LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: introduzione alle Epistole


Introduzione alle Epistole
- Giuseppe Bonghi -

      Già Giovanni Boccaccio nel Trecento e Leonardo Bruni nel Quattrocento testimoniano che Dante abbia scritto in vita molte lettere, alcune delle quali i due autori citati avevano visto con i propri occhi e di cui parlano nella vita di Dante da loro scritta. In particolare Boccaccio scrive che Dante «fece ancora molte epistole prosaiche in latino, delle quali ancora appariscono assai». Ma purtroppo poco ci è rimasto, se non queste tredici che ora proponiamo all'attenzione dei lettori della nostra biblioteca.
      Le Epistole di Dante furono pubblicate assai tardi; la prima edizione è quella curata da Carlo Witte nel 1827, con sette lettere, cui se ne aggiunsero altre 4 pubblicate da Alessandro Torri nel 1843. Per il resto bisogna aspettare il secolo nostro perché veda la luce il corpus di tredici lettere così come lo conosciamo.
      Per quanto riguarda lo stile bisogna considerare i tempi in cui sono state scritte, tempi in cui la cultura stava lentamente uscendo dalla sua condizione di privilegio in dotazione di pochi. Così ne scrive il Torri: «Le forme latine non son diverse da quelle che crear potea il tercento, quanto aureo nell'uso moderno, altrettanto ferreo nell'antico,; non essendo punto meglio scritte le altre opere latine dello stesso autore, le quali allo stile di queste in tutto si conformano; e che il fraseggiare vi è tutto scritturale e sopraccarico d'induzioni filosofiche e teologiche, se non in quanto vi apparisce ad ora ad ora qualche qualche fior virgiliano... Sotto la ruvida corteccia esteriore corre un succo interno di pensieri, che produce bellissimi frutti di sapienza, e talvolta nelle stesse parole trasfondendosi le riempie di tal maestà e grandezza, che vince le ruggini del secolo, e cangia in oro il ferro come si vede là dove il proscritto non meritevole inveisce con impeto d'eloquenza contro i Fiorentini».
      Nella seconda metà dell'Ottocento abbiamo l'edizione di Pietro Fraticelli (Il Convito di Dante Alighieri e le epistole, con illustrazioni e note di Pietro Fraticelli e d'altri, Firenze, editore G. Barbera, VIII edizione 1900) dalla quale abbiamo attinto molte delle notizie qui riportate.

      Scrive Angelo Jacomuzzi: «Delle epistole dantesche pervenute fino a noi, dodici possono essere sommariamente raccolte in tre gruppi, conformemente alle motivazioni e ai temi che le caratterizzano.
      Un primo gruppo è costituito da lettere di carattere strettamente occasionale, legate a circostanze e convenzioni di natura diplomatica o curiale; sono:
  -   la lettera di condoglianza per la morte di Alessandro da Romena, inviata ai nipoti Guido e Oberto (la II);
  -   le tre brevi lettere scritte da Dante per conto di Gherardesca (moglie di Guido di Battifolle conte Palatino) dal castello di Poppi e indirizzate a Margherita di Brabante, consorte di Arrigo VII, agli inizi dell'impresa imperiale in Italia (VIII-IX-X).
       Un secondo gruppo, di maggior rilievo, è costituito da testi di corrispondenza direttamente legati alla vicenda biografica e intellettuale del poeta:
  -   le lettere a Cino da Pistoia (III) e a Moroello Malaspina (IV), che, accompagnatorie rispettivamente di un sonetto e di una canzone, ci riconducono alla convenzione, qui arricchita e dilatata nella prosa epistolare, della corrispondenza poetica;
  -   la XII, indirizzata all'ignoto amico fiorentino, dove l'occasione dell'amnistia politica e il rifiuto di piegarsi alle sue condizioni offrono a Dante lo spunto per abbozzare un ritratto di sé che è il più alto e persuasivo, fuori della Commedia, che egli ci abbia lasciato.
        Un altro gruppo, infine, raccoglie le epistole più propriamente politiche (I, V, VI, VII, XI) e rappresenta anche nell'ambito di ciò che rimane dell'epistolario dantesco, la sezione più ampia per estensione materiale e per numero; tra queste la quinta, la sesta e la settima formano un blocco unico e compatto sia per spazio di tempo (dal settembre-ottobre 1310 all'aprile 1311) sia per l'occasione e l'oggetto convergenti sull'evento della discesa di Arrigo VII in Italia. Dalla prima (un breve intenso messaggio, ma tutto redatto nei termini della convenzione diplomatica) al cardinale Niccolò da Prato, del 1304, alla undecima ai cardinali italiani del 1314, le lettere politiche abbracciano un decennio decisivo per la storia esterna di quegli anni e per la storia interiore del poeta: dall'inizio del pontificato di Clemente V e della cattività avignonese della Chiesa alle ultime speranze nella successione al soglio di Pietro di un vescovo italiano e nel ristabilimento della sede papale in Roma, subito frustrate e deluse con la elezione del caorsino Giovanni XXII; dalla partecipazione ai tentativi dei Bianchi per rientrare in Firenze (alla vigilia dell'impresa della Lastra che, per l'assenza di Dante, segnerà l'allontanamento del poeta dalla sua parte) al riaccendersi delle speranze, del fiorentino e dell'italiano, per la venuta di Arrigo VII sino al fallimento dell'impresa imperiale che condurrà Dante a fissare l'oggetto delle sue attese sul piano espressamente religioso, nell'auspicio corroborato da una speranza teologale, del rinnovamento e della purificazione della Chiesa». (Opere minori di Dante Alighieri, vol. II, p. 325 e seguenti, U.T.E.T. Torino 1986)

Epistola I
A Niccolò Albertini da Prato

      Nei manoscritti della Biblioteca Vaticana Palatina, fra quelli che Massimiliano di Baviera donò a papa Gregorio XV, insieme al De Monarchia e alle dodici egloghe di Petrarca, si trovano nove epistole. Questa, che ormai convenzionalmente tutti pongono come prima nel corpus.
      La lettera è indirizzata al cardinale d'Ostia Niccolò Albertini da Prato ed è scritta a nome non solo del conte Alessandro Guidi da Romena, Capitano del Consiglio dei Dodici, ma anche dello stesso Consiglio dei Dodici Ghibellini, di cui Dante faceva parte, come narra Leonardo Bruni: "Finalmente (i fuorusciti) fermarono la sedia loro in Arezzo, e quivi fecero campo grosso; e crearono loro capitano il conte Alessandro da Romena, e fecero dodici consiglieri, del numero de' quali fu Dante."
         Il cardinale d'Ostia, persona accorta e nemica degli eccessi di tutte e due le parti politiche in lotta, fu dal papa benedetto XI, sul principio del 1304, inviato in Toscana, con autorità di legato e messo di pace, e giunse in Firenze il 10 marzo, guadagnandosi ben presto la fiducia sia dei Guelfi che dei Ghibellini; il cardinale si mostrò benevolo anche verso i fuorusciti, ai quali inviò un certo frate L***, colla promessa scritta che sarebbero stati reintegrati nei loro diritti e che la patria sarebbe stata riordinata secondo i loro desideri. I fuorusciti replicarono al cardinale con questa lettera, mostrando la loro più sincera e viva gratitudine, affermando, tra l'altro, di aver brandito le armi solo per tentare di ricondurre i loro avversari ai principi di buona convivenza civile e politica e che la loro intenzione mirava alla pace e alla libertà del popolo fiorentino. E poiché Frate L*** chiedeva loro di astenersi da qualsiasi uso delle armi, conformemente all'incarico ricevuto, i fuorusciti ne facevano formale e solenne promessa, rimettendo nelle mani del cardinale completamente la ricomposizione della questione e le condizioni di pace.
         Ma le benevole intenzioni del cardinale e i desideri dei fuorusciti non portarono ad alcuna conclusione, tanto che i Neri, che erano rimasti padroni di Firenze, ebbero il sospetto che il cardinale volesse favorire i Bianchi, e lo persuasero l'8 di maggio a recarsi a Prato e Pistoia. Mentre il cardinale si trovava lontano da Firenze, i Neri, per mezzo di lettere false, diffusero la voce che si era messo d'accordo coi Bianchi per mutare lo stato della Repubblica con grave danno dei Neri. Per questo, non appena tornato in Firenze, vide che il favore del popolo era mutato e che i capi del Comuni non gli davano più ascolto; per questo, irritato, abbandonò la città, lanciandole contro l'interdetto.
         Gli storici affermeranno in seguito che, essendo il Cardinale di famiglia Ghibellina, propendeva piuttosto per i Neri che per i Bianchi, come afferma anche il Villani, che pure era Guelfo,, che mette in evidenza le rette intenzioni del prelato (Villani, Croniche, libro VIII, cap. 69).

Epistola II
Ai conti Guidi

         La lettera è inviata a Oberto e Guidi dei Conti Guidi, nipoti del conte Alessandro da Romena e fu pubblicata da Alessandro Torri. Dante scrive per condolersi della morte dello zio Alessandro, esortandoli a farsi eredi delle sue virtù così come erano eredi delle sue sostanze, scusandosi di non poter partecipare ai funerali a causa della povertà in cui versava dal momento in cui era stato cacciato da Firenze, privo com'era anche di cavalli e di armi.
         Dante era legato ad Alessandro da Romena da vincoli sia di amicizia che di politica, appartenendo entrambi alla fazione dei Bianchi.
         "I conti Guidi, nati del ceppo di Guido il vecchio e della bella Gualdrapa, figlia di Bellincion Berti, moltiplicatisi in vari rami, e non sempre fa lor concordi ne' principii politici, erano di coloro che,, per usare la frase del nostro poeta, mutavan parte dalla state al verno. Nel 1304 con Alessandro alla testa li abbiamo già veduti ghibellini; nel 1306 dopo che Alessandro era morto, appariscono, dal documento delle Riformagioni (Lib. Prov. num. 14, pag. 33), divenuti Guelfi; e Guelfi pure, e nemici d'Arrigo, appariscono dal documento del 7 luglio 1311 citato dal Padre Ildefonso nelle Delizie degli Eruditi Toscani, vol. VIII, pag. 182. Ghibellini li veggiamo tornati ben presto, cioè nel 6 settembre dello stesso anno 1311, essendoché sono eccettuati dalla riforma o amnistia di Baldo d'Aguglione, per cui vedi l'or ricordato Padre Ildefonso, vol. XI, pag. 89: e Ghibellini manteneansi pure l'anno appresso, poiché nelle Riformagioni e nella Biblioteca Rinucciniana trovasi un diploma, dato in Roma appresso le milizie 7 giugno 1312, Ind. X col quale Arrigo VII prende sotto la sua protezione la persona e i beni d'Aghinolfo da Romena conte Palatino di Toscana".
         Questa la storia dei Conti Guidi nel frangente che ci interessa, narrata dal Fraticelli (op. cit. pag. 420).
         La morte di Alessandro da Romena "era una sventura gravissima per tutti, ma più che tutti, a Dante", che in quel tempo si trovava in Arezzo. Gli veniva a mancare non solo il soccorso contro la povertà, ma soprattutto la scomparsa di una guida che spezza le speranze politiche di rientrare in Firenze; e la povertà di Dante quasi sparisce di fronte al danno che colpisce i Guelfi.

Epistola III
A Cino da Pistoia

         La lettera fa parte del codice VIII, Plut. XXIX della Biblioteca Laurenziana e pur non esprimendo il nome di Dante se non per mezzo della iniziale D (Epistola D. de Florentia), fu attribuita a Dante sia per per le parole de Florentia, sia per il contenuto..
         La lettera è la risposta di Dante a un'Epistola di Cino da Pistoia, nella quale  questi chiedeva se la nostra anima possa passare di passione in passione; la risposta di dante è accompagnata da un componimento, che secondo il Witte fu la canzone Voi che intendendo, e che probabilmente trattava di quell'amore allegorico che da sensuale si tramuta in intellettuale (come Dante testimonia nel Convivio) e che accese l'animo di Dante dopo la morte di Beatrice.
         Che Cino da Pistoia, dopo la morte di Selvaggia, la sua donna, passasse da un amore all'altro e si dimostrasse molto incostante, è cosa ormai certa secondo la testimonianza di molti biografi e dello stesso Dante che così scrive nel sonetto XL delle sue Rime:

I' ho veduto già senza radice
legno ch'è per omor tanto gagliardo
che que' che vide nel fiume lombardo
cader suo figlio, fronde fuor n'elice; 

ma frutto no, però che 'l contradice
natura, ch'al difetto fa riguardo,
perché conosce che saria bugiardo
sapor non fatto da vera notrice. 

Giovane donna a cotal guisa verde
talor per gli occhi sì a dentro è gita
che tardi poi è stata la partita. 

Periglio è grande in donna sì vestita:
però l'affronto de la gente verde
parmi che la tua caccia non seguer de'. 

 
 
 
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         Nel finale dell'Epistola troviamo alcune parole di consolazione di Dante all'amico come lui sventurato e bandito dalla patria. L'esilio di Cino durò dall'anno 1307 al 1319, per cui possiamo affermare che questa lettera fu scritta proprio in questo lasso di tempo.

Epistola IV
A Moroello Malaspina

        Cinque anni dopo il suo esilio, Dante fu ospite dei Marchesi Malaspina in Lunigiana, dove trattò, e portò a compimento il 6 ottobre 1306, la pace tra alcuni di essi e il Vescovo di Luni. Dalla Lunigiana si pensa che sia passato nel Casentino e dimorasse per un po' nei castelli dei Conti Guidi.
         In questa lettera, scritta molto verosimilmente nel 1307, Dante si rivolge a Moroello Malaspina e narra che appena giunto sulle rive dell'Arno ( che traversa per lungo tratto il Casentino), gli era apparsa davanti agli occhi una donna, e che, malgrado ogni suo sforzo, Amore gli aveva cacciato via dalla mente ogni proposito di tenersi lontano dalle donne e dalla poesia amorosa e lo aveva completamente sottomesso alla propria signoria. E affinché meglio Moroello comprendesse la forza di questo amore, Dante univa alla lettera un componimento poetico su tale argomento.
         Che Dante si fosse innamorato di una donna del Casentino, alcuni biografi lo avevano scritto, ma né di lei né del componimento conosciamo qualcosa. Qualche critico ipotizza che si sia trattato della canzone Amor, dacchè convien pur ch'io mo doglia, nella quale (stanza 5 e tutta la chiusa) parlano di un nuovo innamoramento di Dante e descrivono abbastanza chiaramente il Casentino.
         Riportiamo la canzone:

Amor, da che convien pur ch'io mi doglia
perché la gente m'oda,
e mostri me d'ogni vertute spento,
dammi savere a pianger come voglia,
sì che 'l duol che si snoda
portin le mie parole com'io 'l sento.
Tu vo' ch'io muoia, e io ne son contento:
ma chi mi scuserà, s'io non so dire
ciò che mi fai sentire?
chi crederà ch'io sia omai sì colto?
E se mi dài parlar quanto tormento,
fa', signor mio, che innanzi al mio morire
questa rea per me nol possa udire:
ché, se intendesse ciò che dentro ascolto,
pietà faria men bello il suo bel volto.

Io non posso fuggir ch'ella non vegna
ne l'imagine mia,
se non come il pensier che la vi mena.
L’anima folle , che al suo mal s’ingegna,
com’ella è bella e ria,
così dipinge, e forma la sua pena;
poi la riguarda, e quando ella è ben piena
del gran disio che de li occhi li tira,
incontro a sé s’adira,
c’ha fatto il foco ond’ella trista incende.
Quale argomento di ragion raffrena,
ove tanta tempesta in me si gira?
L’angoscia, che non cape dentro, spira
fuor de la bocca, sì ch’ella s’intende,
e anche a li occhi lor merito rende. 

La nimica figura, che rimane
vittorïosa e fera
e signoreggia la virtù che vole,
vaga di se medesma andar mi fane
colà dov’ella è vera,
come simile a simil correr sòle.
Ben conosco che va la neve al sole,
ma più non posso: fo come colui
che, nel podere altrui,
va co’ suoi piedi al loco ov’egli è morto.
Quando son presso, parmi udir parole
Dicer: "vie via vedrai morir costui".
Allor mi volgo per vedere a cui
Mi raccomandi; e ‘ntanto sono scorto
Da li occhi che m’ancidono a gran torto. 

Qual io divengo sì feruto, Amore,
sailo tu, e non io,
che rimani a veder me sanza vita;
e se l’anima torna poscia al core,
ignoranza ed oblio
stato è con lei, mentre ch’ella è partita.
Com’io resurgo, e miro la ferita
Che mi disfece quand’io fui percosso,
confortar non mi posso
sì ch’io non triemi tutto di paura.
E mostra poi la faccia scolorita
Qual fu quel trono che mi giunse a dosso;
che se con dolce riso è stato mosso,
lunga fïata poi rimane oscura,
perché lo spirto non si rassicura. 

Così m’hai concio, Amore, in mezzo l’alpi,
ne la valle del fiume
lungo il qual sempre sopra me se’ forte:
qui vivo e morto, come vuoi, mi palpi,
merzé del fiero lume
che sfolgorando fa via la morte.
Lasso, non donne qui, non genti accorte
Veggio, a cui mi lamenti del mio male:
se a costei non ne cale,
non spero mai d’altrui aver soccorso.
E questa sbandeggiata di tua corte,
signor, non cura colpo di tuo strale:
fatto ha d’orgoglio al petto schermo tale
ch’ogni saetta lì spunta suo corso;
per che l’armato cor da nulla è morso. 

O montanina mia canzon, tu vai:
forse vedrai Fiorenza, la mia terra,
che fuor di sé mi serra,
vota d’amore e nuda di pietade;
se dentro v’entri, va’ dicendo: "Omai
non vi può far lo mio fattor più guerra:
là ond’io vegno una catena il serra
tal che, se piega vostra crudeltate,
non ha di rotornar qui libertate ".

 
 
 
 
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         Il capostipite dei Malaspina, Currado I l'antico, divise i possessi feudali con Obizzino e lasciò cinque figli; di uno di questi era figlio quel Corrado che Dante incontra nel Purgatorio, il cui secondogenito, Moroello, divise il casato nelle quattro branche dei Mulazzo, Giovagallo, Villafranca e Val di Trebbia. Di Moroello Malaspina i critici ne hanno individuato soprattutto due (di un terzo evitiamo di parlare perché al tempo dei fatti era un bambino e non era ancora maggiorenne quando nel 1319 gli morì il padre):
  - Moroello III capitano di parte Nera, marchese di Giovagallo, nominato da Dante in Inferno, XXIV,145, e chiamato vapor di Valdimagra, il quale nel 1302 inflisse ai Bianchi la nota sconfitta di Campo Piceno, cui allude  nei versi: E con tempesta impetuosa ed agra / sopra Campo Picen fia combattuto; fu figlio di Manfredi I (quindi cugino di Currado II e nipote di Currado I, ricordati nel canto VIII del Purgatorio) e sposò Alagia del Fiesco (vedi Purgatorio XIX,142); Moroello, secondo Boccaccio, ospitò Dante a Fosdinovo ingiungendogli di scrivere la Commedia
  -  Moroello figlio di Obizzino, marchese di Villafranca, che il 6 ottobre 1306 insieme al fratello Corradino e al cugino Franceschino Malaspina di Mulazzo, affida a Dante il compito di procuratore per trattare la pacificazione con Antonio Vescovo di Luni.
         Molti ragionevolmente propendono per il secondo, ma qualcuno, come il Witte, uno dei primi studiosi, spostando la data della scrittura della lettera al 1310, propendono per il primo, ma è difficile pensare che Dante potesse rivolgere una tale lettera a un personaggio di parte avversa, fiero e vecchio soldato, che, oltre a battere i Bianchi a Campo Piceno presso Serravalle, pose pure l'assedio a Pistoia, ultimo rifugio dei Ghibellini toscani, riducendola alla fame, occupandola in nome di Lucca e Firenze e quindi governandola col titolo di Capitano del popolo: a un fiero avversario e vecchio soldato non si può scrivere una lettera in cui si parla d'amore.

Epistola V
Agli Italiani

         Si può datare questa lettera, attraverso precisi riferimenti interni, tra il settembre e l'ottobre del 1310, perché contiene nel paragrafo finale un riferimento alla lettera enciclica di Clemente V (Exultet in gloria) del 1° settembre 1310, nella quale il papa invita ad accogliere ed onorare coi debiti onori l'imperatore che scenderà in Italia verso la fine di Ottobre.
         Alla notizia che Arrigo VII di Lussemburgo, eletto in Francoforte re dei Romani il 27 novembre 1308 e incoronato   nel gennaio dell'anno seguente in Aquisgrana, stava per scendere in Italia, in Dante si accendono nuove speranze, e sognando il trionfo dei Bianchi scrive questa lettera ai due re di Sicilia (Federigo) e di Napoli ( Roberto), ai senatori di Roma, ai duchi, ai conti, ai marchesi, ai popoli di tutta l'Italia. In essa il Poeta esprime la sua gioia nel veder sorgere segni di consolazione e di pace e annuncia che il Re dei Romani giunge "come restauratore della pace e del diritto atteso da uomini di terre e partiti diversi, Toscani e Lombardi, Guelfi e Ghibellini", e che, come dolce e umano signore, avrebbe concesso a tutti il suo perdono. Dante esorta le genti a dimostrarsi fedeli al Principe, perché chi resiste alla potestà imperiale, resiste agli ordinamenti di Dio, e chi resiste agli ordinamenti di Dio è simile all'impotente che recalcitra.
         E proprio perché il papa si dimostra favorevole alla discesa di Arrigo, Dante è disposto ad accantonare le antiche accuse, soprattutto quella di simonia, ritenendo che Clemente V avesse comprato la sua altissima carica, come scrive nell'Inferno (XIX, 82-84) e nel Paradiso (XVII, 82 e XXX, 145-148), bollandolo come simoniaco e ingannatore. Era giunta l'ora le Potestà della Chiesa e dell'Impero avrebbero potuto porre fine alle lacerazioni dell'Italia e restituire agli esuli la loro legittima patria.

Epistola VI
Agli scelleratissimi Fiorentini

         L'Epistola porta la data del 31 marzo 1311, scritta sulla fonte dell'Arno sulle montagne del casentino, probabilmente dal castello di Porciano, nei giorni in cui Arrigo stava per muovere il suo esercito contro Cremona e Brescia.
         "L'atteggiamento negativo dei Fiorentini nei confronti di Ludovico di Savoia nel luglio 1310, la loro assenza dall'omaggio reso a Losanna e poi in Torino all'imperatore da poco giunto in Italia nell'ottobre dello stesso anno, l'appoggio alla politica avve del re Roberto d'Angiò, confortato anche dall'atteggiamento ambiguo e preoccupato del papa, le opere di rafforzamento nelle difese della città e infine la decisione, nel gennaio del 1311, di fare lega col re di Napoli, con Lucca, Siena, Perugia e Bologna per resistere all'imperatore, costituiscono lo sfondo storico e politico e gli eventi di cronaca immediata che hanno motivato l'epistola." (Jacomuzzi)
         È una lettera piena di una fierezza evidente già nell'intitolazione, in cui i Fiorentini sono chiamati scelestissimi, cioè scelleratissimi.
         Dopo aver premesso che per il bene dell'umana società e convivenza civile è necessaria l'autorità della monarchia (che noi storicamente chiamiamo "Sacro Impero d'Occidente"), autorità che appartiene di diritto al Re dei Romani e questo è comprovato sia dalle parole divine che dalla stessa ragione in quanto cade nel disordine l'Italia quando la sede imperiale è vacante, Dante, rivolgendosi ai Fiorentini, li rimprovera di essersi ribellati contro l'autorità di Cesare. Dante pone quindi l'accento sul piano teologico e sacro, rispetto a quello razionale e filosofico, trattando del rapporto fra i popoli d'Italia e l'imperatore, chiarificando le basi del potere politico regio e giustificando la missione dell'imperatore in Italia.
         Un concetto, infine, è da mettere in evidenza, perchè è una considerazione importante e classica, da far risalire addirittura a Socrate e Platone: il rispetto delle leggi, scrive verso la fine del quinto paragrafo, non è servitù ma "summa libertas", la massima libertà, perché la libertà non è altro che il libero passaggio della volontà all'azione, passaggio facilitato proprio dall'esistenza delle leggi.
         Ventinove anni dopo questa epistola e le rampogne di Dante agli scelleratissimi Fiorentini, Arrigo VII di Lussemburgo moriva a Buonconvento, sui confini della provincia senese, a cinquantanni d'età, senza che la sua comparsa sotto Firenze avesse in qualche modo giovato alla causa dei ghibellini.

Epistola VII
Ad Arrigo VII

        L'Epistola è stata scritta il 17 aprile 1311 in Toscana presso le sorgenti dell'Arno, che si trovano sul Monte Falterona, montagna dell'Appennino che divide il Casentino dalla Romagna, per cui qualche critico ha ipotizzato che fosse stata scritta dal castello di Porciano, che si trovava a 5 miglia dalle sorgenti e era un possesso dei conti Guidi. L'imperatore si trovava ancora in Milano in procinto di recarsi con l'esercito ad assediare Brescia, ed è una delle tre ricordate da Giovanni Villani nella sua Cronica (la prima non ci è percenuta): "e in tra·ll'altre fece tre nobili pistole; l'una mandò al reggimento di Firenze dogliendosi del suo esilio sanza colpa; l'altra mandò a lo 'mperadore Arrigo quand'era a l'assedio di Brescia, riprendendolo della sua stanza, quasi profetezzando; la terza a' cardinali italiani, quand'era la vacazione dopo la morte di papa Chimento, acciò che s'accordassono a eleggere papa italiano; tutte in latino con alto dittato, e con eccellenti sentenzie e autoritadi, le quali furono molto commendate da' savi intenditori."
        
"Essa ci appare non solo come l'ultima di quelle dedicate all'impresa di Arrigo, ma anche la suprema, per ricchezza e concretezza tematica e per altezza oratoria. La lettera è motivata da pecise circostanze storiche: la lunga sosta in Lombardia dell'imperatore occupato a sedare le discordie milanesi seguite alla cacciata  dei guelfi Torriani per mano dei Visconti ghibellini e già preoccupato delle ribellioni di altri comuni minori (Lodi, Crema, Brescia, Bergamo, Mantova, Padova, Cremona). Scritta due giorni prima che Arrigo lasci Milano per marciare su Cremona, essa manifesta la lucidissima intuizione che altrove è il centro effettivo della opposizione all'impresa imperiale, e precisamente nella lega che si era stabilita tra re Roberto e altre città dell'Italia centrale, e fra queste soprattutto Firenze, verso la quale l'imperatore deve muovere senza indugi." (Jacomuzzi).
         Nell'ottobre 1310 Arrigo discende in Italia e si ferma prima in Torino e poi in Asti per comporre le discordie fra guelfi e ghibellini e sedare gli odi di parte che duravano ormai da molti anni. Verso la fine di dicembre si trasferisce in Milano, sempre cercando di metter pace, mandando un Vicario laddove di persona non avrebbe potuto andare e mostrandosi mite e benevolo. In Milano, nonostante qualche opposizione dei Torriani, fu incoronato con la corona di ferro il giorno dell'Epifania del 1311, ricevendo il giuramento di fedeltà (vassallaggio) di quasi tutte le città italiane, tranne Genova, Firenze e Venezia. Credeva di aver sostanzialmente pacificato l'Italia settentrionale, dopo aver mandato Vicari a Como, Mantova Brescia e Piacenza, e in altre città meno importanti, tranne a Verona che già si era mostrata fedele all'impero. Per potersi assicurare la fedeltà della Lombardia decise di portare con sè nel suo viaggio a Roma, un gruppo di rappresentanti dei Guelfi e dei Ghibellini, venticinque per parte, nominati appositamente dal partito avversario, e creando un Vicario generale per la Lombardia nella persona del Conte di Savoia.
         Le nomine generarono comunque dispute e accuse reciproche insieme alle difficoltà per recuperare i soldi per pagare il Vicario generale, tanto che le due parti, ghibellini capitanati dai Visconti e guelfi capitanati dai Torriani cominciarono a nutrire sospetti reciproci. Cominciarono gli scontri fra le due fazioni e i Torriani furono sconfitti e cacciati da Milano, nella quale avevano fino a quel momento mantenuto un largo predominio, e fu fatto in modo che mai più potessero rimettere piede nella città.
         Questa cacciata originò a sua volta un fuovco di ribellione, che esplose il 20 febbraio, quando Mantova, Padova, Lodi, Crema, Bergamp, Brescia e Cremona dichiararono di non voler più ubbidire all'autorità imperiale. Arrigo rimase incerto, se dovesse procedere verso Firenze, e castigarla, e Roma per  prendere la corona imperiale, o prima castigare le città ribelli. Su consiglio di Frate Gualdrano, rivolse le armi innanzitutto contro Cremona, con le lamentele di tutti i ghibellini che aspettavano l'imperatore in Toscana e speravano di rientrare in Firenze.
         Mentre l'imperatore era accampato sulle rive del Po, intento all'assedio, Dante, impaziente per il tempo che si stava consumando inutilmente nell'attesa scrisse questa lettera a nome anche degli altri fuorusciti toscani. In essa in Poeta scrive che i suoi fedeli toscani si meravigliano del ritardo della sua venuta e che la vittoria finale non poteva essere ottenuta contro le città lombarde, ma contro la Toscana e Firenze, e che sarebbe stato dannoso il differire ulteriormente l'assalto. La lettera si chiude con un invito a rompere gli indugi, predicendogli un sicuro trionfo che porterà la pace non solo alla Toscana, ma a tutta l'Italia.
         La lettera, scrive ancora Jacomuzzi, " è la più ricca e distesa nelle citazioni classiche e scritturali, e per le seconde, la più ardita nella caratterizzazione sacrale dell'imperatore; ma la sua originalità che preme all'interno dei moduli della tradizione retorica, sta nella compresenza di una attenzione concreta ai dati particolari della situazione."

Epistola VIII

       La lettera, che non è esplicitamente attribuita a Dante, è contenuta nel Vaticano-Palatino 1729, uno dei codici che, come afferma il Fraticelli, Massimiliano di Baviera donò a papa Gregorio XV. Il codice contiene,  insieme al De Monarchia e alle dodici egloghe di Petrarca, nove epistole di Dante, tra le quali quelle comunemente contrassegnate coi numeri VIII-IX-X, ed occupano il posto il posto tra la lettera che viene indicata nelle varie raccolte raccolte a stampa col numero VI (Epistola ai fiorentini) e quella che verrà indicata col n. II (Epistola ai conti Guido e Oberto da Romena). Non tutti sono d'accordo nell'attribuire queste tre epistole a Dante, perché manca qualsiasi logico riferimento a una loro autentica composizione di mano del Poeta; ma ciononostante, il fatto che fossero state trascritte tra le epistole di Dante, le convergenze con altri luoghi danteschi, l'atteggiamento nei confronti dell'Impero e che Dante conosceva Caterina di Battifolle, della quale era stato anche ospite ben accolto, fa propendere molti critici a pensare che Dante le avesse scritte a nome della contessa.
      Scrive il Fraticelli, fra coloro che negano l'attribuzione a Dante: "Le tre lettere appartengono alla contessa Caterina di Battifolle, moglie del conte Guido Salvatico, signore di Poppi. Perciocché queste si veggono unite nel codice Vaticano a sei di Dante, suppose il Torri, e supposero altri, che fossero alla contessa state dettate da Dante, quasi come di lei segretario. Ma volendo pur dare a questa ardita ipotesi il valore d'un fatto vero o reale, consegue forse che le tre lettere all'Alighieri appartengano? Qual relazione a Dante possano avere le proteste di fede e augurii di felicità, che la contessa Caterina fa a Margherita di Brabante, moglie d'Arrigo VII? E quelle lettere contengon elle almeno una qualche notizia storica d'importanza, sì che, illustrando i tempi di Dante, non demeritino di far corredo agli scritti di lui; quando, secondochè dice lo stesso Torri, Caterina non fa in esse che ringraziare la cortesia della imperatrice, e darle nuove di sè e della sua famiglia? Con ragione io credo adunque di poterle escludere dall'epistolario di Dante."
      Sul piano storico le lettere confermano la permanenza di Dante nel castello di Poppi, nel Casentino, nel feudo dei Conti Guidi, al confine del territorio fiorentino in un momento in cui l'impresa di Arrigo VII avrebbe potuto veramente decidere i destini da una parte dell'Italia divisa e disordinata dagli appetiti di molti e dall'altra dei fuorusciti ghibellini fiorentini.
      L'epistola fu scritta presumibilmente tra l'estate 1310 (v. Fraticelli) e l'aprile del 1311 (v. Jacomuzzi), in concomitanza con la prima fase settentrionale della discesa di Arrigo VII di Lussemburgo in Italia, mentre gli emissari dell'imperatore visitavano le varie importanti città dell'Italia settentrionale per guadagnare alla causa imperiale gli indecisi e per incoraggiare gli altri che già erano fedeli. La lettera contiene grandi ringraziamenti da parte di Gherardesca di Donoratico, figlia del Conte Ugolino della Gherardesca e moglie di Guido Simone di Battifolle, dei Conti Guidi, per la particolare prova d'affetto che l'imperatrice Margherita di Brabante (che morirà a Genova, dove verrà sepolta il 14 dicembre 1311) ha voluto darle mandandole notizie di se stessa e del marito e augurandole che l'Impero possa essere restaurato dalle gloriose imprese del Principe Enrico in un'epoca che si presenta delirante.

Epistola IX

       (per la parte generale vedi l'introduzione alla lettera VIII)
         Questa seconda lettera esprime quanto Gherardesca di Donoratico, figlia del Conte Ugolino della Gherardesca e moglie di Guido Simone di Battifolle, dei Conti Guidi, prenda parte alla gioia dell'imperatrice Margherita di Brabante (che morirà a Genova, dove verrà sepolta il 14 dicembre 1311) consorte di Arrigo VII di Lussemburgo per i felici avvenimenti che le aveva comunicato per lettera, forse quelli di Asti del novembre 1310 (che porterebbero a una approssimativa datazione di questa lettera al periodo prenatalizio di quello stesso anno, secondo il Fraticelli), oppure alla pacificazione di Lodi conseguita dall'imperatore dopo la sua partenza da Milano del 19 aprile e ai progressi della sua azione contro Cremona. Noi propendiamo per l'ipotesi Fraticelli, perché il 17 aprile Dante aveva scritto all'imperatore una lettera addirittura furente in qualche punto, invitandolo a rompere gli indugi, a non perdere tempo in Lombardia, perché il male da estirpare si trovava in Toscana.

Epistola X

       (per la parte generale vedi l'introduzione all'Epistola VIII)
       Questa terza lettera, scritta da Gherardesca di Donoratico, figlia del Conte Ugolino della Gherardesca e moglie di Guido Simone di Battifolle, dei Conti Guidi, all'imperatrice Margherita di Brabante (che morirà a Genova, dove verrà sepolta il 14 dicembre 1311), è l'unica datata: scritta a Poppi, val d'Arno superiore il 18 maggio 1311, e "contiene nuove proteste di congratulazione; alle quali sull'espressa domanda dell'imperatrice ella aggiunge alcune parole sullo stato di sua salute, di quella del suo marito, e de' figli (Fraticelli).

Epistola XI
Ai cardinali italiani

         Dopo la morte di Clemente V, 24 cardinali si radunarono in conclave a Carpentras, cittadina della Provenza, sei italiani e 18 francesi o devoti alla parte francese; i primi volevano un papa italiano che riportasse la sede pontificia in Roma, por porre fine ai mali che laceravano la Chiesa e l'Italia, ma troppo forte era il partito francese, da cui già era uscito il precedente papa, per lasciarsi sfuggire una elezione che ritenevano molto importante.
         Dante scriva quindi questa lettera, indirizzata ai cardinali italiani che già stavano partecipando al conclave, affermando il suo attaccamento alla religione cattolica e il suo profondo dolore nel vedere Roma e la sede pontificia abbandonata e deserta e il diffondersi della piaga delle eresie, fino a rimproverare aspramente i prelati a non condurre il gregge dei fedeli a Cristo per false vie e a non far mercato delle cose sacre. Infine volge la parola ai cardinali Napoleone Orsini e Francesco Gaetani (gli altri quattro erano Iacopo e Pietro Colonna, Guglielmo Longo e Niccolò da Prato) per esortarli a tener presente la misera Roma sola e vedova delle sue due luci, il papa e l'imperatore. Ma vani furono i voti di Dante e gli sforzi dei cardinali italiani, perché troppo potente e prepotente era il partito dei Guasconi, reso più forte dall'ambizione del re di Francia.
         L'asprezza di Dante è giustificata dallo svolgersi degli eventi: già il papa guascone Clemente V, così riportano concordemente gli storici dell'epoca, era stato eletto con "uno sconvenevole e vergognoso accordo" con Filippo IV il Bello (il Continuatore del Baronio, Giovanni Villani, Martino Polono, lo stesso biografo del pontefice); nel corso del suo pontificato la Chiesa, afferma lo stesso Napoleone Orsini che partecipò al conclave per eleggere il successore, cade in una estrema rovina, spogliata e confusa, tutta l'Italia lasciata sola e abbandonata, porta la sede papale in un angolo lontano della Guascogna e queste cose le aveva concepite sin dai primi momenti del suo pontificato.
         Durante il conclave i cardinali italiani appoggiarono l'elezione di Guglielmo vescovo di Preneste, di conosciuta onestà, che avrebbe portato a Roma  la sede papale: ma difficile era raggiungere un accordo. Il 14 luglio, i cardinali francesi, appoggiati da bande guasconi guidate da Bertrand de Born, nipote del defunto pontefice Clemente V, irruppero colle spade in mano nel conclave minacciando i cardinali italiani che furono costretti a sgombrare il salone e a fuggire. Dopo due anni di trattative, le due fazioni tornarono a riunirsi, senza che Luigi X, primogenito di Filippo il Bello e suo successore al trono, riuscisse a metterle d'accordo. Ma il 28 giugno 1316 Filippo V, fratello di Filippo IV, succedutogli nel frattempo aul trono, si impose con la forza e rinchiuse i cardinali presenti a Lione nel convento dei Domenicani: il 7 agosto venne nominato il nuovo papa , il guascone Jacques-Arnaud d'Euse, nativo di Cahors che assunse il nome di Giovanni XXII, che fissò la sua residenza ad Avignone di cui era vescovo.

Epistola XII
All'amico fiorentino

L'abate Mehus studiando il manoscritto della Biblioteca Laurenziana contrassegnato come VIII, Plut. XXIX, capì che la lettera era di Dante, e di questa sua scoperta fece partecipe il Canonico Dionisi, che se ne valse subito pubblicando la lettera nel quinto Libro dei suoi Aneddoti (Verona 1790). Anche il Foscolo la stampò nel suo volume di Saggi sul Petrarca; la prima edizione che può definirsi criticamente corretta è ad opera dello studioso Witte nel 1827.
         L'Epistola fu scritta nel maggio 1315 (secondo Jacomuzzi, Dionisi nella sua Vita di Dante e altri) e indirizzata a un amico, che Dante chiama due volte "pater" che, insieme al richiamo a un comune nipote, fa pensare a un rapporto di parentela e allo status di religioso dell'amico-parente. Il nipote potrebbe essere Niccolò di Fusino di Manetto Donati, figlio di un fratello di Gemma, del quale si ha notizia che partecipò, nel tempo appunto di questa lettera, alla battaglia di Montecatini (29 agosto 1315) e che fu in stretta relazione con la famiglia di Dante, restando al fianco dei suoi figli.
       Il 19 maggio 1315 il Comune di Firenze approvò un'amnistia a tutti gli esiliati, e questa volta senza limitazioni (dalla precedente, infatti, Dante era stato volutamente e dichiaratamente escluso), che sarebbero rientrati in Firenze, o liberati dal carcere, il 24 di giugno, in occasione della festa del Patrono della città. La cerimonia per gli amnistiati prevedeva che partendo dal carcere, avrebbero dovuto percorrere il tragitto in processione a piedi scalzi, vestiti d'un sacco, con una mitra di carta con sopra scritto il nome e il reato dei malfattori in capo, un cero acceso in una mano e una borsa con danaro nell'altra, fino al Battistero, al "bel San San Giovanni", dove venivano offerti in stato di pentimento all'altare e al santo della città. Compiuto questo rito sarebbero stati reintegrati nei loro beni e in ogni loro altro diritto. Se si trattava di fuorusciti politici che, al momento del provvedimento non erano in carcere, l'oblatio consisteva nel toccare simbolicamente col piede la soglia del carcere e quindi presentarsi al tempio, senza l'umiliazione della mitra né altre condizioni degradanti.
         Secondo Altri (Foscolo, Fraticelli) l'epistola fu scritta alla fine di dicembre del 1316 o, più verosimilmente, al principio di gennaio del 1317 (che per i fiorentini era ancora il 1316 in quanto il loro anno cominciava il 25 marzo). Queste date sono state ricostruite dal Fraticelli attraverso i documenti conservati nell'Archivio delle Riformagioni, che nel 1316 riporta tre provisioni o stanziamenti per riammettere in città ribelli e banditi:
   -  2 giugno - Libro n. 15, classe 2, Dist. 2, pag. 181;
   -  3 settembre -  Libro n. 16, classe 2, Dist. 2, pag. 10;
   -  11 dicembre - Libro 16, classe 2, Dist. 2, pag. 36.
Proprio a quest'ultimo provvedimento si riferisce il Fraticelli
         Nel 1316, caduto in basso Uguccione della Faggiuola, che fino a quel momento era stato il principale sostenitore dei ghibellini, i fiorentini nel mese di ottobre, elessero il conte Guido da Battifolle all'ufficio di Potestà, rimuovendo dall'incarico il feroce Lando da Gubbio, e due mesi dopo a tutti i fuorusciti e banditi dalla città di poter rientrare a certe condizioni in Firenze, con una solenne cerimonia che si sarebbe dovuta tenere, come abbiamo visto, il 24 giugno, giorno di San Giovanni.
         Ma le condizioni del ritorno erano per Dante troppo umilianti e gravose (avrebbe dovuto pagare anche una certa quantità di denaro. Con sdegno rifiuta l'umiliante proposta: mai avrebbe accettato di stare a fianco di malfattori, come Ciolo degli Abati, che, condannato nel 1291, era stato poi assolto proprio mediante una amnistia. Come Dante si trovava tra gli esuli contumaci, anche lui escluso dalla riforma di Messer Baldo d'Aguglione del settembre 1311.
         All'amico risponde con questa lettera, dichiarandosi pronto a rientrare, ma con tutto il rispetto dovuto alla sua innocenza conclamata e a tutti manifesta e al suo lavoro, per il quale in esilio non gli manca il pane e può continuare i suoi studi, a cercare le dolcissime verità.

Epistola XIII
A Cangrande

         L'opinione generale vuole che Dante si trovasse a Verona, alla corte di Can Grande della Scala, verso la fine del 1316 o all'inizio dell'anno seguente, quando Uguccione della Faggiuola, capo riconosciuto e sostenitore dei ghibellini toscani, perduta la signoria di Pisa e di Lucca, riparò alla corte di Verona, ricevendo da Can Grande l'invito a prendere il comando delle sue truppe.
         La lettera, considerata come l'introduzione alla terza cantica della Commedia, contiene l'esposizione del primo canto del Paradiso, che Dante, possiamo arguire, aveva appena cominciato a scrivere e che dedicava allo Scaligero. Di essa abbiamo una tradizione manoscritta indubbiamente più ricca di tutte le altre lettere e frequenti testimonianze nei commenti più antichi (Jacopo della Lana, l'Ottimo, Guido da Pisa, Giovanni Boccaccio nel suo commento del 1373, Filippo Villani che, adempiendo nel 1391 all'ufficio di pubblico lettore della Commedia, cominciò la sua esposizione appunto con questa lettera, che egli chiama introduzione sopra il primo canto del Paradiso, citandone testialmente le parole).
         La lettera, scrive Jacomuzzi, "si presenta distinta in due parti:
  -  la prima dal primo paragrafo a quasi tutto il quarto (fino alle parole «itaque, formula consumata epistole»), si configura come una lettera dedicatoria nella quale l'autore, dopo aver tessuto l'elogio di cangrande, e manifestato la propria gratitudine, offre la dedica della terza cantica della Commedia, «que decoratur titulo Paradisi», al signore scaligero, come il dono più degno e conveniente a contraccambiare e conservare la sua amicizia;
  -  la seconda è condotta come un compendioso trattato introduttivo al Paradiso, illustrato negli elementi - soggetto, forma e titolo - nei quali la cantica differisce dal poema nella sua totalità e in quelli - autori, fine e genere di filosofia - che essa ha in comune col tutto; conclude questa parte un commento particolareggiato al prologo della cantica, che bruscamente viene interrotto e rinviato per le difficoltà materiali che in quel momento opprimevano il Poeta."
         La seconda parte, indubbiamente, è la più importante, perchè la sua opera è di natura polisensa, racchiudendo più sensi:
  1 -  il letterale, che è quello che si ottiene alla semplice lettura e si identifica col senso storico; tutto il racconto della Commedia si propone come evento reale, e quindi storico;
  2 -  l'allegorico, (allegoria deriva da 'alloios', una parola greca che significa 'diverso') che racchiude il significato nascosto nel significato letterale e diverso da questo, che può essere riassunto nella nostra redenzione operata da Cristo; e questo racchiude due ulteriori significati:
      2-a  -  il significato morale, che porta a comprendere la conversione dell'anima dal pianto e dalla miseria del peccato allo stato di grazia;
      2-b  -  il significato anagogico, che porta a comprendere, nei fatti e nei personaggi narrati, il passaggio dell'anima santa dalla schiavitù della corruzione contingente dell'esistenza alla libertà dell'anima nell'eternba gloria della Salvezza.
          Dante passa quindi a trattare la spiegazione del titolo della sua opera, del significato di Commedia distinguendolo da quello di Tragedia, che differiscono sia per per le cose trattate (i contenuti) che per il modo in cui sono trattate (la lingua), e infine tratta la spiegazione del soggetto.





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