
che seguendo questa logica si finisce col mettere in discussione le implicazioni
dell'obbedienza che hanno nella vostra chiesa robusti ancoraggi nella
gerarchia e nella disciplina. Ne consegue che o si sovverte questo ordine
o questo ordine si protrarrà nel tempo con tutte le conseguenze
di quella che possiamo definire complicità del silenzio che è
un modo, a dei più perniciosi, di prosciugare la coscienza di quei
valori che hanno radici, come voi dite, nelle sacre scritture".
Don Severino, come improvvisamente toccato da un pungolo rovente, si levò
in piedi. Agitando le mani quasi a cercare un sostegno per un certo tremore
che sempre to prendeva quando doveva esprimere un pensiero che aveva più
la carica di uno sfogo che una esposizione freddamente articolata, esclamò
in perfetto latino a con una esplicitazione che mi parve avesse di mira
quelli che lui chiamava empi annidati nella città diletta: "Stat
pro lege voluntas. E Dio ci liberi da chi vuole ridurlo in suo potere".
Fu questo sfogo che mi dette 1'ardire di ricordare a don Severino la saggezza
dell'ammonimento evangelico: allontanatevi da me tutti voi operatori di
iniquità. E ricordai anche 1'angoscia di Bernardo il quale denunciava
la pericolosa china che andavano prendendo le cose di chiesa a di mondo
quando "in un pascolo più di demoni che di pecore" quelli
che si erano dichiarati al servizio del Signore finivano col pretendere
ogni potere a di essere signori di ogni cosa. E questo ancora all'inizio
del terzo millennio. Don Severino sembrò placarsi.Accennando un
leggero sorriso a abbassando leggermente il capo, disse solo:"Chi
a come ci salverà".
Il maledetto giorno che Adelina, la giovane nipote di don Sevenno, fu
trasportata dal luogo del terribile incidente all'ospedale, fu 1'occasione
di nuove acute macerazioni non tanto a non solo per l'incidente in se',
ma per i ritornanti quesiti sul rapporto tra la condizione umana a il
potere divino. Adelina, una bella ragazzona tutta sensibilità a
intelligenza, soffriva fin dalla nascita di un grave difetto ad una gamba
che, con 1'età, si era tramutato da una dolorosa sofferenza fisica
in una lacerante sofferenza morale Non le bastavano più i ricono
enti a le lodi per i brillanti profitti gli studi, la bravura nella musica,
la grazia dei segni a dei colori nella pittura, la maestria nel ricamo.
Mancavano ad Adelina le gioie delle lunghe pa~giate, i balk alle feste
del circolo cittadino, le escursioni sui monti circostanti e, ancor più,
le tenere attenzioni dei suoi coetanei di cui sovente, riferendosi a se
stesse, le parlavano le amiche. Medici di più scuole, a rinomati
specialisti, avevano tentato di metter dritta una gamba nata storta a
molto più corta dell'altra, ma tutto fu vano.
Sfidando la resistenza della stessa Adelina, fu la madre, solerte priora
delle Figlie di Maria, ad indurla a intraprendere un viaggio per il santuario
della Madonna delle Grazie dove, qualche tempo prima, aveva osservato,
commossa a interessata, tanti ex voto esposti nella parete delle grazie
ricevute. Adelina partì con una comitiva di fedeli, ma giunti a
quel maledetto incrocio detto dei Tre Ponti, 1'autobus si scontrò
col trattore di un contadino stanco ed assonnato, a precipitò nella
scarpata sottostante. Tra molti feriti più o meno gravi, fu raccolta
anche Adelina e i soccorritori dissero subito che tra la vita a la morte
avrebbe vinto la morte. La ragazza stette in coma più giorni e
don Severino, col grumo dei dolori affettivi a di quelli non meno acuti
dei pensamenti meditativi, divideva la sua disperazione con la disperazione
della sorella, madre della sfortunata Adelina. La povera donna, non potendo
far altro, si aiutava solo con il rosario a le implorazioni al Signore
nelle quali la richiesta di perdono per aver indotto la figlia a quel
pellegrinaggio che si era rivelato maledetto e 1'invocazione di un segno
di grazia per la vita della figlia, si intrecciavano in un misto di contrizione
a di speranza. "Signore, insisteva la donna pur mantenendo offesa
la gamba nata male, fa' che mia figlia si desti dal sonno comatoso e torni
alla vita".
Vi fu un momento in cui don Severino ebbe la debolezza di spazientirsi.
Sul piano delicato dei sentimenti, fu certo ingeneroso in quanto non comprese
le trepidazioni di una madre per una figlia che tutti davano morente.
E quando la sorella gli parlò ancora di grazia, don Severino, alzando
la voce come mai aveva fatto, disse: "Era partita per chiedere grazia
per una gamba, ed ora dobbiamo chiedere grazia per una vita. Dove sono
mai la previdenza a la provvidenza?". La povera donna non rispose
perché non era in grado di capire. Chinò appena il capo
a assunse un atteggiamento dolorosamente rassegnato. Don Severino guardava
la sorella, che le sembrava raccolta in un atteggiamento di meditazione,
a si augurava in cuor suo che questa vertesse sul fatto che una richiesta
di grazia aveva avuto come risposta una disgrazia.
Quando don Severino ne parlò con me gli ricordai, riferendomi alle
conversazioni di qualche tempo prima, 1'assurdo e travagliato destino
di gente che, insieme al privilegio di avere lontane radici in una terra
tanto santa, porta 1'atroce segno di una storia che non ha mai conosciuto
momenti sereni. Ricordammo insieme 1'accorato quesito di Primo Levi riferito
alla sua tragica esperienza quando, nei campi nazisti di sterminio, vedeva
nuclei di bambini entrare nei forni crematori: "Dio dov'era?".
"E che senso ha quel siate pronti di Agostino?" mi spinsi a
chiedere. Non attesi la risposta e proseguii: "Tutti, credenti a
non credenti, debbono essere pronti se 1'appuntamento con la morte avviene
in seguito a imponderabili eventi quali possono essere un terremoto, un
fulmine, un cataclisma; ma quando si trascina 1'uomo in una camera a gas,
o to si travolge in una guerra assurda a spietata, o semplicemente viene
stritolato da una macchina dove 1'unica legge è quella del profitto,
o viene relegato ai margini della convivenza civile lasciandogli solo
il pesante macigno di tutte le negazioni, no, mi rifiuto di prepararmi
a questo, apro la coscienza, levo la testa a lotto perché questo
non accada". Conclusi con un altro quesito: "Chi ha sentenziato
che deve essere sempre 1'úomo innocente a pagare le iniquità
dei potenti?".
Non so dire se don Severino mi avesse seguito quando gli domandai se per
caso gli uomini di chiesa, a tutti i livelli a in tutte le epoche, non
avessero esagerato nel proporre all'umanità I'idea di un Dio che
tutto sa, tutto vede, tutto può. Mi accorsi, e me ne dolsi, che
avevo procurato a don Severino ulteriori motivi di cruccio e fors'anche
di dolore. Notai un certo imbarazzo nelle sue parole, ma capii che la
risposta poteva stare solo nell'accettazione di tutte le conseguenze della
fede. Non mi sbagliavo. Infatti mi disse: "Vedi, l'accettazione del
destino umano, ha radici in quella particolare esperienza che travasa
la fede nella religione. E questa, cioè la religione, è
connaturata nell'essere umano. Ne consegue che quando 1' uomo è
colpito dal male, è come se gli si chiedesse la prova di quel vincolo
inscindibile che fa della religione la corazza della fede".
Fu a questo punto che domandai, quasi sommessamente, se questa sua convinzione
la ritenesse ancora valida a assoluta rispetto al dramma che stava vivendo
per quanto accaduto alla sua giovane nipote. Don Severino ma non mi parve
molto convinto di quel che diceva fece tutto un giro di parole per confutare
una mia osservazione circa 1'assioma che vuole la religione connaturata
all'uomo. Fu più chiaro quando disse: "Se 1'uomo non sa da
dove viene a perché esiste, è indubbiamente in tutto il
suo essere una creatura imperfetta, in quanto per dar senso a quel che
ci capita ogni giorno bisogna aver già dato un senso alla vita".
Avvertii subito che don Severino aveva elevato il livello del discorso
a confesso che non compresi bene dove mai volesse andare a parare. Tuttavia
mi coinvolgevano, a quasi mi affascinavano, queste sue puntualizzazioni
tendenti a definire la limitatezza dell'umano rispetto al mistero del
divino. Azzardai solo la mia intima convinzione che l'uomo, per natura,
è tutto ciò che è stato a che sarà a che non
possiamo prevedere in anticipo. "E se aggiunsi viene colpito da una
sciagura, 1' uomo che non sa non ha alcuna colpa. Ma che dire di colui
che dite essere onnisciente, onnipresente a onnipotente?". Don Severino,
con l'aria un po' smarrita propria di chi non trova subito le parole giuste
per stare nel discorso, disse solo: "Come vedi, siamo tornati al
punto di partenza di molte nostre discussioni tra la concezione di un
Dio infinito a di un uomo finito; e, come dicono gli eruditi, brancolante
tra l'ente che è tutto a l'essere che l'ente ha creato che tutto
non è". Poi rimase a lungo in silenzio a io intuii quanto
tumultuosi si erano fatti i suoi pensieri.
Quando, quella domenica, dopo la messa di mezzogiorno, inforcammo le nostre
due sgangherate biciclette a ci dirigemmo verso la trattoriola di campagna
per mangiare in pace qualcosa, don Severino aveva in mano un giornale
in cui, a lato di una pagina, aveva sottolineato in rosso una espressione
politica racchiusa in una breve formula:mercatoregoleetica Convenimmo
che, se quello era un messaggio, i cosiddetti padroni del vapore avevano
fatto un piccolo passo in avanti. Gli dissi di non considerare questo
con molto entusiasmo. "E' vero argomentai che fino a qualche tempo
fa, anche nelle dinamiche economiche a sociali era stato adottato il principio
darwiniano della selezione naturale secondo la quale i più forti
si salvano e i più deboli soccombono. Se ora si parla di regole
a di etica, qualche ripensamento vi deve essere stato a questo va salutato
come fatto positivo". A questo punto fu don Sevenno a sorprendermi
per l'acutezza con cui mi venne incontro. "Tutto sta a vedere disse
chi detta le regole a pratica l'etica"..
Fummo distratti dal discorso quando Erminia, che not chiamavamo familiarmente
la Tavernara, ci salutò dal cancelletto con larghi cenni delle
mani a un affettuoso ben rivisti.. Ci accomodammo in un angolo di quella
soma di stamberga e, in attesa che la Tavernara ci servisse, domandai
a don Severino le ultime notizie sulla nipote ancora a lottare con la
morte. Mi disse che i medici avevano notato un appena percettibile miglioramento,
ma la prognosi rimaneva in tutta la sua gravità. Dissi, ma senza
l'intenzione di dilatare il discorso tanto erano banali le parole che
usai, che ci sarebbe voluto un miracolo. Improvvisamente don Severino
sembrò scuotersi da una sorta di abbandono, e ripetè quasi
sconsolato: "Già, un miracolo!".
Capii che avevamo richiamato un tema su cui più a più volte
avevamo conversato pur trovandoci agli antipodi. Fu lui, quasi volesse
trarmi da qualche impaccio, a riprendere, perché ritenuta degna
di attenzione, una considerazione che avevo fatto qualche sera innanzi.
Mi ricordò quel che avevo detto a proposito della legittimazione
morale dei miracoli in quanto il privilegio del miracolato suona come
una crudele discriminazione sull'esercito sterminato dei sofferenti. Avevo
aggiunto ed è questo che più aveva turbato don Severino
che se in una corsia d'ospedale una madre di cinque figli malata di tumore
è condannata a morte e una donna di settant'anni, senza marito
e senza figli, con la stessa malattia viene miracolata, entra in gioco
il senso di equità, di misencordia, di umanità del miracolante.
Don Severino, riferendosi ad alcune impegnate letture che andava facendo
in quei giorni, disse secco: "Come vedi, abbiano scomodato la teologia.
Cosa dirti? Mi pare che la teologia sia molto sensibile alla sofferenza,
abbia sempre fatto parte degli aspetti costitutivi della vita cristiana".
Poi, come preso da un improvviso fervore, aggiunse: "In questo senso,
che la religione del Dio sofferente abbia un particolare dovere di assistenza
nei confronti degli afflitti, mi sembra un fatto non confutabile".
"Per non apparire manicheo dovresti dire commentai che quando la
teologia si corrompe in ideologia, non c'è più freno alle
nefandezze, dilaga l'arroganza, imperversa la pretesa di possedere la
verità unica e assoluta, le santità vengono irrise, l'arbitrio,
la malvagità a il delitto hanno spazi illimitati. E domandiamoci
sinceramente se tutto ciò non è accaduto anche nella storia
della chiesa". " Immagino la tua risposta aggiunsi subito dopo
una pausa che non può prescindere dall'insegnamento secondo cui
i disegni divini sono imperscrutabili a che l'uomo, anche quando ha davanti
fatti come quelli di cui stiamo discorrendo, non può giudicarli
perché Dio, anima a mistero del mondo, non va giudicato".
Don Severino, a questo punto, per alleggerire il discorso volle scherzare
a quasi blandirmi. E accompagnando le parole con un leggero sorriso tra
divertito a ironico, disse: "Fermati qui, altrimenti mi rubi il mestiere
e finirai con l'essere più prete di me".
Finito il breve pasto, riprendemmo a ritroso la via verso il paese a don
Severino, come inseguendo lontani pensieri che improvvisamente tornano
nella mente, disse: "Senza la volontà di lui non si compie
cosa alcuna'. E subito precisò: "Non sono parole mie, ma dell'illuminato
Sabino". Osservai immediatamente che la sorte toccata alla nipote
a il destino dell'umanità non sono dissimili tra di loro. "Se
è vero volli insistere che vi è una volontà superiore
a regolare tutte le cose, a questa volontà va ricondotto il giudizio
secondo cui il bene a il male hanno radici in quella sola, unica, assoluta
volontà". Don Severino parve rimanere alle implicazioni teologiche
dei nostri ragionamenti a mi parlò di un principio che conoscevo
poco, ma che avevo visto citato non ricordo in quale lettura. Si trattava
della teodicea, una sorta di dottrina della giustificazione di Dio rispetto
al male presente nel creato. Non sapevo cosa aggiungere. Trovai solo il
modo di dire, quasi bisbigliando: "Le benedizioni a le maledizioni
hanno padri diversi a credere in questo non fa parte della logica, ma
della fede".
La prima neve di un inverno che si annunciava lungo a particolarmente
rigido venne presto a abbondante. Una notte don Severino venne svegliato
da forti e improvvisi richiami. Alcuni immigrati aggrediti dalle privazioni
a da un freddo che non avevano mai conosciuto, avevano acceso, nel precario
dormitorio dove erano riparati, della legna racimolata nei dintorni. Mentre
dormivano, prima un denso fumo e poi alte fiamme avevano trasformato l'angusta
baracca in una infernale trappola di fuoco. Gli uomini, per to più
giovani, avevano fatto in tempo a mettersi in salvo, ma all'aperto vennero
a trovarsi in una spietata tormenta di vento a neve. Presi dallo spavento,
dal freddo a dalla disperazione, fu Zaid, il più giovane tra gli
immigrati, che ebbe l'idea di bussare alla porta del prete perché
almeno li facesse riparare in chiesa. Don Severino non se to fece chiedere
più di una volta ed aprì la porta della chiesa bisbigliando
all'orecchio di Plaid: "Entrate, entrate, chi la casa del Signore
è la casa di tutti".
Don Severino sapeva che gli immigrati erano tutti musulmani; a sapeva
anche che la religiosità di questi è assai radicata nel
loro animo più di quanto non to è la propria nell'animo
del cristiano. Per questo, quando la mattina di buon'ora volle andare
in chiesa per dire che presto avrebbero avuto latte caldo a un pezzo di
pane, si trovò davanti una scena che gli mise nell'animo, insieme
a un vivo senso di lietezza, un profondo senso di commozione fino alle
lacrime. Quel gruppo di musulmani si era tolto di dosso quasi tutti i
panni. Con cappotti, pantaloni, maglie, camicie a qualche sacco a pelo,
avevano steso in angolo della chiesa un tappeto di cenci sui quali, prom
con la fronte in direzione della Mecca, avevano iniziato la preghiera
delle cinque. Don Severino non potè trattenersi dall'esclamare:
"Ora non so se la grazia del donum superadditum appartiene più
a voi musulmani o a not cristiani". E si inginocchiò con loro
associando la preghiera cristiana alla preghiera coranica. Alla fine fu
Othman, il più colto tra gli immigrati, che volle ringraziare don
Severino ripetendo quel che tra musulmani si dicevano più volte
ogni giorno: "Allah akbar... ". Aggiunse solo: "E nel suo
beatissimo nome, ti ringraziamo". Don Severino concluse: "Si,
è vero, Allah akbar. Dio è grande. Ed è grande ovunque
egli abiti".
Trascorsero alcune settimane a quello che fu un episodio che poteva farsi
tragedia, divenne motivo di una consuetudine. L'animo di don Severino
si era notevolmente rasserenato per via di due eventi su cui riteneva
avessero alitato i segni della Provvidenza. La nipote era stata dimessa
dall'ospedale a un gruppo di diseredati aveva trovato ricovero nella chiesa
della sua parrocchia. Quando fu chiamato dal vescovo per rendere ragione
del suo comportamento, don Severino notò sul tavolo dell'ufficio
diocesano un abbondante fascio di lettere sulle quali l'alto prelato di
tanto in tanto, parlando, premeva con la mano come a dire: "E queste?".
Erano le lettere che denunciavano to scandalo della "occupazione"
della chiesa da parte degli infedeli. Il vescovo domandò a don
Severino se non riteneva di aver esagerato nel concedere ricovero in una
chiesa cristiana a un gruppo di musulmani. Don Severino si aspettava la
domanda a con estrema prontezza rispose: "Quella chiesa non è
né mia, né tua, né di altri. E' la chiesa del Signore
il quale è padre di tutti. E tutti, specialmente quando tra quests
vi sono degli infelici, vi debbono poter accedere".
Non parve a don Severino che il vescovo fosse particolarmente adirato
nel chiedere giustificazioni in merito al suo gesto. Anzi, ebbe quasi
la sensazione che volesse cogliere 1'occasione per discorrere di cose
su cui, nell'ambito della diocesi, non aveva mai trovato validi interlocutors.
Don Severino, quasi fosse dietro una grata da confessionale, rispose piano:
"Lo scandalo sarebbe stato lasciare quegli infelici a morire di stenti.
Anche a quelli, che qualcuno ancora chiama infedeli, il Santo Padre ha
chiesto perdono per le offese del passato. E tra i tanti modi di farsi
perdonare, vi anche quello di tendere una mano". Don Severino, a
questo punto, volle richiamarsi a quel particolare valore dello spirito
che Teilhard chiama amore socializzante come testimonianza di un Dio che
è tutto in tutti; a quasi con piglio di sfida, disse: "Se
un giorno, dopo i musulmani, eventi dolorosi dovessero indurre ebrei,
luterani, buddisti, ortodossi, scintoisti a bussare alla casa del Signore
ubicata nella mia povera parrocchia, anche a costoro spalancherei le porte
per testimoniare il valore universale della solidarietà cristiana".
Riprese fiato, a come a chiosare un'idea lungamente meditata, concluse:
"E insieme a loro mi inginocchierei a pregare il Dio unico di cui
tutti siamo figli".
Il vescovo rimase a guardarlo, quasi disarmato dalla prontezza con cui
don Severino aveva risposto. Obiettò solo che il richiamato concetto
del perdono ha attraversato in tutte le latitudini il magistero della
chiesa, ma non è questo in discussione. Poi precisò: "Vs
sono qui lettere di fedeli di cui tener conto quando si compie un gesto
come quello che has osato. Si tratta di rispetto di chi, anche se poveri
di cultura a limitati di dottrina, trova nelle tradizioni della chiesa
solidi ancoraggi di fede a di religiosità". "Sia chiaro
si affrettò a puntualizzare il vescovo parlo solo di opportunità".
"Quanto al perdono concluse esso appartiene ad un altro ordine, certamente
più elevato, di considerazioni". "No disse secco don
Severino il perdono, se proprio debbo essere più esplicito, anche
se denota tutta la nobiltà del ripensamento critico della chiesa
rispetto alla sua storia, to ritengo un equivoco in una chiesa che forse,
a ben guardare, è più proclamante e acclamante che... ".
"Che, che cosa?" lo interruppe bruscamente il vescovo. "Più
proclamante a acclamante che dialogante" precisò don Severino.
Poi riprese: "Io, che voglio chiamarti fratello, ti chiedo e ti prego
di non ritenerla una irriverenza se mi rifiuto di chiamarti eccellenza
se non sarebbe più giusto operare, con una più alta visione
ecumenica dei travagli del mondo, per costruire un ordine di relazioni
umane in cui nessuno venga a trovarsi nella umiliante condizione di chiedere
o concedere perdono". "Cosa vuoi intendere?" chiese ancora
il vescovo. "Voglio intendere rispose don Severino che nei secoli,
sotto tutti i cieli a in qualsiasi contesto, tutte le fedi, tutte le religioni,
tutte le scuole teologiche, filosofiche, politiche non sono riuscite a
creare rapporti umani in cui nessuno si sia sentito liberato dalla maledizione
di farsi perdonare o di perdonare". "E mi sia consentito volle
insistere don Severino dopo una pausa più per riprender fiato che
per mettere ordine nei suoi pensieri, del resto ben chiari nella sua mente,
su un tema così ardito di dire quel che penso in merito a quelle
che hai voluto chiamare tradizioni". "Si tratta?" fece
il vescovo accentuando il tono interrogativo. "Si tratta continuò
don Severino di quelle tradizioni che hanno inciso profondamente nella
storia della chiesa, la nostra chiesa, che ha esaltato per secoli il senso
a il valore degli anatemi, delle interdizioni, delle gogne, delle scomuniche,
delle maledizioni. Ma proprio queste sono le perniciose coordinate con
cui abbiamo scavato per secoli, fino alle soglie del terzo millennio,
gli abissi con altre confessioni e altre culture che ora faticosamente
cerchiamo di risalire".
Don Severino, che incontrai le sera stessa di quel serrato confronto,
mi parve quanto mai sollevato nel morale. Mi sottopose il testo di una
lettera al vescovo in cui chiedeva di essere dispensato dal servizio in
parrocchia a di aiutarlo ad andare in missione in qualche terra lontana
a infelice dove così era scritto nel foglio "essere cristiani
ha più senso che esserlo qui". E questa volta fui io a dire
amen, la parola che non avevo più pronunciato da quando, giovinetto,
avevo smesso i pantaloni corti per mettere quelli lunghi.
Racconto a cui è
stato conferito il RICONOSCIMENTO SPECIALE nel Premio "S. Egidio"
2001 ispirato ad una riflessione sulla spiritualità a la religiosità
del nostro tempo con la seguente:
MOTIVAZIONE
"Il costante confronto culturale ed
esistenziale tra la, fede religiosa, l 'analisi storica e le istituzioni
ecclesiastiche trove in questo racconto un accorato appello per accogliere
le ragioni degli umili a degli infelici, al di là di ogni dogma
o credo religioso, in una visione laica che potremmo definire profondamente
ecumenica
Presidente dells Giuria Presidente
del Comitato d'Onore
Mons.Francesco Cuccarese Mons.Francesco Cuccarese
Arcivescovo Metropolita PescaraPenne
Mario Narducci
Direttore de "L'Eco di S. Gabriele"
Organizzazione a coordinamento
Nicoletta Di Gregorio
Presidente Edizioni Tracce
marruvium , san benedetto
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