UNA TARGA PER LE PANCOGOLE

 

 

L'inizio della cerimonia dell'apposizione della targa in ricordo delle pancogole

 

Lo sviluppo e la storia (chi erano le pancogole)

 

Presso tutti i popoli europei e orientali esistevano consuetudini e tradizioni legate al pane, che in talune regioni sono sopravissuti fino ai giorni. Frequenti erano i confronti sulla bontà del rispettivo pane tra città, regioni e paesi. Nei tempi passati si ricercava la bontà del pane, soprattutto dove c'erano tradizioni e usi che ne garantivano la qualità. Ed è in questo filone di tradizioni e capacità che si inseriscono, certamente già con il XVII secolo, le donne di Servola, le famose pancogole. Il pane di Servola, noto fino ad oggi per la sua bontà, era preparato dalle abili mani delle pancogole o portatrici di pane. Il termine pancogola deriva dal latino "panicocula", modificato poi dal dialetto veneziano in pancogola, la donna che cuoce il pane. E' difficile stabilire con precisione come e perché sia nata questa attività, uno dei motivi principali fu probabilmente la necessità di sostenere la famiglia, poiché un tempo le famiglie erano numerose e il lavoro del marito nei campi non era sufficiente a sfamare le bocche dei bambini. Oppure presero come esempio le pancogole cittadine, le quali producevano il pane in casa e lo vendevano in pubblico, sfruttando un'occasione a loro favorevole, quale la pessima qualità del pane cittadino, per procurarsi l'occasione di ottenere un'altra fonte di sostentamento. La donna servolana dunque si distinse subito come l'artigiana del pane: lo cuoceva in casa e lo portava nelle piazze di Trieste dove lo vendeva alle famiglie benestanti e borghesi. La prima fonte che testimonia e regola l'attività della pancogola risale agli Statuti municipali del 1589: la legge prevedeva che le donne giurassero davanti ai magistrati di voler esercitare la loro arte "con ogni diligenza e senza frode alcuna", e che si rifornissero di grano presso il fontico pubblico (il deposito del grano) in modo da assicurare lauti guadagni allo stesso. Ma quel grano era pessimo, sporco e costoso (1693). Nel 1710 infatti i rappresentanti di Servola protestarono per tale motivo ma inutilmente. L'Editto dei giudici e dei rettori della città di Trieste del 1741 consentiva alle pancogole di entrare in città attraverso la porta dei Cappuccini di Cavana e le obbligava a dichiarare il proprio nominativo, pena la confisca del pane.Nel 1756 venne finalmente stabilito un regolamento "circa la vendita del pane delle Breschizze": potevano comperare solo due polonichi (misura di peso) di frumento se non avessero acquistato la farina, potevano vendere il pane in piazza ai privati ma non ai bottegai se non dopo le undici del mattino, in caso arrivassero in piazza dopo tale ora, dovevano aspettare almeno un'ora prima di venderlo ai bottegai. La loro professione non era facile da esercitare perché l'autorità controllava la loro attività. Tuttavia la loro arte e fatica venne riconosciuta in più occasioni, tra le quali la più degna di nota è l'invito ad andare alla corte di Vienna nel 1756 e nel 1764 affinché istruissero i panificatori del luogo nell'arte del loro impasto. Nessuno vide l'originale di quell'invito, tuttavia è una prova della leggendaria bontà di quel tipo di pane. Nel 1757 viene istituita l'Impresa del pane, una cooperativa di panettieri che si profilano così come i diretti concorrenti delle pancogole. Ma le stesse autorità cittadine constatarono che il pane servolano era decisamente migliore di quello dell'impresa, la quale cercò di accapparrarsi l'esclusiva della vendita del pane a spese delle pancogole. Per un breve periodo - dal 1759 al 1767 - ottennero il monopolio della vendita del pane. Le servolane tuttavia non si dettero per vinte, come è nel loro spirito e continuarono a vendere il pane di nascosto. Solo nel 1767 le donne furono riammesse a esercitare legalmente la loro antica attività, con grande gioia della popolazione cittadina, da sempre nota estimatrice del pane servolano. Nel 1781 le donne ottengono un posto coperto in cui possano prendere riparo in caso di maltempo e nel 1866 possono vendere il pane anche nella piazza della legna. Dunque l'autorità competente seguiva attentamente il lavoro di queste donne come pure la vendita del loro prodotto, nell'ottica del peso, del prezzo e della pulizia. Il che rimase in vigore fino alla fine dell'impero austro-ungarico.

Nel nostro secolo la vita della pancogola servolana diventava ancora più difficile e rischiosa: durante le due guerre mondiali venne proibita di nuovo la vendita del pane, divieto al quale le donne rimasero noncuranti, anche se alcune effettivamente finirono in carcere. Nel 1921 il Comune di Trieste rilasciava solamente alle pancogole servolane delle tessere-licenza per vendere il pane in centro. Nel 1930 tale licenza costava 500 lire, non poco per quei tempi, per cui la donna era costretta a compiere ulteriori sacrifici per averla.

Nel periodo del Governo Militare Alleato, le tessere venivano concesse con più facilità, ma ciò durò ben poco: con le nuove leggi del 1955, al ritorno del TLT (Territorio Libero di Trieste) all'Italia, le donne erano obbligate ad adattare il loro forno alle nuove disposizione che prevedevano due celle ben distinte per la cottura del pane, in modo che non venisse in contatto con la legna e il fuoco. Da quella data molte pancogole abbandonarono la loro antica professione, da allora considerata fuorilegge. Le ultime panificatrici rimaste dal 1955 ad oggi sono circa una decina, di cui l'ultima ha effettivamente cessato la produzione nel 1972. Dunque le cause della fine di questo mestiere durato circa tre secoli vanno ascritte allo sviluppo della nascente professione del panettiere, alle maggiori possibilità d'impiego offerte alle donne (vedi i posti statali come impiegate, maestre oppure operaie) e soprattutto alle nuove leggi che le obbligava a stravolgere il metodo di cottura del loro mitico pane.

Lo scoprimento della targa il 24 giugno 2000

 La preparazione del pane ovvero il  loro prodotto

La pancogola poneva particola cura e grande amore nella preparazione del pane. Per questo motivo sceglieva molto attentamente i migliori ingredienti per ottenere una qualità sopraffina di pane definito nel racconto di Sandro Bolchi come "farina del cielo, neve appena calda ".Per fare il pane occorre lievito, farina, acqua e un buon forno in cui cuocere l'impasto.Ogni giorno la donna si accingeva alla preparazione del pane iniziando a procurarsi la farina: intorno alle cinque del pomeriggio si recava al negozio per comperarne dai 15 ai 30 kg, a seconda della richiesta della clientela.La setacciava nella madia dove veniva preparato il lievito. Su 10 kg di farina, tre venivano impiegati per il lievito. Quando l'impasto era omogeneo e liscio, lo deponeva in un recipiente di legno e lo copriva con un tovagliolo. Poi andava a coricarsi perchè doveva svegliarsi presto, in un lasso di tempo compreso tra l'una di notte e le quattro del mattino. A quest'ora, dopo aver legato i capelli in un fazzoletto bianco e indossato un grembiule (stava molto attenta alla pulizia perchè le autorità controllavano che il loro prodotto fosse conforme alla logica delle tre P: prezzo, peso, pulizia), la donna dava inizio ai lavori, non prima di aver tracciato il segno della croce sulla farina, dal momento che era molto religiosa.Lavorava l'impasto nella madia per quattro ore, assistita dalla sorella, le figlie o anche dai mariti e figli maschi in casi eccezionali. Prendeva il lievito dal recipiente di legno, il "necice", lo deponeva nella madia, vi aggiungeva farina, acqua e sale. In questa prima parte della lavorazione l'impasto veniva chiamato "svalik". Finita tutta la farina e a impasto omogeneo, lo svalik veniva trasferito sulla gramola.La gramola è un tavolo basso, in tiglio, posto vicino alla madia, al quale era fissata un'asse posta in orizzontale, la cui finalità consisteva nel battere l'impasto affinché acquisisse compattezza. A questo punto tagliava il blocco d'impasto in pezzi più piccoli per lavorarli singolarmente, infine dava loro le forme che la fantasia suggeriva loro. Questo era il momento più importante per vedere come si manifestava la creatività della Servolana, a quale attribuiva un nome diverso in dialetto per ogni forma (se ne contano almeno sei, si usa la parola "biga" per indicare tutte le forme). Infine deponeva la forma modellata su un lenzuolo bianco posto sul tavolo o sul coperchio della madia, stando attenta che i pani non si attaccassero. Li copriva e a questo punto non c'era da aspettare altro che lievitassero. Nel frattempo accendeva il fuoco e alla temperatura giusta infornava. La produzione giornaliera ammontava circa tra 10 e 40 kg, per cui erano necessarie da una a tre infornate. Mentre il pane cuoceva, la pancogola sbrigava i lavori di routine in cucina, tenendo sempre d'occhio l'interno del forno per controllare quando era il momento di voltare il pane affinché la prima fila vicina alla brace non bruciasse e tutto il pane fosse ben cotto, naturalmente! Per questo motivo il forno si trovava nella parte più illuminata della casa, comunque la donna bruciava un ramoscello secco - in epoche più recenti si serviva di una lampada a olio - per aumentare la luce peraltro scarsa nella cucina .A cottura ultimata, la donna estraeva il pane dal forno e lo appoggiava sul tavolo per un breve tempo affinché si raffreddasse, poi con fare cerimonioso lo stivava nel cesto secondo l'ordine di consegna. Il cesto o "prenier" aveva la forma rotonda e due manici, sopra di esso calava un fazzoletto bianco in modo da proteggere i pani dallo sporco. Ora era il momento di portarlo a vendere in città. La pancogola si metteva in moto già alle prime luci dell'alba, prima delle sei, le più ritardatarie alle otto del mattino. Si metteva il cesto sulla testa appoggiandolo a cercine, e via si avviava a piedi in città, che dista quattro miglia dal villaggio servolano. Le pancogole di allora dovevano essere forti e prestanti: il cesto poteva contenere fino a dieci chili di pane! Alcune fonti bibliografiche riportano che le donne si servissero dell'asino per raggiungere il centro cittadino, ma pare che quelle fossero le donne del "breg" o circondario. Con l'introduzione dei servizi pubblici le pancogole poterono usufruire della linea tramviaria (il due), ma solamente poche erano in grado di permettersi di comperare il costoso biglietto. Il pane era importante per l'economia del villaggio per vari motivi: costituì il primo vero e proprio inurbamento, intensificatosi poi durante la costruzione dello stabilimento della Ferriera. Il lavoro quotidiano del pane richiedeva l'aiuto e la partecipazione di molte persone. Non tutte le servolane si occupavano del pane: alcune erano sarte, altre negozianti, ostesse, alcune proseguirono gli studi e diventarono maestre. La confezione del pane richiedeva donne robuste e prestanti: se queste mancavano, le Servolane si rivolgevano alle conoscenti o alle lattaie che venivano da più parti. C'era inoltre una domanda di ragazzine come bambinaie, venivano richieste addirittura bambine di otto anni. I possidenti poi necessitavano di manodopera femminile per la pulizia delle case e delle stalle o per il lavoro nei campi. C'era pure bisogno di uomini, per lo più istriani che giungevano a Servola come zappatori di terra. Tutti comunque si accasarono e vennero bene accettati dalla comunità locale. La pancogola poi procurava lavoro agli artigiani: il muratore costruiva il forno e ne curava la manutenzione, il fabbro riparava la sua porta, il falegname provvedeva a costruire gli strumenti quali la tavola, la madia e la gramola, il mugnaio forniva la materia prima, la farina, i carradori la trasportavano, i negozianti e gli osti acquistavano il pane per la loro necessità e attività di ristoratori, la cui notorietà presso i triestini era molto apprezzata, dal momento che Servola offriva oltre al pane anche ottimo vino e ostriche. Nella bella stagione infatti il paese era meta delle gite fuori porta dei triestini. Come si spiega la superiorità del pane di Servola? Il suo successo era dovuto proprio all'accurata e amorevole preparazione e maestria della pancogola, la quale aveva una notevole considerazione della sua creazione: si narra che se, per caso, una parte dell'impasto fosse caduto per terra, essa non sapeva come perdonarsi della disattenzione, lo raccattava, lo puliva, lo baciava e tornava a metterlo insieme al resto dell'impasto. Pure gli ingredienti contribuivano a fare la differenza: le pancogole impiegavano farina bianca, così producevano il rinomato pane "all'italiana", mentre nelle restanti regioni dell'impero austroungarico invece si usava la farina di segala. Oltre alla qualità, anche la vicinanza di Servola alla città costituiva un vantaggio alle panificatrici delle altre ville, cosicché il pane delle Servolane era il primo ad arrivare nelle piazze e ad essere presente quotidianamente e costantemente.

 

Nella foto a fianco don Dusan Jakomin benedice la targa sempre nella giornata del 24 giugno. Gran parte del lavoro di riscoperta delle tradizioni servolane e delle notizie storiche che compaiono in questa e nelle altre pagine del sito sono opera sua. Suo è il  libro  "Servola: la portatrice di pane", edito dall'Opera Culturale di Servola (Trieste.)

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