Paradiso: canto
VII
Salve , o santo Dio degli eserciti, che rendi
più luminosi con la tua luce i beati splendori di questi regni!
”
Lo spirito di Giustiniano
si allontana cantando un inno nel quale parole latine si uniscono
a parole ebraiche, secondo un uso liturgico abbastanza comune
(per esempio, nel Sanctus della messa), che trova i suoi antecedenti
in alcuni passi della Sacra Scrittura. Osanna, termine ebraico
di saluto e di applauso, è gia stato usato da Dante nel Purgatorio
(XI, II, XXIX, 51) e sarà ripetuto ancora nel Paradiso (VIII,
29; XXVIII, 118, XXXII, 135). Come sabaoth, è termine ebraico
anche malacoth, che è grafia errata, usata in alcuni codici del
Prologus galeatus di San Gerolamo, di mamlacòth. Per quanto riguarda
il contenuto della terzina è naturale, secondo il Porena, che
Giustiniano, rappresentante di quell'Impero che fu splendido di
armi e di sapienza, illustre egli stesso per opera d'armi e di
sapienza... inneggi al Dio degli eserciti e della sapienza: ché
sapienza è quello splendore con cui Dio illumina le anime beate
del regno celeste.
Così, volgendosi al ritmo del suo canto mi parve
che cantasse quell’anima, sulla quale si raccoglie una duplice
luce:
Sopra la qual doppio lume
s'addua: secondo alcuni, la luce della sua beatitudine è la luce
di Dio. Secondo altri è il fulgore di carità che aumenta in Giustiniano
dopo aver risposto a Dan, te. Tuttavia entrambe queste interpretazioni
si adattano a tutte le anime del regno celeste, mentre qui Dante
vuole distinguere il grande imperatore dagli altri beati, come
ha già fatto per Costanza (Paradiso III, 109-111) e come farà
per Arrigo VII (Paradiso XXX, 133-137). 11 doppio lume sarà quindi
costituito da quello della dignità imperiale e da quello della
beatitudine, oppure indicherà la gloria militare e la gloria legislativa
di Giustiniano.
Dopo la grandiosa visione
storico-religiosa che ha occupato tutto il canto VI, il VII si
apre con un mirabile scorcio di quella poesia costruita con immagini
di luce, con suggestioni di suoni e di danza, che è la cornice
entro la quale il Poeta viene svolgendo i temi dottrinali-morali-politici
del Paradiso. L inno religioso della prima terzina, in cui la
durezza di alcuni termini (sabaòth, malacòth) non impedisce il
gioioso effondersi degli altri nei quali il suono diventa luce
(superillustrans, claritate, ignea), anticipa l'argomento e la
terminologia del canto: il mistero della redenzione, il mistero,
cioè, dell'amore di Dio per gli uomini, si snoderà attraverso
modulazioni e variazioni sul tema della luce (gamma d'amor...
ardendo in sé, sfavilla.. I'ardor santo ch'ogni cosa raggia...
lume suo). Quest'ultimò, inoltre, riempie della sua presenza le
due terzine successive a quella di apertura, soprattutto i versi
7-9: le faville che si velano di sùbita distanza, sono una delle
più immediate e candide sensazioni di beato regno di tutta questa
cantica: versi, si direbbe, zampillati dalla fantasia di Dante
in un momento di magica facilità inventiva" (Momigliano). L'immagine
di queste faville che si muovono a ritmo di danza è più efficace
di qualsiasi effusione sentimentale: l'intensità e il ritmo della
vita interiore di queste anime è espressa attraverso l'intensità
di una luce e il ritmo di una danza. Dopo la breve interruzione
dei versi 10-12, dove il tema consueto del dubbio si risolve nella
drammatica ripetizione di un verbo (dille) l'atmosfera di rapimento
estatico con la quale si è aperto il canto continua anche nei
versi seguenti, dove l'espressione assonna "è una delle più stupende
suggestioni di rima di tutto il poema: senza questa parola, il
momento raffigurato in questi sei versi... perderebbe quasi tutta
la sua poesia" (Momigliano). Questo verbo, infatti, sempre usato
da Dante per descrivere uno stato di estasi, richiama al lettore
i momenti di lirico abbandono della Vita Nova, quando il Poeta
confessava il suo smarrimento di fronte al fulgore di Beatrice
e ricrea lo stesso sentimento di commozione, per cui anche le
ardue spiegazioni dottrinali di Beatrice diventano dolci stille,
una "eco della sua voce nell'anima di Dante" ( Momigliano) .
Beatrice non permise a lungo che io rimanessi
in questo atteggiamento, e incominciò, illuminandomi di un sorriso
tale, che renderebbe felice perfino chi si trovasse in mezzo alle
fiamme:
“ Secondo quello che io, senza possibilità d’errore,
penso, ti rende perplesso il fatto che (come) una giusta vendetta
abbia potuto meritare una giusta punizione;
Beatrice, con riferimento
diretto alle parole di Giustiniano (canto VI, versi 92-93), definisce
i termini del dubbio di Dante: se la crocifissione di Cristo fu
la giusta vendetta con la quale venne placata l'ira di Dio verso
gli uomini dopo il peccato originale, come poterono gli Ebrei
( con la distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito) essere giustamente
puniti come i responsabili della morte del Messia?
ma io libererò subito la tua mente (da questo
dubbio); e tu ascolta, perché le mie parole ti faranno dono di
una grande verità.
Il discorso che qui Beatrice
introduce è il più lungo fra quelli da lei pronunciati in tutto
il poema e occupa quasi tutto il canto VII, il più arduo, forse,
dei canti dottrinali della Commedia, non solo perché " l'elemento
dottrinale si presenta più scarno, più grezzo, ossia più a nudo,
più appariscente che non nei canti dottrinali del Purgatorio,
quali il XVIII e il XXV, ma anche e perfino più " scolastico",
si vuoi dire di scuola, più esclusivamente dedicato all'ammaestramento
di Dante e con ciò all'istruzione del lettore, che nessun altro
dei canti dottrinali della prima metà del Paradiso..." (Elwert).
Dopo il luminosissimo prologo, infatti, ogni personaggio scompare,
e anche Dante non interviene più direttamente, poiché è Beatrice
che si incarica di esprimere i suoi dubbi ( cfr. versi 55 e 124
) . Non si incontrano schiere d'anime, non si odono canti né si
scorgono luci: manca ogni riferimento all'ambiente in cui si svolge
l'impegnata dimostrazione di Beatrice, quasi il Poeta voglia evitare
che un fatto o uno spettacolo distraggano la sua attenzione e
quella del lettore dall'argomento centrale. Infatti questa rinuncia
ad ogni elemento visivo o patetico non può essere casuale nel
Poeta: di fronte ai più grandi misteri della fede, che egli si
appresta a trattare, quali la creazione, il peccato originale,
la redenzione di Cristo, l'immortalità dell'anima, Dante esige
"una lettura lenta, parola per parola, e una continua e incessante
tensione dell'attenzione per seguire il ragionamento ininterrotto"
(Elwert).
Alla fine non si potrà
negare, come vorrebbero invece molti critici, che la solennità
del canto non nasce solo dai grandi temi svolti, ma dall'"emozione
sottile del pensiero, come verità posseduta", dal "piacere, proprio,
del pensiero esatto, gustato ed espresso" (Getto). Il Poeta ha
il sentimento dello sforzo che la sua intelligenza compie per
esporre sistematicamente e chiaramente i dogmi di fede: la sua
non è sola una dura ascesi spirituale, ma anche una travagliata
ascesi mentale, " vagheggiata dalla fantasia e liricamente tradotta
nel [suo] canto" (Getto). Da questo punto di vista risulta illuminante
un'osservazione dell'Elwert: "Se si pensa bene, ciò equivale a
dire che la stessa chiarezza nell'esposizione del pensiero può
suscitare nel lettore un senso di piacere, e, se non erro, è proprio
questo piacere che Dante non solo ha saputo ma ha voluto dare
ai suoi lettori, anzi la quasi assenza di ogni allettamento extra-intellettuale
in questo canto mi convince che Dante abbia voluto creare questa
sensazione allo stato puro".
Per non aver sopportato
di porre alla propria volontà quel freno che tornava a suo vantaggio,
Adamo l’uomo creato direttamente da Dio, condannando se stesso
( con il peccato originale),condannò
tutta la sua discendenza,
per cui la natura
umana, malata spiritualmente, per molti secoli giacque immersa
nel peccato, finché al Verbo di Dio piacque discendere nel grembo
di Maria,
dove congiunse
alla propria natura divina, in unità di persona, la natura umana,
che (con il peccato)
si era allontanata dal suo Creatore e fece ciò solo per virtù
ed opera dello Spirito Santo.
La
redenzione è opera di tutta la Trinità: Dio Padre (fattore), Cristo,
il Figlio e Verbo di Dio ("il Verbo si è fatto carne"; (Giovanni
I, 14), Spirito Santo, l'etterno amore che procede dal Padre e
dal Figlio. I versi 28-33 ricalcano un passo del Convivio ( IV,
V, 3 ): " Volendo la 'nmensurabile bontà divina l'umana creatura
a sì riconformare, che per lo peccato de la prevaricazione del
primo uomo da Dio era partita e disformata, eletto fu in quello
altissimo e congiuntissime consistorio de la Trinitade, che 'l
Figliuolo di Dio in terra discendesse a fare questa concordia".
Ora rivolgi la
tua attenzione a quello che ti dimostrerò.
La natura umana
quando fu unita a Dio, com’era all’atto della creazione, fu senza
la macchia del peccato originale e buona;
ma, staccatasi
per sua colpa da Lui, fu cacciata dal paradiso terrestre, perché
si era allontanata dalla verità e da ciò che costituiva la sua
vera vita ( cioè da Dio).
Perciò se si
valuta la pena della croce in rapporto alla natura umana assunta
da Cristo, nessuna pena colpì mai con altrettanta giustizia;
se ( invece )
si considera la persona che la patì, nella quale questa natura
umana si era congiunta (alla natura divina), nessuna pena fu mai
così ingiusta .
Poiché
Cristo, incarnandosi, assunse la natura umana corrotta dal peccato
originale, tale natura, con la sua morte, subì la giusta punizione
per l'errore commesso da Adamo. Ma poiché Cristo, oltre che uomo
era anche Dio, la sua condanna a morte fu un atto di empietà,
meritevole, come tale, della più grande punizione.
Perciò
da un medesimo atto ( la crocifissione ) derivarono effetti diversi,
poiché la morte di Cristo piacque a Dio e ai Giudei; per questa
morte la terra tremò e il cielo si aperse.
A Dio ed ai Giudei piacque
una morte: con la morte di Cristo, Dio, nel momento stesso in
cui puniva l'uomo, lo salvava aprendogli le porte della salvezza
eterna ( 'l ciel s'aperse), mentre i Giudei condannarono colui
che si era proclamato figlio di Dio. Secondo un'altra interpretazione,
invece, i Giudei vollero la morte di Cristo perché, desiderando
il male per il male, non esitarono "a fare patire pena a persona
innocente" (Lana), cosicché, di fronte a tale empietà, la terra
tremò ( cfr. Matteo XXVII, 51: "et terra mota est" ) .
(Dopo quello che
ti ho detto) ormai non ti deve più sembrare difficile da capire,
quando si afferma che una giusta punizione fu poi punita dal tribunale
della giustizia divina.
La giusta punizione del
peccato d'origine con il sacrificio di Cristo fu, a sua volta,
punita da Dio, il quale mosse Tito a distruggere Gerusalemme,
dove si era perpetrato il grande oltraggio alla natura divina
di Cristo. I commentatori antichi e alcuni fra i moderni ritengono
che l'espressione giusta corte alluda direttamente a Tito, ma,
come obietta il Porena, Tito "era strumento inconsapevole della
punizione degli Ebrei; mentre la corte presuppone un giudizio,
una giustizia, una chiara coscienza di compierla; e tutto ciò
non poté essere che in Dio".
Ma ora vedo che la tua mente, passando da un
pensiero all’altro, è rima, sta chiusa dentro un dubbio, dal quale
aspetta ansiosamente di essere liberata.
Tu pensi: “Capisco chiaramente ciò che ho udito;
ma mi rimane incomprensibile perché Dio, per redimerci, abbia
scelto proprio questo modo (la passione di Cristo)”.
Questa decisione, fratello, è nascosta agli
occhi di coloro il cui intelletto non è stato cresciuto e nutrito
dalla fiamma dell’amore di Dio ( perché solo essa può avvicinare
l’uomo al mistero divino che è mistero d’amore).
Tuttavia, poiché intorno a questo problema molto
ha cercato la mente umana, ma poco è riuscita a capire, ti spiegherò
perché questo modo ( quello, cioè, della passione di Cristo) è
stato ritenuto da Dio il più adatto ( per punire e nello stesso
tempo salvare gli uomini ).
La divina bontà, che respinge lontano da se ogni
sentimento contrario all’amore, ardendo in se stessa (del fuoco
della carità), lo irradia intorno a se in modo da diffondere (su
tutte le creature) le sue eterne bellezze.
Ciò che deriva direttamente da Dio è eterno,
perché rimane indelebile l’impronta divina quando è suggellata
(sulle creature). .
La giusta punizione del
peccato d'origine con il sacrificio di Cristo fu, a sua volta,
punita da Dio, il quale mosse Tito a distruggere Gerusalemme,
dove si era perpetrato il grande oltraggio alla natura divina
di Cristo. I commentatori antichi e alcuni fra i moderni ritengono
che l'espressione giusta corte alluda direttamente a Tito, ma,
come obietta il Porena, Tito "era strumento inconsapevole della
punizione degli Ebrei; mentre la corte presuppone un giudizio,
una giustizia, una chiara coscienza di compierla; e tutto ciò
non poté essere che in Dio".
Ciò che discende direttamente da Lui è perfettamente
libero, perché non è soggetto all’influsso dei cieli.
(Ciò che è creato direttamente da Dio, essendo
dotato di incorruttibilità e di eternità) è più conforme a Lui,
e perciò gli è più gradito poiché lo splendore divino che irraggia
ogni cosa, risplende più intensamente in quella che più gli assomiglia.
Di tutte queste doti ( immortalità, libertà,
somiglianza a Dio ) si avvantaggia (sulle altre cose create) l’uomo;
e se una sola di queste sue proprietà gli viene a mancare, egli
necessariamente decade dalla sua condizione di privilegio e di
perfezione.
Solo il peccato però lo priva di questa libertà
(facendolo schivo delle passioni), e lo rende dissimile da Dio;
per la qual cosa egli poi si illumina della luce divina, e non
ritorna più nella sua dignità originaria, se non riempie il vuoto
prodotto dalla colpa nell’anima con un’adeguata espiazione che
si contrapponga al cattivo diletto (sperimentato nell’atto di
peccare).
La natura umana, quando peccò tutta nel suo progenitore,
fu privata di questi doni che costituivano la sua dignità, così
come venne privata del paradiso terrestre; né essi, se tu esamini
con la necessaria sottigliezza, si potevano recuperare in altro
modo senza passare per una di queste due vie; o che Dio perdonasse
solo per un atto di misericordia, o che l’uomo da se stesso riparasse
al suo folle errore.
Volgi ora attentamente lo sguardo nell’infinita
profondità delle decisioni divine, tenendoti stretto, quanto più
puoi, al mio ragionamento.
L’uomo, chiuso nei limiti di essere finito,
non avrebbe mai potuto offrire adeguata riparazione al suo peccato,
perché, ritornando all’ubbidienza, non poteva umiliarsi dopo la
colpa originale tanto quanto aveva voluto innalzarsi allorché
aveva disubbidito a Dio; e questo è il motivo per cui l’uomo fu
escluso dalla possibilità di riparare da solo al suo peccato.
Perciò era necessario che Dio reintegrasse l’uomo
nella pienezza del suo stato primitivo per mezzo della misericordia
o della giustizia, usando una delle due oppure entrambe.
Ma poiché ogni opera è tanto più gradita a colui
che la compie, quanto più dimostra la bontà dell’animo da cui
è nata,
La giusta punizione del
peccato d'origine con il sacrificio di Cristo fu, a sua volta,
punita da Dio, il quale mosse Tito a distruggere Gerusalemme,
dove si era perpetrato il grande oltraggio alla natura divina
di Cristo. I commentatori antichi e alcuni fra i moderni ritengono
che l'espressione giusta corte alluda direttamente a Tito, ma,
come obietta il Porena, Tito "era strumento inconsapevole della
punizione degli Ebrei; mentre la corte presuppone un giudizio,
una giustizia, una chiara coscienza di compierla; e tutto ciò
non poté essere che in Dio".
la divina carità, che imprime il suo suggello
sull’universo, si compiacque, per risollevarvi dal peccato, di
procedere per entrambe le vie.
Tra il primo giorno (quello della creazione)
e l’ultima notte (quella del Giudizio Universale ) non ci fu né
ci sarà mai un’azione così alta e magnifica, compiuta secondo
misericordia o secondo giustizia:
La giusta punizione del
peccato d'origine con il sacrificio di Cristo fu, a sua volta,
punita da Dio, il quale mosse Tito a distruggere Gerusalemme,
dove si era perpetrato il grande oltraggio alla natura divina
di Cristo. I commentatori antichi e alcuni fra i moderni ritengono
che l'espressione giusta corte alluda direttamente a Tito, ma,
come obietta il Porena, Tito "era strumento inconsapevole della
punizione degli Ebrei; mentre la corte presuppone un giudizio,
una giustizia, una chiara coscienza di compierla; e tutto ciò
non poté essere che in Dio".
perché Dio si mostrò più generoso nell’offrire
se stesso per rendere l’uomo capace di risollevarsi, che non se
Egli avesse perdonato il peccato solo per un atto della sua misericordia;
e tutti gli altri modi ( di redenzione ) sarebbero
stati inadeguati a soddisfare la giustizia divina, se il Figlio
di Dio non si fosse abbassato ad assumere la natura umana.
La giusta punizione del
peccato d'origine con il sacrificio di Cristo fu, a sua volta,
punita da Dio, il quale mosse Tito a distruggere Gerusalemme,
dove si era perpetrato il grande oltraggio alla natura divina
di Cristo. I commentatori antichi e alcuni fra i moderni ritengono
che l'espressione giusta corte alluda direttamente a Tito, ma,
come obietta il Porena, Tito "era strumento inconsapevole della
punizione degli Ebrei; mentre la corte presuppone un giudizio,
una giustizia, una chiara coscienza di compierla; e tutto ciò
non poté essere che in Dio".
Ora per appagare completamente ogni tuo desiderio
(di sapere), torno indietro a chiarirti un punto del mio ragionamento,
affinché, riguardo ad esso, tu possa comprendere la verità come
la comprendo io.
Tu ti chiedi: “Vedo che l’acqua, il fuoco, l’aria
e la terra e tutti i corpi composti dalla varia unione di questi
elementi sono soggetti a corruzione, e hanno una breve vita; eppure
anche queste cose sono state create da Dio, per cui, se ciò che
è stato detto (cfr. verso 68) è vero, esse dovrebbero essere immuni
da corruzione”.
Fratello, gli angeli e i cieli, la regione pura
nella quale tu ti trovi, possono dirsi, e tali sono veramente,
creati da Dio nella pienezza del loro essere;
ma gli elementi che tu hai nominato e quelle
cose che sono costituite dal loro vario comporsi prendono la loro
forma da una causa seconda.
La materia prima di questi elementi fu creata
direttamente da Dio;
creato direttamente fu anche il principio informatore
in questi cieli che ruotano intorno a quegli elementi e ai loro
composti,
La luce e il moto dei cieli estraggono l’anima
sensitiva degli animali e quella vegetativa delle piante dalla
materia che in potenza è disposta a ciò;
ma la somma bontà di Dio infonde direttamente
nell’uomo l’anima intellettiva, e la fa innamorare di se in modo
che poi senta sempre il desiderio del suo Creatore.
La giusta punizione del
peccato d'origine con il sacrificio di Cristo fu, a sua volta,
punita da Dio, il quale mosse Tito a distruggere Gerusalemme,
dove si era perpetrato il grande oltraggio alla natura divina
di Cristo. I commentatori antichi e alcuni fra i moderni ritengono
che l'espressione giusta corte alluda direttamente a Tito, ma,
come obietta il Porena, Tito "era strumento inconsapevole della
punizione degli Ebrei; mentre la corte presuppone un giudizio,
una giustizia, una chiara coscienza di compierla; e tutto ciò
non poté essere che in Dio".
E dal fatto che ciò che è creato direttamente
da Dio non è soggetto a corruzione puoi dedurre anche la verità
della risurrezione dei corpi, se tu consideri come si fece il
corpo umano.
La giusta punizione del
peccato d'origine con il sacrificio di Cristo fu, a sua volta,
punita da Dio, il quale mosse Tito a distruggere Gerusalemme,
dove si era perpetrato il grande oltraggio alla natura divina
di Cristo. I commentatori antichi e alcuni fra i moderni ritengono
che l'espressione giusta corte alluda direttamente a Tito, ma,
come obietta il Porena, Tito "era strumento inconsapevole della
punizione degli Ebrei; mentre la corte presuppone un giudizio,
una giustizia, una chiara coscienza di compierla; e tutto ciò
non poté essere che in Dio".
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