UNA TARGA PER LE PANCOGOLE
L'inizio della cerimonia dell'apposizione della targa in ricordo delle pancogole
Lo sviluppo e la storia (chi erano le pancogole)
Presso tutti i popoli europei e orientali esistevano
consuetudini e tradizioni legate al pane, che in talune regioni sono
sopravissuti fino ai giorni. Frequenti erano i confronti sulla bontà del
rispettivo pane tra città, regioni e paesi. Nei tempi passati si ricercava la
bontà del pane, soprattutto dove c'erano tradizioni e usi che ne garantivano la
qualità. Ed è in questo filone di tradizioni e capacità che si inseriscono,
certamente già con il XVII secolo, le donne di Servola, le famose pancogole. Il
pane di Servola, noto fino ad oggi per la sua bontà, era preparato dalle abili
mani delle pancogole o portatrici di pane. Il termine pancogola deriva dal
latino "panicocula",
modificato poi dal dialetto veneziano in pancogola, la donna che cuoce il pane.
E' difficile stabilire con precisione come e perché sia nata questa attività,
uno dei motivi principali fu probabilmente la necessità di sostenere la
famiglia, poiché un tempo le famiglie erano numerose e il lavoro del marito nei
campi non era sufficiente a sfamare le bocche dei bambini. Oppure presero come
esempio le pancogole cittadine, le quali producevano il pane in casa e lo
vendevano in pubblico, sfruttando un'occasione a loro favorevole, quale la
pessima qualità del pane cittadino, per procurarsi l'occasione di ottenere
un'altra fonte di sostentamento.
Nel nostro secolo la vita della pancogola servolana
diventava ancora più difficile e rischiosa: durante le due guerre mondiali
venne proibita di nuovo la vendita del pane, divieto al quale le donne rimasero
noncuranti, anche se alcune effettivamente finirono in carcere. Nel 1921 il
Comune di Trieste rilasciava solamente alle pancogole servolane delle
tessere-licenza per vendere il pane in centro. Nel 1930 tale licenza costava 500
lire, non poco per quei tempi, per cui la donna era costretta a compiere
ulteriori sacrifici per averla.
Nel periodo del Governo Militare Alleato, le tessere
venivano concesse con più facilità, ma ciò durò ben poco: con le nuove leggi
del 1955, al ritorno del TLT (Territorio Libero di Trieste) all'Italia, le donne
erano obbligate ad adattare il loro forno alle nuove disposizione che
prevedevano due celle ben distinte per la cottura del pane, in modo che non
venisse in contatto con la legna e il fuoco. Da quella data molte pancogole
abbandonarono la loro antica professione, da allora considerata fuorilegge. Le
ultime panificatrici rimaste dal 1955 ad oggi sono circa una decina, di cui
l'ultima ha effettivamente cessato la produzione nel 1972.
Lo scoprimento della targa il 24 giugno 2000
La
preparazione del pane ovvero il loro prodotto
La pancogola poneva particola cura e grande amore nella
preparazione del pane. Per questo motivo sceglieva molto attentamente i migliori
ingredienti per ottenere una qualità sopraffina di pane definito nel racconto
di Sandro Bolchi come "farina del cielo, neve appena calda ".Per fare
il pane occorre lievito, farina, acqua e un buon forno in cui cuocere
l'impasto.Ogni giorno la donna si accingeva alla preparazione del pane iniziando
a procurarsi la farina: intorno alle cinque del pomeriggio si recava al negozio
per comperarne dai 15 ai 30 kg, a seconda della richiesta della clientela.La
setacciava nella madia dove veniva preparato il lievito. Su 10 kg di farina, tre
venivano impiegati per il lievito. Quando l'impasto era omogeneo e liscio, lo
deponeva in un recipiente di legno e lo copriva con un tovagliolo. Poi andava a
coricarsi perchè doveva svegliarsi presto, in un lasso di tempo compreso tra
l'una di notte e le quattro del mattino. A quest'ora, dopo aver legato i capelli
in un fazzoletto bianco e indossato un grembiule (stava molto attenta alla
pulizia perchè le autorità controllavano che il loro prodotto fosse conforme
alla logica delle tre P: prezzo, peso, pulizia), la donna dava inizio ai lavori,
non prima di aver tracciato il segno della croce sulla farina, dal momento che
era molto religiosa.Lavorava l'impasto nella madia per quattro ore, assistita
dalla sorella, le figlie o anche dai mariti e figli maschi in casi eccezionali.
Prendeva il lievito dal recipiente di legno, il "necice", lo deponeva
nella madia, vi aggiungeva farina, acqua e sale. In questa prima parte della
lavorazione l'impasto veniva chiamato "svalik". Finita tutta la farina
e a impasto omogeneo, lo svalik veniva trasferito sulla gramola.La gramola è un
tavolo basso, in tiglio, posto vicino alla madia, al quale era fissata un'asse
posta in orizzontale, la cui finalità consisteva nel battere l'impasto affinché
acquisisse compattezza. A questo punto tagliava il blocco d'impasto in pezzi più
piccoli per lavorarli singolarmente, infine dava loro le forme che la fantasia
suggeriva loro. Questo era il momento più importante per vedere come si
manifestava la creatività della Servolana, a quale attribuiva un nome diverso
in dialetto per ogni forma (se ne contano almeno sei, si usa la parola
"biga" per indicare tutte le forme). Infine deponeva la forma
modellata su un lenzuolo bianco posto sul tavolo o sul coperchio della madia,
stando attenta che i pani non si attaccassero. Li copriva e a questo punto non
c'era da aspettare altro che lievitassero. Nel frattempo accendeva il fuoco e
alla temperatura giusta infornava. La produzione giornaliera ammontava circa tra
10 e 40 kg, per cui erano necessarie da una a tre infornate. Mentre il pane
cuoceva, la pancogola sbrigava i lavori di routine in cucina, tenendo sempre
d'occhio l'interno del forno per controllare quando era il momento di voltare il
pane affinché la prima fila vicina alla brace non bruciasse e tutto il pane
fosse ben cotto, naturalmente! Per questo motivo il forno si trovava nella parte
più illuminata della casa, comunque la donna bruciava un ramoscello secco - in
epoche più recenti si serviva di una lampada a olio - per aumentare la luce
peraltro scarsa nella cucina .A cottura ultimata, la donna estraeva il pane dal
forno e lo appoggiava sul tavolo per un breve tempo affinché si raffreddasse,
poi con fare cerimonioso lo stivava nel cesto secondo l'ordine di consegna. Il
cesto o "prenier" aveva la forma rotonda e due manici, sopra di esso
calava un fazzoletto bianco in modo da proteggere i pani dallo sporco. Ora era
il momento di portarlo a vendere in città. La pancogola si metteva in moto già
alle prime luci dell'alba, prima delle sei, le più ritardatarie alle otto del
mattino. Si metteva il cesto sulla testa appoggiandolo a cercine, e via si
avviava a piedi in città, che dista quattro miglia dal villaggio servolano. Le
pancogole di allora dovevano essere forti e prestanti: il cesto poteva contenere
fino a dieci chili di pane! Alcune fonti bibliografiche riportano che le donne
si servissero dell'asino per raggiungere il centro cittadino, ma pare che quelle
fossero le donne del "breg"
o circondario. Con l'introduzione dei servizi pubblici le pancogole poterono
usufruire della linea tramviaria (il due), ma solamente poche erano in grado di
permettersi di comperare il costoso biglietto. Il pane era importante per
l'economia del villaggio per vari motivi: costituì il primo vero e proprio
inurbamento, intensificatosi poi durante la costruzione dello stabilimento della
Ferriera. Il lavoro quotidiano del pane richiedeva l'aiuto e la partecipazione
di molte persone. Non tutte le servolane si occupavano del pane: alcune erano
sarte, altre negozianti, ostesse, alcune proseguirono gli studi e diventarono
maestre. La confezione del pane richiedeva donne robuste e prestanti: se queste
mancavano, le Servolane si rivolgevano alle conoscenti o alle lattaie che
venivano da più parti. C'era inoltre una domanda di ragazzine come bambinaie,
venivano richieste addirittura bambine di otto anni. I possidenti poi
necessitavano di manodopera femminile per la pulizia delle case e delle stalle o
per il lavoro nei campi. C'era pure bisogno di uomini, per lo più istriani che
giungevano a Servola come zappatori di terra. Tutti comunque si accasarono e
vennero bene accettati dalla comunità locale. La pancogola poi procurava lavoro
agli artigiani: il muratore costruiva il forno e ne curava la manutenzione, il
fabbro riparava la sua porta, il falegname provvedeva a costruire gli strumenti
quali la tavola, la madia e la gramola, il mugnaio forniva la materia prima, la
farina, i carradori la trasportavano, i negozianti e gli osti acquistavano il
pane per la loro necessità e attività di ristoratori, la cui notorietà presso
i triestini era molto apprezzata, dal momento che Servola offriva oltre al pane
anche ottimo vino e ostriche. Nella bella stagione infatti il paese era meta
delle gite fuori porta dei triestini. Come si spiega la superiorità del pane di
Servola? Il suo successo era dovuto proprio all'accurata e amorevole
preparazione e maestria della pancogola, la quale aveva una notevole
considerazione della sua creazione: si narra che se, per caso, una parte
dell'impasto fosse caduto per terra, essa non sapeva come perdonarsi della
disattenzione, lo raccattava, lo puliva, lo baciava e tornava a metterlo insieme
al resto dell'impasto. Pure gli ingredienti contribuivano a fare la differenza:
le pancogole impiegavano farina bianca, così producevano il rinomato pane
"all'italiana", mentre nelle restanti regioni dell'impero
austroungarico invece si usava la farina di segala. Oltre alla qualità, anche
la vicinanza di Servola alla città costituiva un vantaggio alle panificatrici
delle altre ville, cosicché il pane delle Servolane era il primo ad arrivare
nelle piazze e ad essere presente quotidianamente e costantemente.
Nella foto a fianco don Dusan Jakomin benedice la targa sempre nella giornata del 24 giugno. Gran parte del lavoro di riscoperta delle tradizioni servolane e delle notizie storiche che compaiono in questa e nelle altre pagine del sito sono opera sua. Suo è il libro "Servola: la portatrice di pane", edito dall'Opera Culturale di Servola (Trieste.)
I costumi popolari La Servolana Il Museo etnografico
Servola in poesia Servola in Prosa Il Pane Sylvula