Inferno: canto XXVII
La fiamma si era già raddrizzata e stava ferma perché più non parlava, e già si allontanava da noi col permesso del caro Virgilio,
quando un’altra, che sopraggiungeva dietro di lei, ci fece volgere lo sguardo verso la sua punta a causa di un mormorio che da essa proveniva.
Come il toro siciliano che muggì per la prima volta, e ciò fu cosa giusta, con il lamento di colui che l’aveva costruito con i suoi arnesi,
muggiva con il gemito del martirizzato, tanto che, sebbene fosse fatto di rame, sembrava che lui stesso soffrisse,
così, non trovando all’inizio né una via né un’apertura attraverso il fuoco, le parole dolorose si mutavano nel suono di quest’ultimo.
Secondo una leggenda riportata da diversi scrittori latini (Ovidìo, Plinio il Vecchio, Valerio Massimo, Paolo Orosio) l’ateniese Perillo aveva costruito per il tiranno d’Agrigento, Falaride, un bue di rame, che, arroventato, causava la morte, tra atroci supplizi, dei condannati chiusi in esso. Il bue di Perillo aveva la particolarità di trasformare in gemiti bovini le grida di questi infelici. La prima vittima di questo strumento di tortura fu il suo stesso inventore. L’inciso dantesco e ciò fu dritto riecheggia, in forma lapidaria una più ampia considerazione di Ovidio (Ars amandi 1, 653-654): "Non esiste infatti legge più giusta di quella per cui gli artefici di morte periscono ad opera della loro arte". Nel verso 9 il Torraca ha visto, con penetrante acume, il compiacimento dell’artefice intento a perfezionare, con alacrità disumana, il crudele prodotto del proprio ingegno. L’andamento della similitudine, che ripropone, all’inizio di questo canto, il tema del linguaggio dei consiglieri fraudolenti, già accennato in quello precedente (versi 85-90). è faticoso, complesso, contorto. A causare in noi questa impressione contribuiscono, fra l’altro, l’accavallarsi delle determinazioni - ognuna delle quali. pur logicamente in funzione subordinata, tende ad assumere un valore assoluto, ostacolando lo scorrere del discorso ~ e la ripetizione, appena variata, dello stesso verbo mugghiare - assunto dapprima a chiarire una circostanza secondaria ed in un secondo tempo il fatto sul quale poggia l’intera comparazione. Bene osserva in proposito il Crispolti: "Evidentemente Dante vuol produrre nei lettori una aspettazione, per cui tanto più le parole di Guido appariscano gravi, quanto più hanno tardato ad essere profferite". Il Sanguineti, dal canto suo, nel raffrontare questa similitudine con quella premessa al racconto di Ulisse, nota come "alla qualità de ll’immagine invocata per Ulisse (la fiamma cui vento affatica), sostenuta tutta, così puntualmerite sobria, ancora dai valori descrittivi", si contrappone quella dell’ "immagine singolarmente addotta per Guido, insistente e diffusa, lentamente disvelatrice". Illuminante appare la seguente osservazione del Terracini: "il motivo di questa voce che esce a stento e non naturale dalle fiamme non si limita a questo esordio; lo ritroveremo implicito... in un elemento di stile: nell’onda del discorso ora serrata, ora spezzata, e sin nella duplicità ora ambigua ora drammatica, che scorre lungo tutto il raccontodi Guido e trae appunto la sua prima origine dal suon confuso emesso dalla fiamma".
Ma dopo che ebbero trovato la loro via verso l’alto attraverso la punta, comunicandole quella vibrazione che la lingua aveva loro impresso mentre passavano,
udimmo dire: " O tu al quale rivolgo la parola e che or ora parlavi in dialetto lombardo, dicendo "Adesso vattene; più non ti sprono a parlare",
sebbene io sia arrivato forse un po’ tardi, non ti dispiaccia rimanere a parlare con me: vedi che a me non rincresce, eppure brucio!
Se tu proprio ora sei precipitato nell’inferno da quella amata terra italiana dalla quale ho portato tutti i miei peccati,
dimmi se i Romagnoli sono in pace o in guerra; perché io nacqui nei monti là tra Urbino e il giogo da cui scaturisce il Tevere ".
Il personaggio che parla, fasciato dalla fiamma (i consiglieri fraudolenti non sono trasformati in fiamme, ma da queste soltanto rivestiti, come risulta dal verso 48 del canto XXVI) è il conte Guido I da Montefeltro. Nato intorno al 1220, militò nelle file del partito ghibellino e fu, nel 1268, vicario a Roma di Corradino di Svevia. Nel 1275. in qualità di capitano generale dei Ghibellini della Romagna, sgominò presso Faenza, al ponte San Procolo, i Guelfi bolognesi e si impadronì di Cesena e di Bagnacavallo. Nel 1282, assediato in Forlì dalle milizie guelfe guidate dal francese Giovanni d’Appia, fece una vittoriosa sortita contro il nemico. Dopo la resa della città, fu confinato dalla Chiesa, alla quale aveva fatto atto di sottomissione, in Piemonte, ma nel 1289 riprese a combattere contro i Guelfi come podestà e capitano di guerra a Pisa. Tornato ìn Romagna nel 1292, ottenne la signoria di Urbino. Dopo essersi riconciliato col papa, indossò, nel 1296, il saio francescano. Morì due anni dopo.
Un punto assai oscuro, in questo primo discorso di Guido da Montefeltro, è rappresentato dai versi 20-21, dal momento che le ultime parole pronunciate da Virgilio sono state rivolte ad Ulisse per congedarlo (verso 3), e tenuto conto che è stato proprio Virgilio a consigliare Dante di non rivolgere la parola ad Ulisse e a Diomede, perché, essendo Greci, avrebbero evitato (e non sarebbero stati capaci) di esprimersi in volgare (canto XXVI, versi 73-75). C’è un contrasto nettissimo, come ha rilevato il Fubini, fra il colore lessicale dell’episodio di Ulisse (nel quale abbondano espressioni auliche e latinismi) e quello delle parole con le quali verosimilmente Virgilio congeda l’eroe greco. Il Sapegno avanza l’ipotesi che fosse "nell’intenzione di Dante di segnare, con questo curioso contrasto, il trapasso, che quì si attua, dal mondo del mito a quello della cronaca attuale". Per il Lipari infine la cagione e la ragione del contrasto fra i due episodi stanno proprio lì e solo lì, nella diversità di stile: ché l’episodio di Ulisse è nello stile " tragico " o " alto ", di Virgilio, mentre quello di Guido da Montefeltro è nello stile " comico " o " mezzano ", particolare di Dante".
Stavo ancora attento e chinato verso il fondo, allorché Virgilio mi toccò nel fianco (tentò di costa), dicendo: " Parla tu; costui è italiano (latino) ".
Ed io, che ero già preparato a rispondere, presi a parlare senza indugio: " O anima che sei celata laggiù,
la tua Romagna non è, e non è mai stata, in pace nel cuore dei suoi signori; ma ora non vi lasciai alcun conflitto manifesto.
Nella primavera dei 1300, periodo in cui Dante immagina di aver compiuto il suo viaggio nell’oltretomba, la Romagna appariva pacificata. Alla fine del 1299, infatti, era stato posto termine, per intervento di Bonifacio VIII, alla guerra combattuta dal marchese Azzo VIII d’Este contro il comune di Bologna e i signori romagnoli.
Ravenna si trova nella condizione in cui è stata per molti anni: l’aquila dei da Polenta se la custodisce, in modo da coprire con le ali anche Cervia.
Dal 1270 Ravenna era sotto la signoria della famiglia da Polenta, che aveva come stemma, secondo il Lana, "una aquila vermiglia nel campo giallo"; nel 1300 era signore di Ravenna Guido il Vecchio, il padre di Francesca da Rimini. Il dominio dei signori di Ravenna si estendeva anche alla vicina Cervia.
La città (la terra: Forlì) che già sostenne il lungo assedio e fece una strage di Francesi. è ora sotto il dominio degli artigli verdi (degli Ordelaffi).
Signore di Forlì, la città in cui Guido da Montefeltro sconfisse sanguinosamente l’esercito francese guidato da Giovanni d’Appia, era in questo periodo Scarpetta degli Ordelaffi, che Dante conobbe probabilmente di persona essendo stato eletto nel 1303 capitano generale dei Bianchi esuli da Firenze. Secondo il Lana, gli Ordelaffi avevano "le branche verdi d’un lione nel campo giallo per arme".
E il vecchio Malatesta da Verrucchio e suo figlio, che fecero strazio di Montagna, là (a Rimini e nelle terre vicine) dove sono soliti farlo usano i denti a mo’ di succhiello.
Malatesta da Verrucchio, padre di Paolo e di Gianciotto (Inferno V, versi 88 sgg.), si impadronì di Rimini dopo averne cacciati i Ghibellini nel 1295 e tenne la signoria di questa città fino al 1312, anno in cui gli successe il figlio Malatestino. I due Malatesta erano probabilmente soprannominati " mastini " per la loro ferocia. Dante "inserisce qui il termine, con l’usuale immaginosa risoluzione del linguaggio figurato dell’araldica, e in una serie di indicazioni araldiche, quasi a suggerire che questa sarebbe stata la più degna insegna di una signoria ferocemente avida e sanguinaria". (Mattalia) Il ghibellino Montagna di Parcitade, fatto prigioniero da Malatesta il Vecchio, fu da costui affidato alla custodia del figlio Malatestino, il quale lo fece uccidere.
Le città bagnate dal Lamone (Faenza) e dal Santerno (Imola) sono governate dal piccolo leone in campo bianco, che cambia partito da una stagione all’altra.
Maghinardo Pagani da Susinana, il quale "aveva per arme un lione nel campo bianco" (Lana), fu signore di Imola e Faenza e morì nel 1302. Scrive di lui il Villani nella sua Cronaca (VII, 149), dopo averlo definito Il grande savio tiranno": "ghibellino era di sua nazione e in sue opere, ma co’ Fiorentini era guelfo e nimico di tutti i loro nímici, o guelfi o ghibellini che fossono; e in ognì oste e battaglia ch’e’ Fiorentini facessono, mentre fu in vita, fu con sua gente a loro servigio e capitano". Gli antichi commentatori interpretano il verso 51 come se contenesse un’allusione al fatto che Maghinardo Pagani era ghibellino in Romagna e guelfo, in quanto amico della guelfa Firenze, in Toscana. Dei moderni il Torraca vede riassunti in questa definizione lapidaria "i frequenti e rapidi passaggi di Maghinardo da una ad un’altra delle fazioni di Faenza e di tutta Romagna. Le storie romagnole attestano che egli fu quando favorevole, quando ribelle ai rettori pontifici; nemico a vicenda ed amico de’ Manfredi, de’ Calboli. de’ Malatesta guelfi; ora capo de’ Ghibellini, ora combattente in campo contro di essi; benedetto, scomunicato, ribenedetto dalla Chiesa".
E Cesena che è bagnata dal Savio, così com’è sistemata tra la pianura e l’Appennino, vive tra la tirannide e la libertà.
Cesena, bagnata dal fiume Savio, fu governata dal 1296 al luglio del 1300 da un cugino di Guido da Montefeltro, Galasso da Montefeltro, che Dante nel Convivio (IV, XI, 14) menziona tra i signori più liberali. Nel quadro che Dante presenta a Guido sulle condizioni della Romagna ogni cosa, secondo quanto scrive il Croce, "è espressa in modo concreto e con immagini corpulente: gli stemmi, i nomi dei signori, i fiumi che bagnano quella terra, gli avvenimenti di cui essa fu teatro, si affollano all’immaginazione come esseri vivi, e della sorte di ciascuna città si parla come se si parlasse degli affanni e dei travagli delle proprie figliuole, e Romagna, che le lega tra loro, è tra esse come la primogenita: Romagna tua".
Ora ti prego di raccontarci chi sei: non essere restio a parlare più che non lo sia stato io, se vuoi che il tuo nome abbia nel mondo una fama duratura ".
Dopo che la fiamma ebbe alquanto rumoreggiato com’era solita fare, mosse la cima aguzza di qua e di là, e poi pronunciò tali parole :
" Se io pensassi che la mia risposta fosse data a una persona che prima o poi tornasse sulla terra, questa fiamma sarebbe silenziosa;
ma poiché da questo abisso mai alcuno ritornò vivo, se è vero ciò che mi si dice, ti rispondo senza timore d’essere coperto d’infamia.
Osserva il Terracini, in merito a questa risposta di Guido a Dante: "Questo spirito cosi guardingo e ragionatore, si dimostra ciecamente ignaro dell’errore che lo insidia al fondo della sua stessa argomentazione... il dannato è qui tragicamente cieco; più parla sicuro, più poeta e lettore lo vedono brancolare nel vuoto. Dapprima una ipotesi data come irreale (s’io credessi ... starìa), poi sopraggiunge un più forte e più certo argomento (ma però... ), appena attenuato dall’ombra di un dubbio, prospettato per altro come assurdo (s’i’ odo il vero); infine la conclusione ciecamente decisa: sanza tema d’infamia ti rispondo".
Fui guerriero, e poi frate francescano, ritenendo che, cinto da quel cordiglio, avrei riparato (alle mie colpe); e sicuramente ciò che io credevo si sarebbe avverato del tutto,
se non fosse stato per il papa, che mal gliene incolga!, che mi ece ricadere nei peccati di prima; e voglio che tu ascolti in qual modo e perché.
Finché fui il principio informativo (forma lui: in quanto anima, nel significato solito della Scolastica) del corpo che mi diede mia madre (cioè: finché fui vivo), le mie azioni non furono il risultato della forza, ma dell’astuzia (di volpe).
Io conobbi tutte le astuzie e tutti i raggiri, e li usai così bene, che la loro fama raggiunse i confini del mondo.
Quando mi accorsi di essere arrivato a quell’età (la vecchiaia) in cui ognuno dovrebbe ammainare le vele e radunare le sartie,
quello che prima mi era piaciuto, allora mi dispiacque, e dopo essermi pentito e confessato mi feci frate; ah povero infelice!, e ciò mi avrebbe giovato.
L’immagine contenuta nel verso 81 è svolta ampiamente in un passo del Convivio (IV, XXVIII, 3 e 8) ove è fatto anche l’elogio di Guido da Montefeltro: "la naturale morte è quasi a noi porto di lunga navigazione e riposo. Ed è così: [ché], come lo buono marinaio, come esso appropinqua al porto, cala le sue vele, e soavemente, con debile conducimento, entra in quello; così noi dovemo calare le vele delle nostre mondane operazioni e tornare a Dio con tutto nostro intendimento e cuore, sì che a quello porto si vegna con tutta soavìtade e con tutta pace... Certo lo cavaliere Lancelotto non volse entrare con le vele alte, né lo nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano. Bene questi nobili calaro le vele delle mondane operazioni, che nella loro lunga etade a religione si rendero, ogni mondano diletto e opera disponendo".
Il capo (Bonifacio VIII) dei Farisei dei nostri giorni, conducendo una guerra vicino a Roma, e non contro Saraceni né contro Ebrei (cioè contro i nemici della religione cattolica),
giacché ogni suo avversario era cristiano, ma nessuno era stato a conquistare Acri né a commerciare nel paese dei Sultano,
non rispettò in sé né l’elevato incarico né gli ordini sacerdotali, né in me quel cordone francescano che rendeva un tempo più magro chi se ne cingeva.
Bonifacio VIII (cfr. canto XIX, versi 52~57) è chiamato il più grande (questo il significato del termine principe) dei Farisei moderni; il sarcasmo dei Poeta coinvolge nella medesima condanna il papa, considerato responsabile del suo esilio e del trionfo del partito dei Neri in Firenze, e le alte gerarchie ecclesiastiche del suo tempo. I Farisei sono tacciati nel Vangelo di ipocrisia; alla doppiezza di Bonifacio VIII Dante ha già fatto riferimento nel canto VI, verso 69 (con la forza di tal che testé piaggia). Scrive il Chimenz: "la tremenda perifrasi iniziale (lo principe de’ nuovi Farisci), benché così carica di disprezzo, non suona come ingiuria da persona a persona: Fariseo Bonifazio, ma Farisei anche gli altri prelati di cui egli è il capo: la condanna generale attenua quella particolare: Bonifazio risulta solo l’esponente di una situazione generale, della degenerazione globale della Chiesa. La posizione dei dannato rispetto a Bonifazio appare, in questa requisitoria, identica a quella di Dante: li muove entrambi l’odio personale per un danno ricevuto, ma in entrambi l’odio è purificato e redento, trasformatosi in passione morale. La requisitoria non sarebbe diversa sulla bocca di Dante stesso".
Presso San Giovanni in Laterano sorgevano le case dei Colonna, e contro di loro che non avevano riconosciuto la validità della sua elezione al trono pontificio, Bonifacio VIII intraprese nel 1297 una campagna militare conclusasi, dopo diciotto mesi, con la presa del castello di Palestrina.
L’episodio del consiglio fraudolento dato da Guido da Montefeltro a Bonifacio VIII e riguardante la presa della roccaforte dei Colonna, Palestrina (cfr. versi 102 e 110-111 ) , è con tutta probabilità soltanto una leggenda, assai diffusa peraltro ai tempi del Poeta. Essa è considerata fatto realmente accaduto dal cronista bolognese Francesco Pipino e dal ferrarese Riccobaldo, i quali narrarono l’evento senza conoscere il racconto, fattone da Dante.
Il verso 89 si riferisce alla conquista nel 1291, da parte dei musulmani. di San Giovanni d’Acri, ultima delle città rimaste in mano dei cristiani in Terrasanta dopo le Crociate, laddove il verso 90 allude ai divieti - a più riprese emanati dai pontefici (da Innocenzo III a Niccolò IV e allo stesso Bonifacio VIII) - di commerciare nelle terre degli infedeli.
Il verso 93 contiene un implicito riferimento ad un rilassamento dei costumi nell’ordine francescano. "Quanto più ampio il quadro storico e risonante di sdegno etico e politico, tanto più ree appaiono le persone: indegno e folle il papa che qui diventa protagonista, indegno il monaco tentato, meschini i francescani appena appena tratteggiati..." (Terracini)
Ma come l’imperatore Costantino mandò a chiamare dalla grotta dei monte Soratte papa Silvestro I per essere guarito dalla lebbra, così quegli mi fece andare da lui come medico
per guarirlo dalla febbre della sua superbia: mi chiese consiglio, e io tacqui, perché le sue parole mi sembrarono dissennate.
Nel Medioevo era assai diffusa la versione leggendaria della conversione al Cristianesimo dell’imperatore Costantino, avvenuta in seguito alla sua guarigione ad opera di papa Silvestro. Secondo l’Anonimo Fiorentino, l’imperatore, ammalato di lebbra, richiese l’intervento di papa Silvestro che, per sfuggire alla persecuzione contro i cristiani, si era rifugiato in una grotta del monte Soratte: "e elli il battezzò; e subito guarì della lebbra e credette".
Il confronto fra la richiesta di Costantino e quella di Bonífacio VIII è nota il Bonora - amarissimo, "perché il poco di somigliante che c’è fra i due episodi di Costantino e Silvestro, di Bonifazio e Guido mette ancor meglio in luce le differenze profonde. La Chiesa e il suo capo perseguitati, un imperatore assetato di potere che riconosce nella sua malattia un castigo del cielo e si umilia a chiedere l’aiuto di colui che perseguitava, il miracolo della guarigione, la grande vittoria della Chiesa: tutto questo è nella leggenda di Costantino che Silvestro guarisce dalla lebbra. Un capo spirituale spietato verso i suoi nemici, una malattia dello spirito e non dei corpo per la quale come medico egli cerca un uomo che, dopo le tempeste della vita, aveva trovato la pace del chiostro, la richiesta non del miracolo, ma di quello che di più abietto può dare l’intelligenza, il consiglio frodolento: questo è nella storia di Bonifazio al quale Guido insegna come vincere Palestrina".
Egli poi disse: "Non aver timore; t’assolvo fin d’ora, e tu indicami il modo di abbattere Palestrina.
E’ in mio potere chiudere e aprire. come tu ben sai, il regno dei cieli; perciò due sono le chiavi che il mio predecessore (Celestino V, che rinunciò al trono pontificio) rifiutò ".
Dopo aver rivelato, in un’espressione brutale e aliena da qualsiasi infingimento (sì come Penestrino in terra getti), la sua sete di dominio e la violenza del suo odio, Bonifacio VIII, "mascherando di unzione pia il sussulto della sua anima profana, scocca il colpo maestro della sua sacrilega astuzia [finor t’assolvo]... Ma tosto egli si risolleva alla sua superba maestà (ora maestà pontificale) nel verso lo ciel poss’io serrare e disserrare, che noi vediamo, tanta ne è l’efficacia, illuminato da uno sguardo di trionfo e accompagnato da un ampio gesto di dominio... Di sotto al variare degli atteggiamenti traspare in Bonifacio l’esasperata tensione di tutto il suo cuore verso lo scopo agognato; ma ora che egli si sente vincitore, quella tensione s’allenta nel frizzo ingeneroso verso il povero Celestino, con cui finisce la grandiosa rappresentazione diretta dell’odiato pontefice" (Rossi-Frascino).
Allora i fondati argomenti mi spinsero là dove il silenzio mi parve la risoluzione peggiore, per cui dissi: "Padre, giacché tu mi assolvi
da quella colpa in cui ora devo cadere, promettere molto e mantenere poco ti faranno trionfare (sui tuoi nemici) nell’eccelso tuo trono".
Molto persuasiva è l’interpretazione avanzata dal Chimenz del mutamento avvenuto nell’animo di Guido dopo la assoluzione anticipata impartitagli dal pontefice, mutamento che si riflette nella struttura sintattica e stilistica dei versi 108-111: "Fissati i termini del patto, che le pause imposte dalla fine del verso dopo: lavi e cader deggio sembrano rendere incrollabili, improvvisamente il frate appare liberato da ogni esitazione e da ogni scrupolo. La sua mente, ora sgombra, ha pronta la risposta conveniente alla sua richiesta: il suo pensiero è lucido e preciso; la sua parola ha la fredda e lapidaria sicurezza delle sentenze del Machiavelli. Il consiglio infatti, come è stato finemente osservato, non è formulato come tale (Terracini), ma come una sentenza, come asseverazione di cosa indiscutibilmente certa, un assioma scientifico".
Secondo la tesi accolta dal Poeta, Bonifacio VIII avrebbe indotto, su consiglio di Guido da Montefeltro, i Colonna alla resa mediante promesse (tra cui quella di accogliere di nuovo nel collegio cardinalizio Jacopo e Piero Colonna, che ne erano stati scacciati) che poi non avrebbe mantenuto. Gli storici propendono tuttavia oggi a ritenere che il pontefice costrinse i Colonna, asserragliati nella rocca di Palestrina, alla resa incondizionata.
Giunse poi San Francesco, non appena fui spirato, per prendere la mia anima; ma uno dei diavoli gli disse: "Non portarla via con te: non farmi torto.
Egli deve venire nell’inferno tra i miei sudditi perché ha dato il consiglio ingannatore, dopo il quale sono stato sempre pronto ad afferrarlo per i capelli;
non si può infatti assolvere chi non si pente. né è possibile pentirsi e peccare al tempo stesso perché è cosa contraddittoria ".
Oh misero me! come trasalii quando mi ghermì dicendomi: "Forse non pensavi che io fossi logico!"
In una pagina dedicata al diavolo loico il De Sanctìs magìstralmente chìarìsce il sottofondo ironico del contrasto, ricalcato sugli schemi tipici delle "sacre rappresentazioni" medievali, tra il candido, serafico fondatore dell’ordine cui Guido apparteneva e il nero cherubino, l’arcangelo ribelle che il male non ha privato della capacità di cogliere con coerenza implacabile, al di là delle apparenze, l’essenza delle cose: "Vi è oggi una logica colla quale si cerca di giustificare questi mancamenti di fede; ma la logica è vecchia; e Guido aveva ancora la sua: - Di che mi potete riprendere? Io ho commesso un peccato; ma il papa mi aveva prima assoluto -. Ma non è vero. - Tu peccasti perché avevi paura, perché temevi che dal tuo silenzio non te ne venisse alcun male -. Di sotto alla ragione apparente vi è la vera ragìone, che Dante con una profonda intelligenza del cuor umano gli fa involontariamente uscire dal labbro. Guido mentre visse poté ingannare gli altri; due sole persone non poté ingannare: se stesso ed il demonio, o piuttosto l’altro se stesso, la sua coscienza fatta demonio accusatore. Morto, mentre San Francesco sta per recarselo in paradiso, eccoti un " ferma! " del demonio, che ti sfodera la sua logica, una logica ironica; in tono da cattedratico, contraffacendo i dottori scolastici di quel tempo, tra i quali era Guido, ti fa anch’egli il suo sillogismo in tutte le regole, fondato sul principio di contraddizione".
Mi condusse da Minosse; e quello avvolse otto volte la coda intorno al suo duro dorso; e dopo essersela morsicata per la grande ira,
disse: " Costui è uno dei peccatori che il fuoco sottrae alla vista"; perciò io sono dannato nel luogo che vedi, e così avvolto dalle fiamme, camminando, mi cruccio. "
Quando ebbe così finito di parlare, la fiamma si allontanò gemendo di dolore, torcendo e dibattendo la punta aguzza.
Noi proseguimmo oltre, sia io che Virgilio, su per il ponte fino al successivo che copre la bolgia nella quale è scontata la pena
da parte di coloro che, suscitando discordia, si gravano del peso della colpa.
|