Paradiso: canto
VI
“Dopo che l’imperatore Costantino portò l’insegna
imperiale da occidente a oriente in senso contrario al moto naturale
del cielo, il quale moto l’aveva accompagnata un tempo dietro
ad Enea che sposò Lavinia,
l’aquila fu trattenuta duecento anni e più nell’estremo
lembo d’Europa, vicino ai monti dai quali era uscita la prima
volta; e là, all’ombra delle sue sacre ali,
governò il mondo passando da un imperatore all’altro,
e, cosi mutando, arrivò in mano mia .
L'imperatore Costantino
nel 330 d. C. trasportò la sede dell'Impero da Roma a Bisanzio,
che da lui prese poi il nome di Costantinopoli. Con quell'atto
venne violato il corso della natura e della storia, perché Enea,
l'ideale fondatore dell'Impero, era venuto dall'oriente verso
occidente, quando, abbandonata Troia, si era diretto verso l'Italia.
Giunto nel Lazio, aveva sposato Lavinia, figlia del re Latino,
dando cosi inizio alla stirpe romana. L'aquila - insegna delle
legioni romane, chiamata eccel di Dio perché Roma e il suo dominio
furono creati da Dio per preparare la via all'avvento di Cristo
(cfr. versi 55-57; 82-90), e perché essa è simbolo della missione
divina affidata alla monarchia universale - rimase nell'estremo
confine dell'Europa, a Bisanzio, non lontano dai monti della Troade,
dai quali era partita con Enea, per più di duecento anni. In realtà,
dal 330 al 527, anno dell'elezione di Giustiniano, corrono 197
anni. Ma Dante segue la cronologia tracciata da Brunetto Latini
nel Trésor, secondo la quale la traslazione della capitale a Bisanzio
avvenne nel 333 e la salita al trono di Giustiniano nel 539. Dopo
il volo grandioso, che ha riunito nel breve respiro di tre versi
secoli densi di storia, I'aquila vive di una sua vita poetica,
perdendo l'immobilità propria del simbolo, sovrapponendo al velo
allegorico la sua immagine di regina degli spazi, le sue ali ampie
e possenti, capaci di coprire tutto il mondo.
Fui imperatore e sono Giustiniano, che, per
impulso dello Spirito Santo del quale sento ora gli effetti, dal
corpo delle leggi tolsi il superfluo e l’inutile.
E prima di dedicarmi all’opera della riforma
legislativa, credevo che in Cristo ci fosse una sola natura e
non due, ed ero soddisfatto di questa fede;
ma il santo Agapito, che fu sommo pastore della
Chiesa, con le sue parole mi avviò alla vera fede.
Giustiniano, rispondendo
alla domanda di Dante (canto V, verso 127), distingue pensosamente
(cfr. anche Purgatorio V. 88) l'elemento caduco della gloria terrena
(Cesare fai...) da quello eterno, rappresentato dalla personalità
dell'individuo (son Giustiniano).
In Giustiniano (nato nel
482 e morto nel 565 ) Dante vede il tipo del monarca ideale: l'imperatore
romano del tempo antico, integrato nella fede cristiana. Secondo
gli storici del Medioevo, i quali seguivano una tradizione errata,
Giustiniano, con la moglie Teodora, avrebbe aderito per qualche
tempo all'eresia di Eutiche, detta monofisita, perché ammetteva
in Cristo la sola natura divina. Agapito I (pontefice dal 533
al 536 ), recatosi a Costantinopoli per trattare la pace fra Giustiniano
e gli Ostrogoti, sarebbe riuscito a convertire l'imperatore alla
vera fede.
Io gli credetti; e ciò che allora era fondato
solo sulla sua autorità, ora lo vedo con la stessa chiarezza con
la quale tu vedi che di due proposizioni contraddittorie una è
falsa e l’altra è vera.
Appena cominciai a camminare in accordo con la
Chiesa, Dio si compiacque per sua bontà d’ispirarmi il grande
lavoro (della riforma legislativa),
ed io mi consacrai tutto ad esso; e affidai
le imprese militari al mio generale Belisario, al quale il favore
del cielo fu cosi vicino, che per me fu segno che dovevo lasciare
le opere belliche (per dedicarmi a quelle di pace).
Dopo la riconciliazione
con la Chiesa inizia la grande vicenda terrena di Giustiniano,
al quale Dio affida il compito di riordinare e definire il diritto
romano (e come maestro perenne di diritto si era presentato lo
stesso imperatore al verso 12). L'alto lavoro è quello del Corpus
iuris civilis, la grandiosa raccolta giuridica nella quale è confluito
quanto del diritto romano era ancora valido, escludendo ciò che
era ormai superato per il trascorrere del tempo e il mutare delle
condizioni di vita (il troppo) ed eliminando le ripetizioni e
le contraddizioni fra le tante leggi ('l vano). Dedicatosi completamente
alle opere di pace, Giustiniano affidò al fedele generale Belisario
il compito di riconquistare le terre perdute dall'Impero negli
ultimi decenni. Due affermazioni sono scandite con particolare
solennità dalla voce di Giustiniano: le leggi (versi 11-12 e 23-24)
e le armi (versi 25-26) dell'lmpero furono volute e guidate da
Dio. L'introduzione alla parte centrale del discorso di Giustiniano
(versi 34 sgg.) è così compiuta, perché veramente ora "il divino
aleggia possente sull'Impero e sulla sua missione" (Grabher).
Croce e aquila sono congiunte nella storia così come, ad un certo
momento si sono congiunte nella vita di Giustiniano, la cui figura
assurge mento a dignità di exemplum.
Qui ora termina
la mia risposta alla tua prima domanda: ma la natura di tale risposta
mi costringe a far seguire qualche aggiunta,
perché tu veda
quanto ingiustamente agisca contro l’aquila, la sacrosanta insegna
dell’Impero, e chi si appropria di lei (come i Ghibellini) e chi
a lei si oppone ( come i Guelfi ).
Considera quante
imprese valorose l’hanno fatta degna di venerazione; ed esse cominciarono
allorché Pallante morì per acquistarle il regno.
Tu sai come l’aquila
fissò la sua sede in Albalonga per oltre trecento anni, fino al
momento in cui i tre Orazi e i tre Curiazi combatterono ancora
per il suo possesso.
I discendenti di Enea
regnarono più di trecento anni su Albalonga, la città fondata
nel Lazio da Ascanio, figlio dell'eroe troiano, finché il segno
delI'aquila passò a Roma, dopo la vittoria dei tre Orazi, rappresentanti
di Roma, sui tre Curiazi, rappresentanti di Albalonga.
E conosci pure
che cosa fece l’aquila sotto i sette re di Roma dal ratto delle
Sabine al suicidio di Lucrezia, sottomettendo tuttt’intorno i
popoli confinanti.
Continua, incalzante, la
narrazione di quanto il segno ha fatto durante il periodo dei
sette re, dal ratto delle Sabine, avvenuto sotto Romolo, all'oltraggio
subito da Lucrezia ad opera di Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo.
Lucrezia si suicidò e il marito Collatino, con l'aiuto di Bruto,
provocò una sollevazione di popolo contro i Tarquini. Con la cacciata
di questi da Roma fu posto fine alla monarchia.
Conosci quello
che fece quando fu portata ( come insegna ) dai valorosi Romani
contro Brenno, contro Pirro, contro gli altri principati e repubbliche,
Vengono qui ricordate
le imprese dei Romani nel primo periodo della repubblica, allorché
essi respinsero i Galli guidati da Brenno e i Tarentini aiutati
da Pirro, re dell'Epiro, vincendo poi tutti gli stati vicini che
tentavano di opporsi alla loro supremazia.
Tito Manlio Torquato fu
il vincitore dei Galli e dei Latini. I tre Deci, padre, figlio,
nipote, si sacrificarono in guerra per la grandezza di Roma. Publio
Decio Mure morì contro i Latini nella battaglia del Veseri (340
a. C.), il figlio contro i Sanniti nello scontro del Sentino (295
a. C.), il nipote contro Pirro ad Ascoli Piceno ( 279 a. C. )
. Trecento membri della nobile famiglia dei Fabi morirono contro
i Veienti nella battaglia di Cremera (477 a. C. ).
per cui Torquato e Quinzio che fu chiamato Cincinnato
per la chioma arruffata, i Deci e i Fabi ebbero quella fama che
io volentieri onoro.
Furono vinti dall'aquila anche i Cartaginesi
( il termine Arabi indica qui i popoli dell'Africa settentrionale),
che, sotto la guida di Annibale, osarono varcare le Alpi occidentali.
L’aquila atterrò l’orgoglio dei Cartaginesi che al comando di
Annibale attraversarono le Alpi, dalle quali tu, o Po, discendi.
Sotto il segno dell’aquila ancor giovani celebrarono
il trionfo Scipione e Pompeo; e lo stesso segno parve amaro al
colle di Fiesole, ai piedi del quale tu sei nato. Publio Cornelio
Scipione l'Africano, dopo aver combattuto giovanissimo contro
Annibale al Ticino e a Canne, ed aver conquistato la Spagna, ottenne
a trentatré anni la grande vittoria di Zama contro Cartagine (
202 a. C. ) .
Gneo Pompeo Magno combatté
ancora giovane contro Mario in Sicilia e in Africa, e celebrò
il trionfo a venticinque anni. Il segno dell'aquila fece sperimentare
tutta la sua forza a Fiesole, il colle che domina Firenze, perché,
secondo una narrazione leggendaria accettata da tutto il Medioevo
(cfr. Villani - Cronaca 1, 36 sgg.), la cittadina accolse e aiutò
Catilina che, dopo il fallimento della sua congiura, era fuggito
da Roma. In seguito a ciò essa venne assediata e distrutta dall'esercito
romano.
Poi, avvicinandosi il tempo in cui il cielo volle
ricondurre tutto il mondo a una serenità simile alla propria,
Cesare per volontà del popolo di Roma prese in mano l’insegna
dell’aquila.
Ecco il momento centrale
dell'azione dell aquila, intorno al quale Dante costruisce l interpretazione
religioso, teologica di tutta la storia di Roma. Cesare con le
sue imprese, non come usurpatore, ma per voler del popolo romano,
creò nel mondo l'unità e la pace (rispecchiante addirittura la
serenità stessa del cielo) necessarie ad accogliere la venuta
del Messia e a permettere alla sua parola di diffondersi ovunque.
Tale affermazione è già stata da Dante presentata, oltre che nella
Monarchia ( I, XVI, 1-3 ), anche nel Convivio ( IV, V, 3-5). Questa
rigorosa visione teologica della storia permette a Dante di scorgere
negli eventi un ordine stabilito ab aeterno, e nell'apparente
irrazionalità dei fatti umani una profonda giustificazione, essendo
ciascuno di essi un momento del progressivo manifestarsi della
volontà divina. E' questa visione che trasfonde nel discorso di
Giustiniano quella forza epica che contraddistingue il VI del
Paradiso dai corrispondenti canti dell'Inferno e del Purgatorio,
e che trasferisce la storia di Roma in un clima da epopea.
E quello che l’aquila fece in Gallia dal fiume
Varo fino al Reno, lo videro l’lsère e la Loira e lo vide la Senna
e ogni valle delle cui acque è pieno il Rodano.
La storia di Cesare, il
fondatore dell'Impero, il "primo prencipe sommo" (Conviviò IV,
V, 12), è presentata in cinque terzine nelle quali l'azione si
popola di nomi di città e di fiumi, abbracciando tre continenti.
Le prime campagne militari di Cesare sono quelle della Gallia
Transalpina, indicata dai suoi fiumi: il Varo ( al confine orieníale),
il Reno (al confine settentrione, le), e poi l'Isère, la Loira,
la Senna e il Rodano, che la attraversano.
Quella che essa fece dopo che con Cesare uscì
da Ravenna e passò il Rubicone, fu un volo cosi rapido, che non
potrebbe seguirlo né la lingua (per narrarlo) né la penna (per
descriverlo).
Ancora la natura è chiamata
a testi, montare le imprese dell'aquila sotto la guida di Cesare.
Questi, lasciata Ravenna dove si era fermato nella sua marcia
verso Roma, passò il Rubicone ( che segnava il confine tra la
Gallia Cisalpina e l'Italia) dando inizio alla guerra civile con
Pompeo. Se altrove ( Inferno XXVIII, 91-102 ) Dante deplora questa
lotta civile, qui la considera come un male necessario perché
si potesse realizzare il disegno divino dell'impero universale.
Condusse l’esercito prima verso la Spagna, poi
verso Durazzo, e colpì cosi duramente Pompeo a Farsalo che se
ne sentì il contraccolpo fino al caldo Nilo.
In Spagna Cesare combatté
Petreio, Afranio e Varrone, legati di Pompeo. Sbarcò poi a Durazzo,
in Illiria, e a Farsalo, in Tessaglia, sconfisse Refi,, nitivamente
Pompeo (48 a. C.). Quest'ultimo, rifugiatosi in Egitto (Nil caldo),
fu ucciso a tradimento dal re Tolomeo.
L’aquila rivide la città di Antandro e il fiume
Simoenta, da dove si era mossa con Enea e la tomba dove giace
Ettore; e poi riprese il volo con danno di Tolomeo.
Seguendo Cesare, l'aquila
rivede i luoghi da cui aveva preso avvio la sua sacra storia:
Antandro, il porto della Frigia da cui salpò Enea (Eneide III,
5-ó), il fiume Simoenta, che scorre vicino a Troia, la tomba di
Ettore (Eneide V, 371). Poi, riprende il suo volo e per vendicare
la morte di Pompeo toglie a Tolomeo il regno di Egitto, affidandolo
alla sorella di lui, Cleopatra.
Di là piombò come folgore su Giuba; di qui si
volse verso il vostro occidente, dove sentiva la tromba di guerra
dei pompeiani.
Dall'Egitto l'aquila piomba
con la violenza e la rapidità di una folgore su Giuba, re di Mauritania
e fautore dei pompeiani, sconfiggendolo a Tapso. Senza fermarsi
" si volge " di nuovo verso la Spagna e vince a Munda (45 a. C.)
gli ultimi seguaci di Pompeo.
Quello che l’aquila compi con Augusto, l’imperatore che successe
a Cesare, l’attestano Bruto e Cassio nell’inferno, e ne furono
afflitte Modena e Perugia.
Il segno passò poi nelle
mani del successore di Cesare, Ottaviano Augusto, il quale sconfisse
a Filippi ( 42 a. C. ) Bruto e Cassio, gli autori della congiura
che aveva portato all'assassinio di Cesare.Dante
ha posto Bruto e Cassio nell'inferno, dilaniati dalle bocche di
Lucifero (Inferno XXXIV, 64-67), affermando esplicitamente che
Bruto non fa motto. Molti critici vedono, perciò, una contraddizione
fra il latra del verso 74 e l'espressione usata nella prima cantica,
e si sforzano di eliminarla con ingegnose spiegazioni.La
conclusione più accettabile è quella del Parodi (Dante non vuole
aggiungere qui un particolare a quanto ha affermato nell'Inferno,
ma ripensa a quella scena con uno stato d'animo diverso) o quella
del Grabher (latra è usato in senso ideale, ma con tutta la forza
del suo significato reale).
Modena venne assediata
da Marco Antonto, che fu poi sconfitto nelle vicinanze da Ottaviano.Perugia,
nella quale si erano rifugiati il fratello e la moglie di Antonio,
venne presa e saccheggiata con grandi stragi dai soldati di Ottaviano
(41 a. C.).
Ne piange ancora la sciagurata Cleopatra, che,
fuggendo davanti all’aquila, si procurò una morte repentina e
atroce con un serpente velenoso.
Con Augusto l’aquila volò fino ai lidi del Mar
Rosso; con lui pose il mondo in uno stato di pace così sicura,
che il tempio di Giano fu chiuso.
Conquistando
l'Egitto, Ottaviano portò l'aquila fino alle rive del Mar Rosso
(Eneide VIII, 685-688). Poi riuscì a stabilire nel mondo un lungo
periodo di pace, cosicché si poterono finalmente chiudere le porte
del tempio di Giano, dio della guerra, le quali, in tempo di ostilità,
restavano sempre aperte.
Ma ciò che il segno dell’aquila, in nome del quale io parlo, aveva
fatto prima e avrebbe fatto poi in favore della società temporale:
che gli soggetta,
appare una cosa di poco valore, se si guarda con l’occhio chiaro
della fede e col cuore puro ciò che avvenne (quando esso era)
in mano a Tiberio terzo Imperatore,
poiché la divina
giustizia che m’ispira, concesse all’aquila, in mano all’imperatore
di cui sto parlando, la gloria di fare giusta vendetta della sua
ira.
Sotto Tiberio, successore di
Augusto e terzo Cesare (dal 14 al 37 d. C. ), fu concesso al segno
di Roma di placare, con una giusta punizione, l'ira divina causata
dal peccato di Adamo. La punizione fu costituita dal sacrificio
di Cristo, I'Uomo-Dio, che, raccogliendo in se il peccato di tutta
l'umanità, lo espiò con la sua morte, offrendo soddisfazione alla
giusta collera di Dio.
Cristo venne crocifisso per
sentenza di Pilato, Vicario di Tiberio in Palestina, cioè per
un atto dell'impero romano. La legittimità e l'universalità dell'Impero
furono così solennemente affermate: infatti, poiché tutto il genere
umano doveva essere punito nella carne di Cristo"(Monarchia 11,
XII 5), era necessario che l'autorità condannante fosse non solo
legittima, ma anche universale (Monarchia 11, XII, 1-5).
Ora qui meravigliati pure di quello che ti aggiungo:
con Tito poi l’aquila corse a far giustizia della vendetta del
peccato di Adamo.
Con l'imperatore Tito,
che nel 70 d. C. distrusse la città di Gerusalemme, dando inizio
alla dispersione degli Ebrei nel mondo, il segno dell'aquila compie
la seconda vendetta, punendo il popolo ebraico per la morte di
Cristo, la quale era stata la giusta punizione del peccato di
Adamo ( vendetta del peccato antico ).
L'apparente contraddizione
contenuta in questa terzina (se la morte di Cristo era necessaria,
perché gli Ebrei ne sono stati puniti?) sarà spiegata da Beatrice
nel canto seguente.
E quando gli avidi Longobardi attaccarono la
Santa Chiesa, Carlo Magno la soccorse sotto l’insegna dell’aquila,
vincendoli.
La Chiesa, quando i suoi
territori vennero invasi dai Longobardi, guidati dal re Desiderio,
fu soccorsa e difesa dall'aquila attraverso l'azione di Carlo
Magno, sceso in Italia nel 773 e incoronato imperatore del Sacro
Romano Impero dal pontefice Leone III nell'anno 800.
Ormai sei in grado di giudicare quei tali (i
Guelfi e i Ghibellini) che poco fa ho accusato e le loro aberrazioni,
che sono la causa di tutte le vostre sventure.
Il partito guelfo contrappone al simbolo universale
dell’aquila i gigli d’oro, il partito ghibellino, invece, usurpa
l’aquila come insegna di parte, tanto che e difficile distinguere
chi sia maggiormente colpevole.
I Guelfi contrappongono al simbolo dell'aquila
i gigli d'oro, insegna della casa di Francia, alla quale appartenevano
gli Angioini di Napoli, che capeggiavano i Guelfi in Italia. I
Ghibellini adoperano per i loro interessi particolari ciò che
dovrebbe essere universale, distruggendo così la realtà più profonda
dell'Impero.
I Ghibellini continuino pure la loro attività
partigiana, ma sotto un’altra bandiera, poiché è indegno seguace
dell’aquila chi la separa sistematicamente dalla giustizia;
e questo giovane Carlo con i suoi Guelfi non
cerchi di abbatterla, ma ne tema gli artigli che strapparono il
pelo a sovrani ben più potenti di lui.
Molte volte in passato i figli piansero per le
colpe dei padri, e non pensi questo Carlo che Dio voglia sostituire
l’insegna dell’aquila imperiale con i suoi gigli!
La rampogna assume nei
versi 103-108 il tono dell'invettiva e del sarcasmo: Carlo II
d'Angiò (novello, giovane, rispetto al padre Carlo I), re di Napoli
dal 1285 al 1309, nonostante i suoi sforzi nulla potrà fare contro
l'aquila, che fiaccò avversari ben più forti di lui. La parte
storico-politica del discorso di Giustiniano si conclude con una
profezia: poiché è già accaduto spesso che i figli scontino gli
errori dei padri, così avverrà anche per Carlo II. Infatti un
figlio, Filippo, fu fatto prigioniero dagli Aragonesi, un altro,
Carlo Martello, mori in giovane età ( cfr. Part~diso canto VIII,
versi 49 sgg.).
Questo piccolo pianeta (Mercurio) si adorna di
spiriti valenti che (nel mondo) sono stati attivi per conseguire
onore e fama: e quando i desideri umani tendono a questo, deviando
così dal vero fine (Dio), avviene necessariamente che i raggi
del vero amore salgano con minore intensità verso l’alto.
Ma fa parte della nostra felicità vedere commisurata
l’entità dei nostri premi col nostro merito, proprio perché non
li vediamo né minori né maggiori ‘del merito.
Con questa corrispondenza la divina giustizia
purifica i nostri sentimenti a tal punto, che questi non possono
mai svolgersi verso il male.
Come voci diverse formano un accordo armonioso,
così diversi gradi di beatitudine nella nostra convivenza compongono
una dolce armonia in questi cieli.
E dentro questa gemma che è Mercurio, brilla
l’anima luminosa di Romeo, la cui opera, grande e bella, fu mal
compensata.
Ma i Provenzali che lo calunniarono non ebbero
da rallegrarsene in seguito; donde si vede che sbaglia strada
chi (come l’invidioso) reputa danno proprio le buone opere altrui.
Raimondo Berengario ebbe quattro figlie, e ciascuna di loro fu
regina, e questo glielo procurò Romeo, uomo di umile origine e
straniero.
Le parole calunniose poi spinsero Raimondo a
chiedere la resa dei conti a quest’uomo giusto, che gli restituì
dodici per dieci.
Dopo questo Romeo se ne partì povero e vecchio;
e se il mondo sapesse la forza d’animo che egli ebbe nel mendicare
a tozzo a tozzo il pane per vivere, sebbene lo lodi assai, lo
loderebbe ancora di più.
In questi versi si sovrappone
alla figura di Romeo quella del Poeta: l'umiltà (verso 135) è
la grandezza dell'animo che si piega, come osserva il Grabher,
non per viltà, ma per mantenere intatta la propria onestà, mentre
il " peregrinare" richiama la dolorosa esperienza del Poeta nel
suo esilio. Le parole biece dei malvagi isolano la figura di questo
giusto in un mondo ideale, dove appare sempre più grande e solitario,
in una povertà fatta di fierezza, ma anche di profondo dolore,
di continue umiliazioni ( mendicando sua vita a frusto a frusto),
dove esperimenta, come già Provenzan Salvani (Purgatorio XI, 138),
il tremar per ogni vena.
Romeo incarna "in un eterno
mito umano la sorte del Poeta... Ma di contro alla viltà e alla
ingiustizia umana, aleggia sullo sfondo quell'aquila che apparirà
trionfante nel cielo di Giove, l'aquila di Roma e di Dio, eterno
e vivo simbolo di giustizia, su cui si affissano gli occhi dell'esule;
sì che il particolare dramma del Poeta trapassato nella luce di
Romeo si proietta su quello sfondo universale ed eterno dove l'aquila
di Roma, nel suo più alto volo, sconfina dalla terra, sublimandosi
nei cieli e nella giustizia di Dio" ( Grabher ). Cosi, dopo aver
celebrato nella prima parte del canto il suo ideale politico,
tracciato nella solitudine di chi ormai " ha fatto parte per se
stesso " (Pardiso XVII, 69), Dante presenta in questi ultimi versi,
attraverso la figura di Romeo quanto quell'ideale gli ha portato:
l'esilio e la povertà.
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