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Il proclama di Rimini
(prima parte)


<== Introduzione     2° parte ==>


L’inizio delle ostilità, il Proclama di Rimini, il passaggio del Panaro.

Gioacchino MuratEra stata già condotta al suo termine la spedizione fatta dalle Potenze Alleate sopra alla Francia, e sembrava già cessata l’esistenza politica di Napoleone, allorchè Gioacchino il Re di Napoli abbandonando fin dall’Aprile dell’anno 1814 i Dipartimenti Italici meridionali che erano stati occupati dalle sue armi, ritirò le sue truppe nel Regno, e ritenne soltanto sotto il suo provvisorio governo i Dipartimenti del Metauro, Musone, e Tronto, meno i Distretti di Gubbio, Pesaro, e Urbino, quali unitamente ai Dipartimenti del Tevere, e Trasimeno vennero al Papa restituiti.
Tutto era tranquillo nel Regno di Napoli, tutto lo era pure nei Paesi provvisoriamente assoggettati a quel governo, e stavasi da ognuno attendendo che i Sovrani coalizzati riuniti in congresso a Vienna per decidere sulla sorte d’Europa decidessero ancora definitivamente sul destino delle Marche.
Nel Febbrajo del 1815 incominciò a ravvisarsi nelle truppe napoletane un qualche movimento, quale di giorno in giorno accrescendosi, sembrava che annunziasse vicina qualche militare operazione.
Questo apparato di guerra si andava sempre più sviluppando, e chiaro manifestossi allora segnatamente che, fatta defilare dalla parte degli Abbruzzi una sua armata forte di circa cinquanta mila uomini verso i confini delle Marche, giunse finalmente il Re medesimo nel giorno 19 Marzo in Ancona.
Nel periodo di giorni otto, nei quali si trattenne egli in questa Piazza, passò in rivista le sue truppe colà chiamate, si occupò di varie disposizioni risguardanti quel Forte, decretò la riunione dei Distretti di Gubbio, Pesaro, e Urbino al Dipartimento del Metauro, chiamò a se quasi tutti i Ministri della sua Corte, e dalle mosse che succedevano, e da tante innovazioni che andavansi scorgendo non v’era più chi dubitasse di una guerra prossima ad accendersi, senza potersi però conoscere qual fosse il nemico da combattersi, quali fossero i disegni da mandarsi a compimento.
Questa oscurità si accrebbe maggiormente dopo essersi veduto giungere in Ancona un Colonnello al servizio di S. M. l’Imperatore d’Austria per domandare al Re da parte del suo Sovrano qual fosse il motivo dell’armamento, e quale lo scopo delle sue armate raccolte in vicinanza del territorio occupato dall’armi imperiali, e dopo che si seppe essere stato da Gioacchino risposto a tal ricerca, che egli non era in guerra con alcuna nazione, che lo era molto meno coll’Austria, e che i movimenti delle sue truppe non aveano per oggetto che l’interna sicurezza dei Stati da esso occupati.
Il Re partì da Ancona il giorno 28 Marzo, e fissò per altri due giorni il suo quartier generale in Pesaro.
Nel giorno 30 dello stesso mese si squarciò finalmente quel velo, che avea tenuti nascosti i di lui progetti, e conobbe ognuno senza equivoco che le sue mire erano dirette contro l’Austria.
Furono infatti dalla sua 1.ma Divisione comandata dal Tenente Generale Carascosa oltrepassati in quel giorno i confini dei Stati da lui governati, e fu ostilmente violato il territorio austriaco.
Anch’esso il Re pervenne in Rimini in quel giorno, ove rese pubblico un suo Proclama diretto agl’Italiani , col quale energicamente eccitandoli, l’invitava tutti da Scilla alle Alpi a raccogliersi intorno alle sue bandiere, ad ipugnare le armi, ed a seguirlo per fugar dalla Patria lo Straniero , e per far risorgere l’Italia in nazione, in nazione libera, indipendente.
Alla testa delle sue armate, e colla scorta d’un tal Proclama da cui sperava pronte, e luminose conseguenze, s’internò nella Romagna, e si cimentò con via di fatto ad una guerra coll’Austriaca Potenza.
Le truppe imperiali che in poco numero si ritrovavano di guarnigione nei varj Paesi di Romagna riguardavano con sorpresa tali mosse, e sembrava che persuader non si potessero sopra manifeste ostilità, che contro di esse si praticavano senza preventiva dichiarazione di guerra da un Sovrano non provocato, anzi protetto. Minacciate però, ed anche attaccate da un’armata che sembrava abbastanza imponente, credettero per il momento necessità il ritirarsi di là dal Po, avendone prima sostenuto un attacco in Cesena, ove venne trattenuta e respinta per quello spazio di tempo che fu necessario per proteggere il trasporto de’ loro magazzini militari. I Napoletani marciando quindi senza ostacolo, potettero agevolmente invadere tutti i Paesi già abbandonati dalle truppe imperiali, e fu ad essi anche facile di portare le loro bandiere fino al Panaro.
Colà però doveano aver principio operazioni di qualche rilievo. La Divisione sotto gli ordini del Tenente Generale Carrascosa si era inoltrata per quella parte.
Un corpo di ottomila Austriaci si opponeva all’avanzamento della medesima, ed ebbe qui luogo un accalorato combattimento. Questo risultò vantaggioso per l’armata di Napoli, quale dopo aver respinta l’armata che si opponeva alla sua marcia colla perdita da ambedue le parti di qualche centinajo di soldati fra morti, e feriti, potè oltrepassare il Panaro, occupar Modena, e penetrar fino a Reggio.
In tal circostanza il Tenente Generale Carrascosa ebbe morto sotto di se il proprio cavallo ucciso da colpo d’artiglieria, e il Generale Filangieri, ferito mortalmente, fu ritolto semivivo dalle mani degli Austriaci mediante uno sforzo di coraggio, e d’arditezza usato dal Re coll’accorrere egli stesso in persona, e in compagnia di pochi Ufficiali e Soldati a liberar dalla prigionia, e forse ancor dalla morte un militare di distinzione, che godeva per i meriti, che l’adornavano la di lui stima, ed il di lui amore.

Gli Austriaci fermano l’avanzata di Gioacchino sul Po ad Occhiobello, e il Re decide di ritirarsi.

Mentre vicende ora propizie ora svantaggiose andavansi alternando fra le armate nei Paesi Estensi la Divisione comandanta dal Tenente Generale d’Ambrosio era nelle vicinanze di Ferrara, e tentava ad Occhiobello il passaggio del Po.
Fu quì ove una calda zuffa impegnossi tra un corpo di truppa Napoletana, ed un corpo di Austriaci ivi collocati con molti pezzi d’artiglieria alla difesa della testa del ponte. Fu quì ove lo stesso Tenente Generale d’Ambrosio, cadendo dal proprio cavallo che gli venne ucciso, restò notabilmente contuso in una gamba.
Fu quì ove il Tenente Antonio Gatti di Macerata prima ufficiale nell’armata d’Italia, quindi Tenente nel 9 reggimento di linea napoletano, dando saggio di sommo coraggio ed intrepidezza, fu ferito gravemente da una palla di fucile, ed ove altri sette Ufficiali di diversi reggimenti incontrarono la stessa sorte.
Quì fu finalmente ove senza perdita per parte degli Austriaci protetti dalla vantaggiosa posizione che ritenevano, con perdita però di circa 400 uomini fra morti e feriti per parte dei Napoletani, si resero vani i sforzi della loro armata per l’importante passaggio del Po, a cui aspirava.
Le notizie intorno alle mosse di Gioacchino erano pervenute al Gabinetto di Vienna, e quel Monarca avea già decretata la di lui perdita.
Numerose truppe che per suo ordine si erano poste in movimento per tale effetto, venivano giungendo da più parti in Italia per rinforzar quelle, che già vi erano.
Il Re di Napoli si era avveduto del ben scarso profitto che era risultato dai suoi eccitamenti per l’acquisto dell’indipendenza d’Italia, e che gl’Italiani, sia per la poca fiducia che riponevano sul valore dell’armata Napoletana, sia perchè ben conoscevano a qual’ardua e malagevole impresa si sarebbero cimentati, combattendo senza disciplina, senza esperienza, senz’armi un nemico, potente, formidabile, e ricco d’immense risorse, tranquilli dimoravano, e indifferenti ne’ loro focolari.
Sorpreso egli dalla presenza delle truppe nemiche, che intorno ad esso andavansi di momento in momento accrescendo; deluso nella speranza da lui forse concepita di ricever soccorsi dalla Francia per la parte delle Alpi; disanimato dal poco spirito che osservava nella maggior parte delle sue truppe, quali o combattevano con debolezza, o ricusavano di affrontare il fuoco nemico senza la scorta, senza l’esempio, e senza l’urto dei Generali di primo rango, ed anche del Sovrano stesso che le dirigeva; persuaso che i tentativi per il passaggio del Po ad Occhiobello si rendevano vani, e che temer poteasi qualche manovra pericolosa per parte d’alcuni corpi di truppa Austriaca, che si andavano aumentando nelle valli di Comacchio; inquieto sulle minacce, e sulle rimostranze ad esso fatte a motivo delle intraprese operazioni del Governo Brittanico; convinto finalmente che la sua fortuna andava ad ogni istante cangiando d’aspetto, e vacillava, credette necessario di rinunziare ai suoi disegni , e di appigliarsi prontamente ad un partito. Le sue risoluzioni furono di raccogliere senza ritardo le truppe, di abbandonare gli occupati Paesi, e di fare una ritirata nei Stati da lui posseduti prima della violazione dell’austriaco territorio.

La ritirata nelle Marche.

Questa ritirata, benchè non tranquilla per ragion degl’Austriaci, che ben spesso avanzandosi obbligavano la retroguardia a svantaggiosi combattimenti, venne nonostante eseguita senza un grave disordine, e nel periodo di pochi giorni fu il quartier generale da Reggio trasportato a Cesena, e quindi a Pesaro.
Precedentemente il Re avea richiamato dall’interno del Regno la Divisione sotto gli ordini del Tenente Generale Livron, e porzione dell’altra comandata dal Tenente Generale Pignatelli Cerchiara, onde più facilmente giungere con tali rinforzi al compimento dei piani da lui ideati.
Il passaggio di queste truppe per i Stati Romani fu motivo, non conoscendosene i disegni, di qualche allarme in quella capitale, da cui il Sovrano stimò conveniente di allontanarsi.
Senza che alterazioni nascessero nei politici sistemi, queste truppe continuarano la loro marcia verso il Gran-Ducato di Toscana, ove nel tempo che il re eseguiva le sue mosse per tentare l’occupazione dell’Italia settentrionale, il Tenente Maresciallo Conte di Nugent con un corpo di dieci mila Austriaci era già pervenuto.
Varj furono gl’incontri, nei quali le divisioni napoletane si trovarono colà impegnate con quest’armata, ma poco notabili furono le conseguenze, che ne derivarono.
Il Generale Pignatelli, che non avea condotta della sua divisione che una piccolissima parte, ne lasciò intieramente il comando al Generale Livron, e si affrettò di raggiungere il Re, da cui venne poi spedito in Roma per particolari incombenze.
Vedendo il General Livron delle difficoltà per sostenersi in Toscana, e conoscendo i pericoli, ai quali si trovava esposto, procurò di non avventurar le sue truppe a nuovi cimenti coll’armata imperiale, e marciar le fece senza indugj per la strada del Furlo verso le Marche, ove trovò il Re, che inseguito da altra armata si ritirava con rapidità.
Nel momento che una tal ritirata si eseguiva, l’armata austriaca, che si era proposto di non conceder riposo all’esercito napoletano, si era divisa in più corpi, ed erasi per più parti diretta sopra alle Marche.
In fatti nei giorni 26 e 27 Aprile giunsero a Macerata dei rapporti, che alcuni distaccamenti di truppe imperiali si erano fatti già vedere in Serravalle, Camerino, e Fabriano, quali benchè fossero poco numerosi, erano però forieri di corpi imponenti, che in vicinanza li seguivano.
Il Re di Napoli vedendosi mal sicuro in Pesaro, stimò bene di abbandonare ancor questa Piazza, e continuando la sua ritirata, sostenne un combattimento di qualche importanza in Scapezzano nelle vicinanze di Senigaglia, ove restò ferito il capitano austriaco Jonkovich del reggimento di Wiedunhel.
Sembrava che i disegni del Re fossero quelli di ritirarsi al fiume Esino, di colà fortificarsi e disporsi per dare una battaglia.
Questo suo progetto però venuto a cognizione del Maresciallo Conte di Neiperg restò impedito dalla vanguardia sotto gl’ordini del generale Geppert che con rapido movimento colà si diresse, ed obligò la Divisione del Ten. Generale Carrascosa ad abbandonare quelle posizioni, e a ritirarsi fin sotto Ancona.
In tal circostanza una parte della Divisione medesima comandata dal generale Montemajor occupò la stessa Città d’Ancona, e sua fortezza.
Nel tempo che l’armata austriaca sotto gli ordini del Maresciallo Conte di Neiperg incalzava verso Jesi le Truppe Napoletane, altra armata comandata dal Generale in capo Barone Bianchi proveniente da Fuligno veniva arrivando in Tolentino.
La disposizione data dagl’Austriaci ai corpi della loro armata era così ben combinata, che sboccando essi da più punti per il tratto di distanza che intercede fra Senigaglia ed i monti di Camerino, appoggiati dagl’Appennini, e sostenuti ai fianchi da vantaggiose posizioni, e da formidabile artiglieria, piombavano con maraviglioso concerto sopra alle Marche, per non lasciare all’armata napoletana alcuna risorsa.

27, 28, 29 Aprile le truppe Napoletane confluiscono su Macerata, prima scaramuccia con gli Austriaci alla Pieve.

Vedendo Gioacchino che ognor più critica si rendeva la sua situazione, e che convenìva appigliarsi con prontezza ad una determinazione per evitar conseguenze che potevano essergli fatalissime, cominciò a spedire verso Macerata la sua cavalleria. Nel giorno 27 Aprile giunse nella Città sudetta un corpo di corazzieri che si diresse verso Fermo, e quindi nel giorno 29 altro ne sopravenne di Lancieri, qualè venne susseguito dalla vanguardia della Divisione d’Ambrosio, e da qualchè pezzo d’artiglieria. Tutti imagginavano che il Re non avrebbe fatto trattenere che momentaneamente in Macerata queste truppe, e che dovesse essere del suo interesse il farle defilar prontamente verso il Tronto, onde concentrarle nel Regno, ed eseguire, prevenendo l’arrivo di maggior forza nemica, una ritirata regolare e tranquilla.
Ognuno peraltro restò incerto se questo fosse o nò il suo progetto allorchè si avvide che alcuni corpi di cavalleria invece di incaminarsi per la via di Fermo, si dirigevano piuttosto verso Tolentino, prendendo posizione in varj punti lungo quella strada e nell’altra verso Monte Milone*.
Nel 29 Aprile quella parte di armata austriaca che era già arrivata in Tolentino non essendo ancora forte abbastanza per cimentarsi ad un attacco colla Napoletana che conosceva assai numerosa, nulla ancora intraprendeva, ed aspettava per operare migliori momenti.
Nel mattino soltanto di quel giorno una pattuglia di cavalleria ungarese si fece vedere a due miglia di distanza da Macerata, e precisamente fino alla Pieve, da dove retrocedette senza aver avuto alcun’incontro cogl’avamposti napoletani. Alle quattro e mezza però della sera si avanzò di nuovo fino al luogo stesso un piccolo corpo di circa 40 degl’Ungaresi medesimi diviso in varj plutoni. Alla vista di esso i Lancieri Napoletani, che si trovavano agl’avamposti, si riunirono per affrontarlo, e respingerlo.
A poca distanza dalla Pieve 20 di questi furono attaccati da 9 Ungaresi che formavano il primo plutone.
Dopo un breve combattimento, e dopo varie scariche di fucili i Lancieri Napoletani si dettero ad una fuga precipitosa verso Macerata.
Gl’Ungaresi inseguendoli per circa mezzo miglio, e caricandoli colla Sciabla, dopo averne feriti alcuni, cinque ne fecero prigionieri, e compita quest’azione se ne tornarono in Tolentino.


* oggi Pollenza