Per poter fare un qualsiasi discorso interpretativo sulla
Divina Commedia,è indispensabile anzitutto chiarire alcune questioni.
La Prima è questa: Dante va, di volta in volta, distinto
in tre ruoli specifici: quello dell'autore, quello del narratore e quello
del personaggio. Come "autore" è colui che scrive l'opera; come
"narratore" è colui che racconta all'autore gli eventi che costituIscono
la trama dell'opera; come "personaggio" è il protagonista degli eventi
stessi. Naturalmente la sequenza autore-narratore-Personaggio, valida per
il lettore che si avvicina alla Divina Commedia e scopre nell'autore il
narratore e nel narratore il personaggio, si ribalta totalmente per
Dante,il quale, da "protagonista" di una "visione", si fa prima
"narratore" della stessa" e, quindi, "autore" di un'opera che quella
visione racconta. Un esempio: il personaggio Dante, a trentacinque anni di
età, si smarrì in una selva oscura; il narratore Dante confessa
l'episodio; l'autore versifica: "Nel mezzo del cammin di nostra vita
/ mi ritrovai per una selva oscura". Come si vede chiaramente l'
"autore" traduce in versi il racconto del "narratore" che, ovviamente,usa
il verbo al passato ("mi ritrovai") per distinguersi dal "personaggio". A
sua volta l' "autore", quasi a voler sottolineare il distacco da entrambi
(cioè dal narratore e dal personaggio) ed a voler affermare il suo diritto
ad esprimere giudizi sul significato morale ed anagogico della vicenda
narrata, dice "di nostra vita" col chiaro intento di coinvolgere, fin
dalle prime battute, nell'esperienza del personaggio l'intera umanità.
Però se i ruoli del personaggio, del narratore e
dell'autore vanno distinti, non si deve tuttavia pretendere che essi non
si confondano o sovrappongano, trattandosi pur sempre della stessa
persona, cioè di Dante. Per esempio,nella terzina successiva, autore e
narratore si confondono ("Ahi quanto a dir qual era è cosa
dura"), mentre subito dopo autore e personaggio si distinguono
l'uno dall'altro alternandosi: "ma per trattar del ben (qui
c'è l'autore) ch'io vi trovai (qui c'è il personaggio),
dirò de l'altre cose (autore) ch' i' v'ho
scorte (personaggio). Io non so ben ridir
(autore) com' i' v'entrai (personaggio)".
La seconda questione da chiarire è quella dei "sensi" da
atribuire alla scrittura per interpretare compiutamente l'opera.
Come si sa,fin dai primi secoli del Medioevo, era invalso
l'uso di interpretare i Sacri testi (Antico e Nuovo testamento) risalendo
dal senso letterale a quello allegorico, a quello morale ed a quello
anagogico. Verso la fine del Medioevo tale metodo interpretativo fu esteso
anche alle opere letterarie e, in particolare,a quelle poetiche. Lo dice
lo stesso Dante nel "Convivio", chiarendo anche il valore e le
caratteristiche dei quattro sensi: quello "letterale" si ricava dalle
parole pure e semplici usate dall'autore per narrare un episodio (Dante,
perdutosi in una selva oscura, ai primi raggi del sole scopre un colle che
potrebbe costituite per lui la strada della salvezza, ma è impedito
nell'ascesa da tre fiere che lo risospingono in basso); quello
"allegorico" bisogna intuirlo dal letterale (ad esempio, la selva oscura
rappresenta il peccato, il Sole la Grazia Divina illuminante che indica la
via della redenzione, il colle indica la via del riscatto dal peccato, le
tre fiere - lonza, leone e lupa - rispettivamente i tre vizi capitali che
ostacolano il cammino dell'uomo peccatore verso il bene, e cioè la
lussuria, la superbia e l'avarizia); quello "morale" si ricava poi dal
senso allegorico: nell'episodio riferito sarebbe che l'uomo caduto nel
peccato mortale non può, con la sola forza della volontà, riscattarsi,
anche se la Grazia Divina gli indica la strada, ma ha bisogno di ricorrere
alla Ragione umana (Virgilio),la quale tuttavia, se vale a far superare
l'ostacolo rappresentato dai vizi capitali, nemmeno potrebbe condurre alla
salvezza eterna, cioè al Paradiso,senza la Fede (Beatrice).
Più ardua è la definizione del senso "anagogico",per
quanto riguarda l'interpretazione della Divina Commedia, perché lo stesso
Dante, sempre nel "Convivio", sembra riservarlo alle sole Scritture.
Infatti egli porta l'esempio del popolo d'Israele che, guidato da Mosè, si
libera dalla schiavitù egiziana attraversando il Mar Rosso, e interpreta
l'episodio narrato nella Bibbia come simbolico del popolo dei credenti
che, guidato dal Cristo, si libera dalla schiavitù del paganesimo. C'è
però da dire che nell' Epistola a Cangrande il Poeta riconosce che
comunque il senso anagogico è possibile riscontrarlo in tutte le opere che
trattano di cose riguardanti l'eternità, il mondo dell' aldilà, e quindi
anche nella "Commedia". Ma per poter estendere il senso "anagogico" alla
interpretazione della Divina Commedia, bisogna far ricorso alla proposta
dell'Auerbach. Questi, riferendosi al metodo dell'esegesi biblica
medievale, afferma che i primi teologi cattolici consideravano i fatti
della vita terrena narrati nel Vecchio Testamento come "figure" di una
realtà più solida ed eterna, quella rivelata nel Nuovo testamento. Con
questo procedimento un avvenimento o un personaggio storico vengono
proiettati verso l'eternità, là dove si realizza il disegno divino, e
perciò sono "figura" reale di una realtà ancor più vera. Insomma, come
afferma il Pasquazi, l'interpretazione figurale proposta dall' Auerbach
"vede la realtà terrena e la realtà eterna come due momenti di cui il
primo significa anche l'altro, mentre l'altro comprende e adempie il
primo". Infatti l'Auerbach così spiega il significato anagogico della
Commedia: essa "è la storia dell'evoluzione e della salvezza d'un uomo
singolo, di Dante, e come tale una figurazione della salvezza
dell'umanità". Anche Umberto Bosco concorda con la tesi dell' Auerbach
quando afferma che la legge generale della Commedia consiste nell'
"assunzione del personale a valore universale".
Tuttavia,nel leggere e nello studiare la Divina Commedia,
non dobbiamo mai dimenticarci che essa è essenzialmente un'opera di
altissima poesia. Tutto il discorso fatto prima ci aiuta a penetrare nel
significato morale dell'opera,in un certo senso ad assecondare la volontà
dello stesso Dante che, appunto, nella Commedia intendeva dare un
contributo al riscatto dell'umanità dal peccato. Ma, al di là delle
intenzioni, il poeta ha prevalso sul moralista. Come afferma giustamente
il De Sanctis, "Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che non
intendeva". Infatti la Commedia appare al critico Irpino "il Medio Evo
realizzato, come arte, malgrado l'autore e malgrado i contemporanei".
Questo giudizio basta da solo a spiegarci come sia possibile,in un poema
che si propone di esaltare la beatitudine eterna e di indicare la strada
del riscatto e della purificazione dal peccato, dalla carne, dalla storia,
dalla vita terrena, trovarvi tanto peccato, tanta carne, tanta storia
descritti con un linguaggio crudo e finanche "ripugnante" (come osservò il
Goethe). A tal proposito l'Auerbach cita un verso, apparentemente volgare,
che compare in uno dei passi più "solenni" del "Paradiso", e cioè: "e
lascia pur grattar dov'è la rogna", ma il critico ha precedentemente
precisato che "Dante non conosce limiti nella rappresentazione esatta e
schietta del quotidiano, del grottesco e del repellente; cose che in sé
non potevano venir considerate "sublimi" nel senso antico, lo diventano
con lui per la prima volta". Proprio da ciò l'Auerbach nota l'enorme
distanza che intercorre tra Virgilio (classico) e Dante (moderno). E,
rifacendosi ad un giudizio di Benvenuto da Imola, afferma che la Divina
Commedia contiene ogni sorta di poesia ed ogni sorta di scienza, ed anche
se l'autore l'ha definita "Commedia" per lo stile umile e la lingua
popolare, essa tuttavia appartiene al genere di poesia "sublime e
grandioso".