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Ad ogni momento venivasi aumentando in Macerata il numero delle truppe, e nel
giorno 30 vi si contavano già più reggimenti della Divisione d’Ambrosio. * Porton Pio, detto anche le tre Porte, per i tre archi che lo formavano, venne eretto nel 1624 e demolito nel 1927. Per esso doveva passare chi, percorrendo poi l'attuale corso Cavour, si dirigeva in Città. |
Spuntava il giorno 2 Maggio, e il Re fisso nel suo disegno di presentare
agl’Austriaci una battaglia nelle pianure della Rancia, partì da Macerata colà dirigendosi
per disporre l’armata, per prendere le convenienti posizioni, per preparare insomma tutto
ciò che all’uopo rendevasi necessario.
L’armata Imperiale, che trovavasi in Tolentino, e che avea conosciuti i di lui progetti,
erasi collocata e disposta sù posizioni giudicate le più opportune in prossimità della
Rancia, ed attendeva le mosse nemiche.
Quel fuoco che anche durante la notte si era fatto fra gl’avamposti delle due armate,
poco dopo il giorno si riaccese più vivo, e a gradi a gradi accrescendosi, si ridusse ad un
combattimento che divenne pressochè generale.
Durante la zuffa un distaccamento di cavalleria ungarese che avea fatta una
scorreria fino nelle vicinanze di S. Giusto,sorprese colà l’aiutante l’Ajutante Generale
Sailliè capo dello stato maggiore nella divisione Livron, il quale si conduceva a Fermo
per militari disposizioni, e lo fece prigioniero.
Nel tempo stesso altri corpi di cacciatori che si aggiravano nel circondario di
Macerata erano intenti ad impedire il trasporto in quella Città dei generi, e dei foraggi, e
già la mancanza di essi, e per conseguenza la fame incominciava a fare insorgere timore
di effetti fatalissimi.
L’armata Napoletana da doversi fornire di sussistenze era in quel momento di
tremila Cavalli, e di 20mila uomini, quale si accrebbe dopo poche ore a circa 30mila
coll’arrivo di tutta la divisione Lecchi, che si era per due giorni sostenuta fra Jesi e
Filottrano, difendendosi in ritirata da un corpo di truppa Austriaca sotto gli ordini del
Maggior Socher, che l’incalzava.
Le richieste che si facevano dei viveri per l’armata erano pressantissime, continue,
accompagnate da gravi minacce, e poco o nulla calcolar si volevano le critiche
circostanze, in cui trovavasi il Municipio per l’impossibilità di somministrarli.
Il Podestà del Comune sig. Giuseppe Perozzi, che in momenti di tanta desolazione,
tutto sosteneva il carico d’una amministrazione già resa priva di ogni risorsa, temendo ad
ogni istante che l’armata venisse abilitata a foraggiare da se medesima, e conoscendo
ancora che da una tale abilitazione sarebbe inevitabilmente derivato un vero e reale
saccheggio nella Città, ora con preghiere, ora con persuasive, ora con promesse, ed ora
con somministrazione di quella poca quantità di oggetti di consumo, che coll’indefesse
sue cure riusciva a raccogliere, veniva quietando l’armata, ed allontanando dalla Patria il
pericolo d’un danno immenso, che gli sosvrastava. |
Ai primi albori del giorno 3 successivo fuù egli sollecito di ricondursi al campo. L’armata Imperiale avea già avuti dei rinforzi, e la sua artiglieria era stata bastantemente accresciuta. Le truppe Napoletane come ancora i loro cavalli erano notabilmente estenuati di forza per la mancanza delle consuete razioni, quali non si erano potute somministrare. Queste truppe peraltro, non ostante una mancanza di tanto rimarco dovevano battersi, e cimentarsi ad un nuovo combattimento più accalorato, e più importante di quello del giorno precedente. La zuffa incominciò, e il fuoco dei fucili, e dell’artiglieria divenne in poco tempo terribile. L’attacco era generale, e i piani della Rancia, e le colline di Monte Milone erano il teatro della guerra. Poco fruttuosi si resero i sforzi dei Napoletani contro l’ala destra, ed il centro dell’armata Austriaca, che mantennero sempre le loro posizioni. In questi attacchi un fuoco vivissimo diretto dal Ten. Mar. Mohr, e ben combinati movimenti fatti eseguire per ordine del Generale Conte di Stahremberg dagli ussari Principe Reggente, e dai dragoni Toscana, cagionarono ai Napoletani una perdita, ed un danno considerabile. Un corpo di essi però comandato dallo stesso Re, che era giunto ad impadronirsi dell’importante posizione di Cantagallo , si scagliò sopra l’ala sinistra, che venne sconcertata e battuta. Nel bollore del combattimento il Castello della Rancia fù preso, e ripreso dai combattenti per ben tre volte, e Monte Milone anch’esso fu due volte perduto, e riacquistato. Durante l’azione era cosa commovente in Macerata il veder giungere quasi senza interruzione i feriti che dal campo venivano condotti agli Ospedali. Furono fra il numero di questi il figlio del Duca di Rocca-Romana Gran Scudiere del Re, che cessò di vivere dopo il periodo di 24 ore compianto inconsolabilmente dal proprio Genitore, compianto dal Re medesimo, e da tutti quelli che i pregj ne conoscevano e le virtù, il Generale Principe di Campano gravemente contuso, e ferito in una coscia, ed il Maggiore Ubertuf del 2. regimento di linea, militare di merito distinto, offeso mortalmente in petto da una palla di fucile. Lo stesso doloroso spettacolo offrivano in Tolentino altri feriti, che forse in numero maggiore colà si conducevano. Ambedue le armate si battevano intanto col massimo calore, nè v’era ostacolo che rallentar facesse il loro fuoco, o facesse venir meno il loro coraggio. Eguali all’incirca erano fra di esse le perdite, ed i vantaggi, e la vittoria era ancora dubbia ed incerta. |
Erano le due pomeridiane allorchè venne rapporto al Re che l’armata Austriaca comandata dal Maresciallo Conte di Neiperg si avanzava per la parte di Cingoli e di Filottrano. Questa notizia recò un serio turbamento nel di lui animo, e insorger gli fece il timore di esser preso ai fianchi, di trovarsi tra due fuochi, e di vedersi anche privato dei mezzi per ritirarsi. Credendo pericoloso qualunque ulteriore indugio, si determinò a dare delle disposizioni e degl’ ordini alle sue truppe per una ritirata in combattimento. Questo comando, da cui l’armata dedusse forse presagj poco favorevoli, cagionò su tutti i ranghi della medesima un notabile avvilimento. Già molti battaglioni incominciavano ad abbandonar con disordine i loro posti, e la militare subordinazione cominciava anch’essa sensibilmente a vacillare. Il Re, il quale erasi avveduto che l’armata nemica profittava dello sconcerto che andava manifestandosi nelle sue file, strinse la sua fanteria in un ben combinato quadrato. Questo fu attaccato per ben tre volte dalla cavalleria austriaca. I primi due attacchi si resero vani, e i corpi che li tentarono, rimasero quasi intieramente rovesciati dalle palle dei fucili, e dalle bajonette napoletane. Il terzo attacco però eseguito da un Squadrone di cavalleria ungarese comandato dallo stesso Generale in capo Barone Bianchi ottenne il suo effetto, e il quadrato venne rotto, e sconcertato. Dopo questo fatto lo scompiglio, e l’avvilimento nelle truppe napoletane andò aumentandosi a dismisura, ed intiere compagnie si rendevano a discrezione. Il regimento dei Veliti, e quello degli Usseri della Guardia del Re, che aveano agito in tutti gl’incontri con sommo coraggio, quantunque molto maltrattati nelle eseguite operazioni, conservavano ancora il loro fermo carattere, e la loro intrepidezza. Tutto peraltro rendevasi inutile, giacchè le circostanze cangiate, l’attività delle truppe nemiche, e la superiorità da esse acquistata non lasciavano altra risorsa, che quella d’una rapida ritirata. Questa venne eseguita senza indugio, protetta e sostenuta dalla Divisione del Tenente Generale Lecchi, il quale diresse una così importante operazione con quella destrezza e precauzione che caratterizza un Generale di merito superiore. Sopravenuta la notte, fù anche sospeso dagl’Austriaci l’inseguimento dei Napoletani. Nell’avvicinarsi a Macerata il Re ordinò che la brigata del Generale Caraffa si fosse appostata nella imboccatura della strada della Carrareccia per non permettere all’armata austriaca di colà penetrare, e per proteggere il passaggio delle truppe nella discesa da Macerata per la parte di Piediripa al momento che eseguir dovevasi la ritirata per la strada della marina conducente nel Regno di Napoli. Furono lasciati gli avamposti lungo la strada della Pieve, e di M. Milone, il rimanente delle truppe si accampò per la strada di S. Croce, ed il Re si ricondusse al suo alloggio senza dar segno di turbamento sulle vicende dalla scorsa giornata. |
Le campagne, ove era seguito il combattimento di quel giorno, erano sparse di morti
cavalli, e di cadaveri di ambedue le armate, e moltissimi feriti che in mezzo ad una dirotta
pioggia abbandonati vi rimasero e senza soccorsi, vi perirono anch’essi.
La perdita, che si era fatta per parte degl’ Austriaci tanto in questa quanto nella
precedente giornata poteva essere in tutto, secondo i più accreditati rapporti, e le notizie
più meritevoli di fede, di circa 1400 soldati comuni, e di 25 Ufficiali di diversi gradi fra
morti e feriti.
Quella dei Napoletani era di circa 1000 soldati comuni, e di 30 in 35 Ufficiali fra
morti e feriti.
Essi però contavano 2000, e più soldati, e più di 20 Ufficiali fatti prigionieri.
Nel decorso della notte erano notabilissime le diserzioni nell’armata napoletana,
quale sopraffatta dal timore, e travagliata dalla fame null’altro cercava che scampo, e
mezzi per sussistere.
La brigata Caraffa non si era attenuta gl’ordini del Re per la difesa della strada della
Carrareccia, ed invece era ascesa senza alcun scopo, nelle alture di Montolmo*.
Trascurando questo corpo di truppa l’adempimento d’un’operazione che era della
più alta importanza, veniva preparando all’armata intera l’ultimo danno.
Questa armata soffriva la fame da due giorni interi.
Quantunque per le incessanti cure del Prefetto Dipartimentale, del Podestà del
Comune, e di molti dei primarj soggetti della Città accorsi al Municipio per soccorrere la
Patria in pericolo con i loro consigli, colle loro opere, e colla somministrazione di quei
pochi oggetti di sussistenza, dei quali in così dure circostanze era loro permesso di farsi
privazione, si fosse riuscito a raccogliere una discreta quantità di viveri per sodisfare
almeno in parte ai bisogni dell’armata, pure nulla si era fatto mai pervenire alle truppe
stazionate al campo, perchè parte di tali sussistenze era con eccesso consumata da
quella porzione di armata che inoperosa dimorava in Macerata, e parte, e forse anche la
maggiore, veniva negoziata e convertita a proprio vantaggio dagl’Agenti stessi
Napoletani, che abusavano di circostanze così luttuose.
Il Re levossi poco dopo apparsa la luce del nuovo giorno, e procurava di non far
conoscere in se stesso inquietezza o turbamento alcuno per gl’occorsi avvenimenti.
Quantunque dietro suo ordine si tenessero pronti legni, e cavalli tanto per se che
per la sua Corte, pure non volle partire da Macerata prima delle otto del mattino, ed in
questo intervallo di tempo senza punto dubitare della sua qualità di Sovrano nelle
Marche segnava rescritti di grazie, e conferiva decorazioni del suo ordine delle due
Sicilie, e della medaglia di fedeltà.
Prima della di lui partenza si era già incominciato a sentire il fuoco fra gl’avanposti
delle armate lungo la strada verso Tolentino.
L’incalzamento degl’Austriaci facea prevedere imminente il rigurgito delle truppe
napoletane verso Macerata.
Erasi ancora in dubbio se queste truppe avessero o nò disegno d’internarsi nella
Città, e di tentare ivi una resistenza.
Questo dubbio soltanto avea posto nel Paese inquietezza, ed allarme.
Molti degli abitanti ne partivano, e molti vi rimanevano intenti a nascondere i loro
oggetti più preziosi. * oggi Corridonia. |