Inferno: canto XXVIII
Chi mai potrebbe sia pure in prosa parlare compiutamente del sangue e delle ferite che vidi allora, anche se le descrivesse più volte?
Certamente ogni lingua sarebbe inadeguata a causa del nostro linguaggio e del nostro intelletto che hanno poca capacità a contenere fatti così straordinari.
Se anche si riunisse tutta la gente che un tempo nella fortunosa terra di Puglia si dolse delle sue ferite
per opera dei Romani (Troiani: in quanto discendevano da Enea e dai suoi compagni) e a causa del lungo conflitto che fruttò un così ingente bottino di anelli, come narra Livio, il quale non sbaglia,>
con quella che provò dolori di ferite riportate nell’opporsi a Roberto Guiscardo, e con l’altra le cui ossa sono tuttora raccolte
a Ceprano, là dove ogni pugliese fu traditore, e là presso Tagliacozzo, dove il vecchio Alardo vinse senza far uso delle armi,
e ostentasse chi un suo membro trafitto e chi un suo membro mutilato, non sarebbe possibile uguagliare l’aspetto ripugnante della nona bolgia.
L’esordio di questo canto non si concreta, come quelli di altri canti di Malebolge, in un quadro amorosamente delineato in tutti i suoi particolari, in una "miniatura" vivente di vita propria nella desolazione dell’atmosfera infernale. Esso propone già in maniera esplicita gli elementi fondamentali del canto, caratterizzato dal "sistematico alternarsi della descrizione delle mutilazioni infernali alla rievocazione di battaglie e di stragi terrene" (Fubini).
Per il Momigliano questa apertura di canto ricorda, per la sua "intonazíone oratoría", quella del canto dei simoniaci, pur risultandone, nel suo analitico dispiegarsi, meno vigorosa. Non a torto tuttavia il Fubini respinge questa presa di posizione, sottolineando che questo esordio, "così classicamente atteggiato, viene a conferire sin dall’inizio una dignità classica a una materia per se stessa e per non pochi dei modi in cui si atteggia, lontana dall’antica poesia, quasi a render più esplicita la ambizione dantesca di assumere anche una materia così tipicamente medievale entro un’arte che ai classici guarda come suo costante punto di rìferimento". Il richiamo alla tradizione classica è evidente nella preterizione della prima terzina e nell’affermazione del verso 4, che riecheggiano due passi dell’Eneide (Il, versi 361-362 e VI, versi 625-627), nell’ampio, armonico distendersi dei periodi, nelle perifrasi, nel termine fortunata, riferito ad una terra, veduta, nel succedersi dei secoli, come ricettacolo di stragi e di desolazione (l’ossame che ancora rende illustre Ceprano), nella menzione di Livio definìto peraltro, medievalmente, colui che non erra e nel ricordo delle guerre sannitiche e puniche. La rappresentazione delle pene dei dannati della nona bolgia, i seminatori di discordia, sarà caratterizzata dalla scelta di vocaboli e forme "propri della più greve tradizione " comica "" (Fubini); le forme di questo esordio rappresentano invece un chiaro esempio di ciò che per Dante era lo stile "tragico ", proprio dei poemi dell’antichità e delle " canzoni " medievali. A questo proposito occorre rilevare la somiglianza fra quest’apertura di canto e i versi con cui inizia il Compianto per la morte del Re giovane del trovatore Bertran de Bom (cfr. versi 133-135) che scrisse liriche di carattere eroico e celebrò la gloria dei guerreggiare: "Se tutti i duoli, gli affanni, i dolori, le sventure e le miserie, che mal si udirono in questo mondo dolente, fossero riuniti insieme, sembrerebbero tutti lievi a paragone della morte dei giovane re inglese". Tra le guerre che insanguinarono la Puglia (nome con il quale viene qui designato l’intero regno di Napoli) il Poeta accenna, in questo esordio, a quelle contro i Sanniti (343-294 a. C.); alla seconda guerra punica, che culminò nella battaglia di Canne (216 a. C.), nella quale il numero dei cavalieri e senatori romani caduti in combattimento contro le milizie di Annibale fu così alto, secondo quanto racconta Tito Livio (XXII, 6; XXIII, 7 e 12), che con i loro anelli fu formato un cumulo di tre moggia; alla campagna condotta da Roberto il Guiscardo, capo dei Normanni e in seguito duca di Puglia e di Calabria (1059-1084), contro i Saraceni, che occupavano l’Italia meridionale; alla battaglia di Benevento (1266) combattuta dalle truppe guelfe al comando di Carlo I d’Angiò contro l’esercito ghibellino di Manfredi e vinta dai Guelfi, secondo la voce alla quale Dante mostra di dar credito, per il tradimento dei baroni meridionali, che si rifiutarono di difendere il passo di Ceprano sul fiume Liri; a quella di Tagliacozzo (1268), in cui le truppe imperiali, guidate dall’ultimo imperatore della casa di Svevia, Corradino, vennero sconfitte con l’astuzia (sanz’arme) da Erard di Valéry, uno dei consigheri di Carlo I d’Angiò.
Una botte, per il fatto che ha perduto la doga mediana o una delle laterali, non si apre certo così, come io vidi (aprirsi) un dannato, squarciato dal mento all’ano :
gli intestini gli pendevano tra le gambe; gli si vedevano le interiora (la corata: polmoni, cuore, fegato, milza) e il lurido involucro che trasforma in sterco ciò che si inghiotte.
Acutamente il Momigliano rileva che la figura del dannato, così come è descritta in queste due terzine, "sembra, più che un grande mutilato di una delle battaglie accennate nell’esordio, un disgustoso pezzo anatomico", mentre il Sanguineti, dal canto suo, osserva che " l’esplorazione anatomica, sul motivo del sangue e delle piaghe, del forato, e del mozzo... giunge a questo sezionare crudele ed esperto, che si compiace del dettaglio acre e crudo, freddamente avanzato, con tutta la diligenza di una risentita inchiesta: in tale sentimento di penetrante analisi è la stessa carica etica del canto, che si fa tecnica e tagliente parola". In particolare la funzione delle perifrasi (infin dove si trulla... ‘l tristo sacco che merda la di quel che si trangugia) "qui non è già quella di equilibrare la tensione della puntualità linguistica e il suo aspro colore con una qualche distensione compensatrice, o con attenuata cautela rappresentativa, ma nasce, proprio all’opposto, da una violenta intenzione degradante".
Mentre avidamente fissavo lo sguardo su di lui, mi guardò, e si aperse il petto con le mani, dicendo: " Vedi dunque come mi lacero!
vedi come è straziato Maometto! Davanti a me lagrimando cammina Alì, spaccato nel volto dal mento ai capelli.
Maometto (560-633 d. C.), fondatore della religione isiamica, è posto nella bolgia in cui sono puniti i seminator di scandalo e di scisma per aver determinato un’ulteriore divisione religiosa fra i popoli. Una credenza diffusa nel Medioevo vedeva in lui un cristiano che aveva abiurato alla propria fede e addirittura un cardinale che aveva aspirato al papato.
Ali Ebn Abi Talid (597-660 d. C.), cugino e genero di Maometto, introdusse, nell’ambito della religione islamica, i germi della scissione, fondando una setta che si staccò dall’ortodossia musulmana. Rispetto a quella di Ali, che ha solo il volto spaccato in due, la lacerazione di Maometto è più atroce, più grave essendo stata la discordia da quest’ultimo introdotta nel mondo.
E tutti gli altri che vedi in questo luogo, furono da vivi seminatori di discordia e di scissione, e perciò sono così spaccati.
Qui dietro è un diavolo che ci acconcia in modo tanto crudele, sottoponendo di nuovo ciascuno di questa turba al taglio della sua spada,
quando abbiamo fatto il giro della bolgia dolorosa; poiché le ferite sono rimarginate prima che ciascuno di noi gli ritorni davanti.
Ma chi sei tu che ti trattieni a guardare sul ponte, forse per ritardare di andare al castigo che è assegnato in giudizio in base a ciò di cui tu stesso ti sei accusato (davanti a Minosse; cfr. canto V, versi 7-8) ? "
"Né morte ancora lo ha raggiunto, né lo spinge il peccato " rispose Virgilio " a subire la pena; ma per dargli una conoscenza completa delle pene infernali,
io, che sono morto, debbo guidarlo quaggiù attraverso l’inferno di cerchio in cerchio: e ciò è vero com’è vero che ti sto parlando. "
Furono più di cento le anime che, quando lo intesero, si fermarono nella bolgia a fissarmi dimenticando, per lo stupore. il loro tormento.
" Dì dunque, tu che forse vedrai il sole tra poco, a fra Dolcino, se non vuole seguirmi all’inferno fra breve, di provvedersi
di vettovaglie, in modo che l’assedio causato dalla neve non consenta al vescovo di Novara quella vittoria, che non sarebbe facile conquistare in altro modo. "
Il novarese Dolcino Tornielli, appartenente alla setta dei Fratelli Apostolici fondata dal parmense Gherardo Segarelli, dopo che quest’ultimo fu bruciato vivo nel 1296, raccolse un gran numero di seguaci nel Trentino e in altre regioni dell’Italia settentrionale. Anche egli, non diversamente da Maometto, si vantava profeta, predicando, tra l’altro, l’abolizione della gerarchia ecclesiastica e la comunanza dei beni e delle donne. Contro di lui fu bandita da Clemente V una crociata, alla quale parteciparono vescovi, feudatari e comuni. Costretto ad arrendersi per mancanza di cibo e per la caduta di un’abbondante nevicata sul monte Zebello (nel Biellese), ove si era rifugiato con i suoi seguaci, fu condannato a morte e giustiziato nel 1307. Il verso 60 contiene un’allusione alla strenua resistenza che Dolcino e i suoi fedeli opposero all’esercito dei Crociatí. I critici hanno fornito varie interpretazioni in merito al consiglio che Maometto prega di trasmettere a Dolcino. "E’ scherno verso l’aspettato compagno che non potrà rompere la cerchia di nemici e di ghiaccio, o ingenua solidarietà? Ammirazione per lo strenuo combattente, o derisione dei suoi sforzi?" si chiede lo Zingarelli, laddove il VossIer è convinto che la visione di Dolcino assediato e ridotto ad arrendersi per fame riempia di gioia Maometto. Considerazioni del genere rischiano tuttavia - in un canto come questo. nel quale l’attenzione del Poeta è in primo luogo presa dal modo della pena, dall’orrore (che in essa visibilmente si esprime) per quanto vi è di peccaminoso nell’aizzare all’odio, nel negare, attraverso la discordia e la anarchia, i principii dell’umano convivere - di apparire eccessive. Opportunamente scrive in merito il Fubini: "moto e vita porta nel canto quella improvvisa profezia-consiglio di Maometto, tanto diversa nella sua vivacità da tutto quel che precede e sulla quale vano sarà al solito voler psicologicamente sottilizzare, discutendo sulla opportuni. tà di un consiglio effettivamente inutile o su di una pretesa malizia di quel dannato, per non sentirvi altro che una commossa partecipazione del Poeta a un avvenimento prossimo al tempo in cui scriveva, la commozione per quella difesa disperata di fra Dolcino (che non implica un’approvazione dell’opera dell’eretico) ".
Dopo che aveva sollevato uno dei piedi per andarsene, Maornetto mi disse queste parole; quindi lo riappoggiò in terra per allontanarsi.
Anche l’atteggiamento di Maometto, il quale parla tenendo un piede sospeso e lo poggia a terra solo dopo aver terminato la sua profezia, è stato variamente interpretato. V. Rossi lo ha definito un atteggiamento da "ballerino" (metafora in verità non troppo indovinata tenuto conto di quelli che sono gli elementi di maggior rilievo del canto: l’orrore, l’osservazione spietata e precisa di piaghe e mutilazioni), mentre il Momigliano, per caratterizzarlo, ricorre anch’egli a un’immagine umoristica, quella della "cicogna". Dante, secondo questi critici. si prenderebbe gioco del dannato, scomponendo analiticamente nelle sue fasi successive un movimento che, nella normale percezione delle cose, cogliamo nella sua unità. Effettìvamente in questa terzina Maometto prende ai nostri occhi l’aspetto di un manichino, di un fantoccio privo di vita e mosso da una volontà che non è la sua (il Fubinì parla, a proposito di questa e altre immagini analoghe del poema, di "rigidità burattinesca", senza peraltro vedere, nel caso di Maometto, l’aspetto tragico - espressione della sua condizione di dannato - che essa riveste).
Un altro, che aveva la gola bucata e il naso mozzato fin sotto le ciglia, e non aveva più che un solo orecchio
fermatosi a guardare per lo stupore con gli altri, prima degli altri spalancò la gola, che da ogni parte era di fuori insanguinata,
e disse: " O tu che nessun peccato condanna e che io conobbi in Italia, se non mi trae in inganno
ricordati di Pier da Medicina, se mai torni a vedere la dolce pianura che scende da Vercelli a Marcabò.
Su Pier da Medicina non si hanno notizie sicure. Appartenne ad una famiglia nobile che governò l’omonima cittadina Romagnola; di lui i commentatori antichi dicono che fu promotore di discordie tra i nobili di Bologna e tra i comuni di Bologna e Firenze. Benvenuto da Imola sostiene che Dante fu ospite alla corte di questi feudatari.
La pianura padana è indicata (verso 75), attraverso una perifrasi, come quella che si stende da Vercelli al castello di Marcabò (o Marcamò), edificato dai Veneziani alla foce del Po di Primaro, a difesa dei loro commerci. Questa perifrasi è pervasa da un senso di struggente nostalgia e può essere, per taluni aspetti, avvicinata a quella con cui Francesca designa la sua terra natale (nel verbo dichina è come una eco della stanchezza che nelle parole di Francesca - canto V, versi 98-99 - spinge il Po a cercar pace, insieme con i suoi affluenti, nell’Adriatico).
E informa i due più ragguardevoli cittadini di Fano, messer Guido e anche Angiolello, che se la preveggenza nell’inferno non è errata,
saranno gettati fuori della loro nave, e affogati presso Cattolica per il tradimento di uno sleale tiranno.
Guido del Cassero e Angiolello di Carignano furono uccisi, secondo alcuni, nel 1312, poco dopo che Malatestino da Verrucchio (cfr. canto XXVII, verso 46) successe al padre nella signoria di Rimini. Il fatto non è comunque storicamente accertato. Così il Lana illustra la profezia di Pier da Medicina: Guido del Cassero e Angiolello di Carignano "furon richiesti da Malatestino de’ Malatesti da Arimino di parlamentare insieme per provvedere al buono stato della contrada; e ordinonno lo parlamento alla Cattolica, per luogo comunale: seppe sì ordinare lo detto Malatestino, ch’elli li fece uccidere".
Fra le isole di Cipro e di Maiorca Nettuno non vide mai un misfatto così grande, né da parte di pirati, né da parte di Greci.
Nota finemente il Malagoli che "l’accento di sdegno del peccatore contro il tradimento fello di Malatestino si congiunge al senso della propria colpa, che emana dalle prime parole (tu cui colpa non condanna, verso 70) e al tremito di delicati affetti che anima i versi successivi; e anche in seguito, quando l’anima presenterà a Dante un altro peccatore, il senso del peccato e della colpa spira dalle parole (versi 96-99)".
Quel traditore (Malatestino da Verrucchío, cieco d’un occhio) che vede soltanto con un occhio, e signoreggia la città che uno che è qui con me vorrebbe non aver mai visto,
li inviterà a un abboccamento con lui; dopo farà in modo che essi non avranno più bisogno né di voti né di preghiere per scampare dal vento dei monte Focara ".
Il Lana spiega che "Focara è un luogo sopra mare nella Marca, tra Pesaro e la Cattolica, in lo qual luogo è spesso di gran fortune [tempeste]; e usano molto li marinari, che si trovano in quello luogo al tempo della fortuna, di pregare Dio e li santi e di fare molti voti"; i versi 89-90 stanno quindi a significare che Guido e Angiolello saranno uccisi prima di giungere in quel luogo. L’atroce fatto di sangue che il dannato pronostica a Dante non ha nulla di indeterminato, non si cela nelle immagini enimmatiche che rendono così potentemente suggestive altre profezie di dannati (per esempio quella di Vanni Fucci). Ma la cornice in cui esso si svolge conferisce alle sue esatte determinazioni (la perifrasi del verso 85 incombe tuttavia minacciosa, senza circostanziarsi: il traditor che vede pur con l’uno vi assume dimensioni gigantesche: quelle dei male insondabile) il respiro della tragedia. Osserva il Momigliano che la terzina 82-84 "dà al fatto proporzioni straordinarie" e che "l’orizzonte immenso del Mediterraneo lo allarga fantasticamente", mentre l’espressione poi farà sì, ch’al vento di Focara... "ha la medesima latitudine di quell’orizzonte marino. E per effetto di questo racconto di stile così unitario il truce fatto è circondato costantemente da una potente ventata di fortunale".
E io a lui: " Mostrami e spiegami, se vuoi che io rechi nel mondo notizie di te, chi è colui al quale è stata dolorosa la vista (di Rimini) ".
Allora appoggiò la mano sulla mascella di un suo compagno e gli aprì la bocca, gridando: " E’ proprio lui, e non parla.
Costui, esiliato (da Roma), tolse a Cesare ogni esitazione, sostenendo che chi è preparato sempre sopporta con danno l’indugio ".
Oh quanto mi sembrava avvilito con la lingua recisa nella gola, Curione, che fu così audace nel parlare!
Secondo quanto narra Lucano nella Farsaglía (I, versi 261 sgg.), il tribuno della plebe Caio Curione, costretto a fuggire da Roma perché troppo apertamente aveva preso le parti di Cesare, convinse il triumviro reduce dalla Gallia a varcare il Rubicone con queste parole: "Mentre i partiti trepidano, non consolidati da alcuna forza, tronca gli indugi: è sempre stato dannoso dilazionare le cose già pronte". Egli appare agli occhi di Dante come il vero responsabile della guerra civile tra Cesare e Pompeo, e quìndi, in quanto seminatore di discordia, colpevole. "Considerato in se stesso e nelle sue conseguenze immediate, il consiglio da lui dato a Cesare fu la causa della sua dannazione; ma fu quel consiglio che liberò al volo inenarrabile il sacrosanto segno dell’aquila [cfr, Paradiso canto VI) e scatenò gli eventi onde per volere di Roma nacque l’Impero. Talché se Cesare, " primo principe sommo ". è tra gli spiriti magni nella luce del nobile castello (Inferno IV, verso 123) e Curione quaggiù nella nona bolgia sozza, questi ci appare come lo strumento inconsapevole e la vittima tragica della sacra volontà della storia." (RossiFrascino)
Da notare la cruda contrapposizione, messa in maggiore evidenza dalla rima, tra l’audacia di un tempo - irresponsabile leggerezza di chi sommerse in Cesare ogni esitazione - e lo sbigottimento attuale del dannato, posto non solo in condizione di non poter parlare, di non poter giustificare in un modo qualsiasi il suo operato, ma condannato quasi a non essere più in grado di afferrarne il significato. Privato della parola, Curione sembra non aver più nemmeno la facoltà di pensare: non ha vita propria, è ormai soltanto un fantoccio dolorante, un monito terribile proposto alla meditazione di chi ha ancora la possibilità di salvarsi.
E uno che aveva entrambe le mani tagliate, alzando i moncherini nell’aria tenebrosa, così che il sangue gli imbrattava il volto,
urlò: " Ti ricorderai anche del Mosca, che dissi, ahimè!, "Cosa fatta non può disfarsi, parole che furono origine di sventure per i Toscani ".
E io replicai: " E rovina della tua stirpe "; per cui egli, aggiungendo dolore a dolore, se ne andò via come una persona esacerbata e fuori di sé.
A Mosca dei Lamberti (cfr. Inferno VI, verso 80) gli storici fiorentini del Trecento fanno risalire la divisione dei cittadini di Firenze in Guelfi e Ghibellini, seguita all’uccisione (1215), ad opera della famiglia degli Amidei, di Buondelmonte dei Buondelmonti. Non avendo quest’ultimo mantenuto fede alla promessa di sposare una fanciulla degli Amidei, costoro si radunarono insieme ai loro consorti per decidere sul modo di punirlo. Fu in quell’occasione che "il Mosca de’ Lamberti disse la mala parola: " Cosa fatta, capo ha ", cioè che fosse morto: e così fu fatto" (Villani - Cronaca V, 38). Mosca dei Lamberti morì a Reggio, dove ricopriva la carica di podestà, nel 1243. I Lamberti furono banditi da Firenze, insieme con gli altri Ghibellini, nel 1258 ed esclusi dai provvedimenti di amnistia dei 1268 e 1280, anno a partire dal quale non si sa quasi più nulla di loro. La presentazione che il Poeta fa della figura di questo peccatore, promotore anch’egli, come Curione, di una lunga vicenda di odi e di violenze (ma annoverato, nell’episodio di Ciacco, tra coloro ch’a ben far puoser, li ‘ngegni), è tragica. priva delle sottolineature grottesche le quali rendono mostruose, irriducibili ad una misura umana, le figure di Maometto o di Curione. Mosca è consapevole del male che ha arrecato a sé (la dannazione), a Firenze, alla sua stirpe. "Lo lacerano il sentimento della patria e quello della famiglia: e questo fa più acuto l’altro. Botta e risposta, dogliose ed acri, che riconducono il pensiero nostro alla scena tra il Poeta e Farinata." (Crescini)
Ma io restai a osservare fissamente la schiera dei dannati, e vidi una cosa, che avrei timore di riferire da solo, senz’altra testimonianza,
ma mi rende sicuro la coscienza, che è la valente compagnia che infonde coraggio all’uomo sotto la protezione della sua purezza.
Senza alcun dubbio vidi, e mi pare ancora di vederlo, un tronco privo di testa camminare come camminavano gli altri dannati della sciagurata schiera
e con la mano teneva sospeso per i capelli il capo mozzato come fosse stato una lanterna; e quello ci guardava, e diceva: " Ohimè! "
Il dannato che avanza, con passo in tutto simile a quello dei suoi compagni di pena (come nota il Momigliano, dopo che il verso 118 ha sottolineato "l’allucinante evidenza della visione", la frase successiva "mette dinanzi agli occhi l’incredibile naturalezza di quel camminare di un busto senza capo"), tenendo in mano la propria testa a guisa di lanterna (immagine suggerita dalla presenza nella testa degli occhi e del cerebro - cfr. verso 140 - l’organo attraverso cui istituiamo un ordine, una luminosa evidenza nel mondo e in noi stessi), è Bertran de Born, signore dei castello di Hautefort in Aquitania e rinomato poeta provenzale. Vissuto nella seconda metà del secolo XII, fu amico di Enrico Il, re d’Inghilterra e duca d’Aquitania, e del figlio di lui, Enrico III soprannominato il Re giovane, che il padre aveva associato al trono. Dante accoglie la voce second o la quale Enrico III si ribellò al padre dietro i consigli di Bertran de Born.
Acuta e suggestiva è l’analisi che della presentazione di questa figura fa V. Rossi: "Il busto, privo di testa e quindi senza occhi, camminava guidato da’ " suoi " occhi, come il capo privo del busto e delle gambe, portato dalle " sue " gambe. Ma nella potente frase dantesca (verso 124) il busto e il capo diventano una cosa sola (di sé... a sé) , perché, scissi, li unifica l’unità dello spirito... La volontà dello spirito uno s’attua in associazioni di moti novissime e miracolose (versi 128-129), secondo la novissima e miracolosa condizione del corpo duplice ed uno... Lo sfondo insanguinato (verso 2) svanisce ormai nella lontananza... la fantasia del Poeta appare liberata dalla purpurea ossessione del sangue, è tutta assorta in un religioso stupor di miracolo".
Con gli occhi della propria testa guidava il suo corpo, ed erano due parti in un corpo e un corpo in due parti: come ciò può avvenire, lo sa Dio che così dispone.
Quando si trovò proprio alla base del ponte, levò alto il suo braccio insieme con la testa, per farci giungere meglio le sue parole,
che furono: " Osserva dunque la pena angosciosa tu che, vivo, te ne vai guardando i morti: vedi se ce n’è una straziante come la mia.
E affinché tu possa recare notizie di me, sappi che io sono Bertran de Born, colui che diede al Re giovane i cattivi consigli.
Feci diventare il padre e il figlio nemici tra loro: Achitofel non causò maggior danno ad Assalonne e a Davide con i suoi perfidi incitamenti.
Achitofel, consigliere di Davide, istigò Assalonne a ribellarsi al padre e ad ucciderlo (II Samuele XV, 12 sgg.; XVI, 15 sqg.; XVII, I sgg.), Riguardo all’espressione in sé ribelli, il Mattalia rileva che, essendo tanto Enrico Il d’Inghilterra che suo figlio Enrico III investiti dell’autorità regia, "erano due-uno [cfr. verso 125; un’espressione analoga ricorre nella descrizione della seconda metamorfosi della bolgia dei ladri; Interno XXV, 77]. e ognuno, ribellandosi all’alter ego, veniva a trovarsi in stato di ribellione anche contro se stesso. Solo così interpretando si può spiegare come l’idea del reato di ribellione si possa applicare a un padre nei confronti del figlio".
Poiché io divisi persone così unite, reco il mio cervello diviso, misero me!, dalla sua orìgine (principio: il midollo spinale) che sta in questo busto.
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